Giancarlo Finazzo*

LA MORTE NELLA FEDE ISLAMICA

Per il credente mussulmano la morte non costituisce uno dei problemi dell’esistenza umana. Molti sentimenti e concetti che inseriscono al tema della morte e che hanno avuto ed hanno tuttora un’importanza non secondaria sia per il pensiero filosofico dell’Occidente, sia per la dottrina cristiana, possono apparire incomprensibili o privi di significato se esaminati alla luce della fede islamica. Ciò che riduce l’importanza teoretica e psicologica dell’esperienza della morte, è l’idea di Dio per come essa è interpretata e sentita dai mussulmani.

Il Dio dell’Islam è la sostanza prima e inalterabile, ossia il principio attivo provvisto di energia inesauribile che opera come causa efficiente di tutto ciò che esiste. In quanto dispensatore di vita e creatore di un universo la cui struttura è perfetta. Dio si rivela come il sommo Bene, la suprema intelligenza e la Volontà in assoluto. Egli è l’onnipotente, la ragione insindacabile di ogni manifestazione materiale e spirituale, e la legge che regola l’universo ed ogni singola forma di vita. Le creature umane pervengono al riconoscimento di questi attributi divini non tanto come un atto di fede, quanto attraverso la loro esperienza quotidiana del mondo – un’esperienza in cui trovano la conferma che Dio è l’Ente capace di agire in modo del tutto autonomo e senza limiti o impedimenti di sorta.

La condizione in cui vengono a trovarsi le creature rispetto al loro Creatore, è pertanto quella di una dipendenza totale e costante . Il Dio dell’Islam, infatti, è il sovrano che si è "assiso in trono": Egli non "si riposa", non "cessa da ogni opera" (Genesi 2, 2-3) e non cede il governo dell’universo agli individui del genere umano. In quanto causa necessaria, Egli agisce ininterrottamente sul creato, per "sorreggerlo" e per governarlo. Il credente musulmano ritiene, dunque, assurdo pensare che Dio possa sospendere in qualche misura la sua azione di dispensatore di energia e di regolatore della stessa: se Egli cessasse di agire sull’universo questo affonderebbe nel nulla, così come cesserebbe di esistere il fiume la cui sorgente interrompesse l’effusione d’acqua.

Questo concetto dell’incessante attività divina, dal quale discende la nozione di "creazione continuata", è profondamente radicata nella coscienza dei credenti. Esso dà ai musulmani il senso vivissimo per la onnipresenza attiva di Dio e per la debolezza, la defettibilità e la caducità dell’uomo e della sua realtà. Tutto ciò permette ai musulmani di distinguere con sicurezza tra la categoria dell’essere e quella dell’esistere: la stessa lingua araba facilita la netta distinzione tra gli attributi ed i poteri di Dio e quelli dell’uomo, rafforzando nei credenti il senso per l’assoluta alterità ontologica o di sostanza tra la natura del Creatore e quella degli enti da Lui creati. Tutto viene da Dio, tutto dipende da Dio, tutto ritorna a Dio.

Il Dio dell’Islam è pertanto il Sovrano-Padrone dell’universo, alla cui volontà è sottoposto anche il genere umano. La distanza che separa i sudditi dal Sovrano è e resta incolmabile, sì da indurre ogni individuo ragionevole a sottomettersi a Lui, ad osservarne le leggi che sono immutabili, ad accettarne i voleri ed a confidare nella sua clemenza. Questo atto di fiduciosa sottomissione (Islam) è agevolato dalla certezza che Dio è il sovrano giusto ma anche misericordioso e compassionevole. Dio legge nei cuori delle sue creature, ne conosce i bisogni, ne ascolta le invocazioni, ed è sempre pronto al perdono. Dio sa tutto dell’animo umano poiché è Lui che l’ha creato, predisponendo anche i sentimenti ed i pensieri che lo agitano.

