Sergio Quinzio*

LIMITE, SOFFERENZA, MORTE, CON O SENZA IL CROCIFISSO

 

 

Il giorno in cui una tragedia umana, qualunque essa sia, sarà da noi trattata come un atto di ordinaria amministrazione, quel giorno segnerà la vittoria del nemico”.

Elie Diesel, Il quinto figlio

 

         A chi guarda dall’esterno – per esempio a un induista o a un mussulmano, ma anche a chi ha una concezione laica della vita – i cristiani appaiono facilmente come coloro che hanno un’eccessiva attenzione e preoccupazione di fronte alla sofferenza e alla morte.

         In realtà, c’è un orizzonte mentale in cui la sofferenza e la morte perdono gran parte del loro scandalo per diventare accadimenti naturali da accettare in quanto tali. E’ l’orizzonte di un pensiero che guarda le cose da un punto di vista astrattamente “universale”, e per il quale perciò l’esperienza dei singoli, ciò che è concretamente particolare, non ha vera rilevanza. Uno scrittore morto suicida ma fortemente attratto dalla fede cristiana, Guido Morselli, ha dedicato acute pagine a questo argomento nel suo libro postumo Fede e critica (Adelphi, Milano 1977), osservando che la sofferenza e la morte si dissolvono quando, anziché vissute, vengono considerate da un lontano punto di vista generale, nel quale tutto risulta necessariamente compensato e conciliato. Per l’agnello è male essere divorato dal lupo, e per il lupo è bene divorare l’agnello: ma per chi valuta le cose globalmente nella loro totalità l’esperienza dell’agnello e quella del lupo si elidono a vicenda, scompaiono. Come pensava Eraclito, il bene e il male sono tali per gli uomini, non per gli dèi.

         L’orizzonte in cui ha senso la rivelazione del Dio che annuncia la salvezza agli uomini è un orizzonte diverso, opposto. Il cristiano non può dimenticarlo. Il Dio di Gesù, il Dio della Bibbia, è il Dio che ha creato l’uomo e si è legato a lui in un patto d’amicizia per amore, che ha cura non solo della vita di ciascuno di noi, ma di ogni capello del nostro capo (Mt. 10,30). Dio non è indifferente alla sofferenza e alla morte delle sue creature, ma per amore si lascia coinvolgere nel destino dell’uomo, fino a rendersi come lui sofferente e mortale. In tale orizzonte che è l’orizzonte biblico, la sofferenza e la morte ingigantiscono: “Costa agli occhi di Dio la morte dei suoi amici” (Sal. 116, 15). E’ per questa divina “logica” che la passione di Gesù, uomo-Dio crocifisso, acquista il potere di redimere il mondo.

         Per il cristiano dunque, che ha nella croce il suo emblema, la sofferenza e la morte hanno un’importanza centrale ed unica, infinita, che altre culture e altre tradizioni non conoscono.

         E tuttavia, accade che, per ragioni diverse e per vie diverse, la fede cristiana sia stata e sia spesso rappresentata accentuando in essa gli aspetti che legati alla gioia pasquale della risurrezione di Gesù, tendono a “superare” lo scandalo della sofferenza e della morte. Per un verso allora il dolore fino alla morte viene accettato nell’identificazione a Gesù crocifisso che l’ha scelto per amore nostro; e per altro verso, in quanto liberamente accolto, diventa la via alla risurrezione che, in Cristo, l’ha già vinto e trasceso. La morte, come dice Paolo, ha già perduto il suo pungiglione (1 Cor 15,55).

         Duemila anni di esperienza cristiana e di riflessione teologica su questi inesauribili temi, in definitiva sul mistero fondamentale e unico della nostra fede, non consentono risposte univoche, formule risolutive, che potrebbero nascere solo da indebite semplificazioni. E tuttavia resta vero quello che il defunto cardinale segretario di stato Veuillot ha detto, e sono state le sue ultime parole dal letto di morte: “La gente di chiesa parla troppo facilmente della sofferenza” (Umanizzare la malattia e la morte. Documenti pastorali dei vescovi francesi e tedeschi, Paoline, Roma 1980, p. 51).

         Credo anch’io che la parte data nella dominante sensibilità cristiana alla Domenica di Pasqua nei confronti del Venerdì Santo tenda a prevaricare, a nascondere lo scandalo e l’orrore della sofferenza e della morte, che invece solo in quanto riconosciute e vissute come scandalose e orribili sono oggetto della divina redenzione. La gioia della risurrezione è reale solo se è reale l’angoscia delle tenebre del Golgota.

         Si dimentica troppo spesso, a me sembra, che  la sofferenza e la morte raggiungono intensità e penosità spaventose, inimmaginabili. A fare problema, a suscitare domande veramente radicali (quelle domande radicali che solo il credente nel Dio crocifisso può osare di porsi) non è il “normale” corso della vita umana che alterna piaceri e dispiaceri, motivi di gioia e motivi di afflizione, fino al suo “naturale” spegnimento nella morte. A fare problema, a imporre l’ultima domanda, è ciò che, esemplificato in Giobbe, dà il titolo a un libro di Philippe Nemo: l’eccesso del male (Job et l’excès du mal, Grasset, Paris 1978).

         L’eccesso del male non è definibile né misurabile, non esiste nessun oggettivo e universale principio in base al quale stabilire quando la sofferenza diventa eccessiva. Chi sperimenta come tale non ha bisogno di criteri per accertarsene. Elie Weisel, lo scrittore ebreo liberato a diciassette anni dai campi di sterminio nazisti, dove aveva perso tutta la sua famiglia, racconta di un bambino impiccato che pende a lungo dalla forca senza riuscire a morire, e nel quale un prigioniero ebreo, rispondendo al compagno che chiedeva dove fosse l’Onnipotente in quel momento, identifica Dio stesso (La notte, La Giuntina, Firenze 1980, p. 66s).

         Ma non c’è bisogno di mostruose aberrazioni storiche per farci incontrare l’eccesso del male; se ne abbiamo il coraggio, pensiamo al bambino di cui malgrado la nostra cattiveria (Mt. 7, 11) non siamo ancora riusciti a dimenticare il nome, Alfredino, che è morto sprofondando lentamente per decine di metri in un cunicolo sotterraneo. Pensiamo agli inguardabili ammassi informi di carne umana che tengono racchiusa una sensibilità spirituale, raccolti dalla pietà del Cottolengo.

Anche Giobbe, che all’inizio delle sue sciagure aveva continuato a benedire Dio, giunge alla fine a interrogare con violenza polemica quel Dio al quale non cessa di credere e al quale non cessa di affidarsi. C’è un eccesso del male, e se è vero quel che è scritto nell’enciclica dell’attuale pontefice “Salvifici doloris” circa il valore umanizzante della sofferenza, è vero anche che, oltre certi limiti, la sofferenza cancella la dignità dell’uomo, lo rende miserabile “abbietto”, fa di lui un verme e non più un uomo (Is. 53).

         La croce, coinvolgendo nel dolore e nella morte Dio stesso, è la più abissale rivelazione del loro orrore. Se le antiche civiltà insegnavano ad accettare serenamente le sofferenze e la morte come un inevitabile fato al quale sottomettersi, la nostra civiltà, proprio perché segnata in sia pur misero e contraddittorio modo dal fermento cristiano, non tollera più la sofferenza e – come hanno contribuito a mostrare i nuovi tanatologi, Ariès, Novelle – ha generato un tipo umano che non può più sostenere il pensiero della morte. La mia convinzione è che in profondità, contro le apparenze, la fede renda più acuto il senso della sofferenza e della morte. Paradossalmente, lo fa nel momento stesso in cui addita la speranza della consolazione e della restituzione della vita, perché proprio facendo questo mantiene aperta la piaga, impedisce di chiuderla con la rassegnazione all’ineluttabile.

         Abbiamo testimonianze eroiche di credenti che, per amore di Cristo, hanno abbracciato le loro sofferenze, anche le più terribili. Basti ricordare il nome di Benedetta Bianchi Porro. Ma non possiamo dimenticare che esistono altri modi, cristianamente almeno altrettanto legittimi, di identificazione a Cristo crocifisso: Santa Teresa di Lisieux, che aveva offerto con gioia la sua vita al Signore, muore giovanissima e nelle sue tremende sofferenze confessa che tutti i dubbi e tutte le ribellioni dei peccatori più incalliti le attraversano l’anima e li fa propri (cf. Guy Gaucher, La passione di Teresa di Lisieux, Città Nuova, Roma 1975). Più ancora che la propria sofferenza e la propria morte serenamente accettate sono la sofferenza e la morte del prossimo che ci è davvero molto prossimo, sono la sofferenza e la morte dell’innocente di cui ci facciamo carico, a renderci partecipi della croce di Cristo. Del resto i diversi “modelli” dell’obbediente e serena accettazione del patire e del morire (o addirittura entusiastica, come negli antichi martiri cristiani) e della “disperazione” del fedele che nell’eccesso del patire e del morire si sente abbandonato dal suo Dio e grida ancora e sempre a Lui il suo abbandono, sono entrambi testimoniati già negli stessi vangeli. I vangeli di Matteo e di Marco, i più vicini nel tempo ai fatti che raccontano, mostrano la terribile solitudine di Gesù che con un grido violento precipita nell’abisso della morte, i vangeli di Luca e Giovanni descrivono il sereno abbandono al Padre di Gesù agonizzante.