Riassumendo diremo che l’esperienza di Dio è l’unica esperienza esistenziale veramente fondamentale per il musulmano: egli è cosciente di trovarsi "alla mercé" del Creatore, ed è pervaso dai sentimenti di timore, di profonda devozione e di illimitata ammirazione per la maestà e la terribile potenza di Dio. Ogni altra esperienza appartiene alla sfera dell’umano e del mondano ed è per ciò stesso contingente, relativa e subordinata. E’ l’esperienza di Dio che sovrasta ogni altra e che ne determina il significato ed il valore.

Per quanto detto dovrebbe essere facile capire che l’esperienza della morte non ha e non può avere per i musulmani un valore concettuale di particolare rilevanza, né provocare in essi stati d’animo tali da indurre a riflessioni prolungate e tormentose. Il credente sa che ogni momento ed ogni aspetto dell’esistenza umana è stato preordinato da Dio, secondo un disegno che l’uomo non potrà mai conoscere compiutamente, né modificare o annullare. Il credente è consapevole che c’è una Forza intelligente e benefica che lo sovrasta, e contro la quale egli nulla può. Dov’è, infatti, l’uomo capace di creare dal nulla, o capace di riportare l’anima nel corpo di un defunto, o impedire che la morte colga una persona a lui cara? (Corano LXXV, 26-29; LVI83-87; IV, 78).

Anche la morte non è che un fenomeno predisposto da Dio – e poiché anche la morte viene da Lui – essa sarà accolta in spirito di ragionevole e fiduciosa accettazione. Quest’accettazione fiduciosa è resa possibile in modo specifico dall’idea dell’incessante vicinanza di Dio. Si ricordi che lo stato di angoscia esistenziale si instaura quando l’uomo viene sopraffatto dal senso del nulla e quando egli si trova di fronte ad una privazione di significato. E’ allora che si ingenera in lui quel sentimento di abbandono, di solitudine e di vuoto, che lo sgomenta e lo deprime.

Per il buon musulmano, che è pervaso fin dall’infanzia dal senso per la presenza necessaria e attiva di Dio, la possibilità stessa del vuoto e della mancanza di significato è esclusa in termini. Il nulla diventa, infatti, teoricamente impossibile, poiché esso presuppone l’assenza di Dio – e diventa psicologicamente irrilevante poiché la presenza costante di Dio che è sostanza e significato, e che "regge" personalmente l’universo, non permette l’insorgere del sentimento del vuoto e della solitudine.

Il sentimento tipicamente islamico del sapersi sempre "alla mercé" di Dio, non ha dunque un valore soltanto "negativo": il sapersi "nelle mani" di Dio onnipresente, intelligente e misericordioso, dà all’uomo anche la certezza di trovarsi costantemente "a contatto" dell’essere. Ed è proprio questo sapere che l’"occhio di Dio" non abbandona mai le sue creature, ma le accompagna e le "sorregge" ovunque, la causa primaria della serenità di spirito e della forza d’animo che caratterizzano il credente musulmano.

Non sorprende allora che nel Corano i riferimenti alla morte abbiano quasi tutti la semplice funzione di comprovare l’assoluto potere di Dio e, in particolare, la sua facoltà di determinare a piacimento l’inizio e la fine dell’esistenza di ogni ente creato (III, 145; XLV, 24-26).

Più interessanti sono forse i versetti in cui la fine dell’esistenza terrena è definita "un assaggio di morte" che l’uomo ha quando la sua anima si separa dal corpo (III, 185; XXI, 57; XXXVII, 59). Si tratta, in effetti, soltanto di "un assaggio", poiché l’uomo è destinato a vivere in eterno nel Giardino dei beati, od a soffrire senza limiti di tempo le pene dell’inferno (XIV, 17; XX, 74). Per i miscredenti – gli unici peccatori ai quali Dio non concede il perdono – non ci sarà infatti "né vita né morte" (XX, 74; LXXXVII, 13).


*     Finazzo Prof. Giancarlo, docente di Filosofia Teoretica all’Università di Roma, esperto di Islam