         Sören Kierkegaard confronta la sofferenza e la morte del credente, che sa di essere giustamente punito in quanto peccatore, e che appoggia il suo capo sul petto di Gesù crocifisso, con la sofferenza e morte del suo Signore, che assurdamente muore sapendosi innocente e posa il suo capo sul duro legno della croce (cf. S. Kierkegaard, Vangelo delle sofferenze, Sansoni, Firenze 1972, pp. 857-870). Ma accanto a questo atteggiamento profondamente devoto, e che nella devozione trova qualche conforto, c’è l’esperienza, che a me appare più intimamente vicina a Gesù, di chi si fa in qualche sia pur povero modo partecipe della terribile, dell’insostenibile esperienza del Gesù crocifisso, decretata da una misteriosa, abissale volontà del Padre (Mt. 26, 39).

         Vorrei ricordare, in proposito, la testimonianza di due autorevoli filosofi cattolici contemporanei. Quella del gesuita P. Xavier Tilliette, anzitutto, che vede nella croce di Cristo la sofferenza e la morte di Dio, perché “Dio è il soggetto ultimo di attribuzione delle azioni compiute e subite da Gesù Cristo”; “Dio entra nel terrore e il freddo della morte, subisce la caduta vertiginosa nel tartaro profondo, è la preda dell’angelo dell’abisso detto in ebraico Abbandon… Non è il caso di scostarsi dal realismo, malgrado la tendenza docetista abituale alla mentalità cristiana. Bisogna scartare la rappresentazione d’uno sdoppiamento, come se la divinità, intatta e distante, imponesse e si desse in spettacolo il dolore e il trapasso”. E ancora: “Una riflessione sulla Natura e il mistero del Male conduce a riportare fino a Dio stesso l’origine del dolore” (Le cri de la croix, in “Giornale di metafisica”, IV, 1982, pp. 85-100). L’altra testimonianza è offerta da Luigi Pareyson in un suo studio su La sofferenza inutile in Dostoevskij: “Il gran problema di fronte a cui si ferma raccolto e pensoso l’uomo sollecito delle ansie dell’umanità è pur sempre quello del male e del dolore. L’idea cristiana del redentore sofferente è la forma più sublime dell’idea, antica e ricorrente, che il male e il dolore restano incomprensibili se non sono portati dentro la stessa divinità. E’ ben questo che Dostoevskij conferma nel modo più attuale e significativo: egli rende particolarmente plausibile e accettabile l’idea che il dramma umano della sofferenza non si spieghi che come dramma divino, che la tragedia dell’umanità in preda al dolore sia anche la tragedia di Dio” (in “Giornale di metafisica”, IV, 1982, pp. 123-170). La consapevolezza espressa da questi autori addita in tutta la sua profondità il mistero del dolore divino e umano. Posto di fronte a questo supremo mistero, il credente, più che abbandonarsi fiducioso alla pietà divina, giunge, pur nella sua estrema povertà, a farsi carico della divina sofferenza; più che ricevere il conforto della pietà divina, sente di dover anzitutto “avere pietà di Dio”.

         Questo ci insegna a guardare alla “gioia pasquale” con la coscienza che la risurrezione di Cristo non è ancora la pienezza della salvezza, e che perciò non ha ancora cancellato lo scandalo, l’orrore della sofferenza e della morte: anzi, in un certo senso, li ha aggravati, per il divario ancora esistente tra la “primizia”, la “caparra” che secondo il linguaggio paolino già possediamo in spirito nella risurrezione di Cristo e l’esperienza del tardare della pienezza escatologica annunciata, dal perdurare ancora di infinite ingiustizie e tribolazioni.

         Sebbene Cristo sia risorto, il mondo è ancora sotto il dominio di Satana e dunque preda della morte (1 Gv. 5, 19): perciò i martiri devono ancora completare nella loro carne quello che “manca ai patimenti di Cristo” (Col. 1,24), e ancora gridano per invocare dalla giustizia divina la fine del male del mondo (Ap. 6,9-10). La morte, l’ultima nemica, non è ancora vinta (! Cor. 15, 26), e siamo ancora in attesa della “redenzione del nostro corpo”, perché, fino a questo momento, la nostra salvezza è “nella speranza” (Rm. 8, 23-24).


*     Sergio Quinzio, scrittore e giornalista.