Franco Monterubbianesi*

AMORE, MORTE, RESURREZIONE NELL’ESPERIENZA DEGLI HANDICAPPATI

Vi dirò la mia esperienza di vita con gli handicappati di Capodarco, con cui sono in comunione dal 1966, confrontandomi con il testo della Dives in Misericordia che ho più volte letto attentamente.

E il bandolo della matassa, cioè la linea con cui mi esprimerò è proprio: Amore, morte, resurrezione nell’esperienza degli handicappati con me, con noi (così correggo il testo propostomi), dicendo così "con gli handiccapati"; nell’esperienza cioè di comunità di vita avuta con loro.

Esperienza di Resurrezione

Ci siamo chiamati "Centro Comunitario di Gesù Risorto" sin da quando nel 1965 lanciammo il nostro discorso a Lourdes (un gruppetto di handicappati e sani) "vogliamo testimoniare che Cristo non è solo morto nei nostri mali, ma è risorto e vogliamo testimoniarlo nel creare la nostra operosità umana, sociale, cristiana".

Questa fu la sostanza dell’appello lanciato a Lourdes.

Così, da allora abbiamo intessuto una vita comunitaria, di totale condivisione della sorte degli handicappati, all’inizio handicappati fisici, in quel tempo chiusi in istituzioni globali, emarginati dalla società, rassegnati religiosamente a portare solo la croce.

"La vita continua", "I figli di Dio hanno messo le ali", "La comune dei risorti", "La microsocietà perfetta di Capodarco" e l’immagine pittorica di un Cristo Crocifisso che tenta di alzarsi dalla Croce, dipinto da un ragazzo miodistrofico sulla copertina di uno di questi libri o articoli così variamente intitolati, erano e sono stati, espressivamente, la forza, il grido, lo slancio con cui effettivamente abbiamo camminato insieme nella resurrezione concreta dai mali dell’handicappato fino a vendere simbolicamente (sempre in un libro fotografico intitolato "Uomo 70") la nostra carrozzina. Pur rimanendo in carrozzina, in barella persino, sentirsi ed essere uomini liberi. Liberi perché lavoratori come gli altri, padri di famiglia, cittadini come gli altri.

Ed è proprio Giovanni Gagliardi di S. Benedetto del Tronto che, tranquillamente, pur stando in barella, va a vedersi al campo sportivo le partite di pallone, come qualsiasi altro giovane.

Persino operatori sociali assistenti, non più assistiti, come Nunzia Coppedè della nostra Comunità "Progetto Sud" di Lamezia, nata con alcune grosse difficoltà, ma trascurata e chiusa al Cottolengo di Roma, che, rivedendo questo anno al III Convegno Nazionale del Volontariato a Lucca le suore del Cottolengo, poteva dire loro: "Quella che voi tenevate come assistita ed incapace di tutto, oggi qui, è presente come una operatrice sociale".

La dimensione divina della redenzione, nel nostro fare comunità concreta con Nunzia togliendola dal Cottolengo, si è attuata nel restituire all’amore quella forza creativa nell’uomo grazie alla quale egli ha nuovamente accesso alla pienezza di vita… e di santità (Dives, p. 7).

La pienezza di vita di una dignità ritrovata, in mille storie da noi rivissute e situazioni da noi affrontate, facendo vita comune concreta con gli handicappati.

Essi, prima esclusi, ripiegati in se stessi, soffocati da limiti propri e istituzionali "hanno messo le ali".

Sono diventati protagonisti in mille modi di tanti sviluppi personali e comunitari (14 comunità locali sparse in Italia, 17 cooperative di produzione lavoro o servizi, servizi vari sul territorio, animazione e promozione sociale di tante prese di coscienza, di leggi persino).

Tanti gli sviluppi personali (esempio: giovani handicappati in carrozzina laureati in medicina, psicologia, pedagogia, ecc.).

Quello che era stato il nostro grido di battaglia "CRISTO" è risorto sui nostri mali" è diventato canto di liberazione, di realizzazione di tante vite.

È l’amore misericordioso, il Cristo Pasquale, che si rivela da sempre e per sempre, verso i poveri, i sofferenti e i prigionieri, verso i non vedenti, gli oppressi e i peccatori (Dives, 8), nella loro liberazione concreta da ogni oppressione sia fisica che sociale, nel far comunità di vita con essi.

Il regno anticipato

Il compimento escatologico realizzato da Lui nel suo risorgere, si realizza in termini anticipatori nella comunione e condivisione di vita con gli emarginati, di ogni tempo, nel comune processo di liberazione che si instaura con essi per forza e necessità di cose, per il concreto superamento del bisogno.

Esso diventa storia concreta di tanti processi in cui la vastità del male sociale, che causa l’emarginazione, viene affrontata e in parte risolta.

È la società "diversa" che l’uomo amato, accolto in comunità, riesce a creare (come nuova pienezza creata dall’amore) nelle strutture concrete di vita comunitaria, di articolazione di gruppi di famiglie, nella nascita di nuove famiglie, dette famiglie aperte, nella forza di iniziative comuni di lavoro, come le cooperative, nella gestione sociale dei servizi aperti sul territorio.

Ed è per questo, per queste realizzazioni così vaste e caratterizzate del nostro vivere, che oggi siamo arrivati nel nuovo statuto associativo che stiamo riproponendo come frutto di tanti cambiamenti, a rinunciare al titolo religioso (non ci chiameremo più Centro Comunitario Gesù Risorto, ma semplicemente Comunità Capodarco) perché è ormai nella realizzazione concreta di tanti stili di vita, di tante nuove scoperte di valori, d’altronde ripetibili in altri contesti, che abbiamo realizzato la resurrezione di Dio in noi, in tanti frutti di vita.

Giunti a questo punto devo analizzare l’altra parte della relazione: amore, morte, nell’esperienza con gli handicappati, proprio per dire a questo mondo come deve integrare la giustizia realizzando la misericordia, se non vuole essere sempre più disumano e devastato, giungendo così a risoluzioni decisive per l’avvenire dell’uomo e di tutta l’umanità (Dives, 11, 12).

Devo dire quanto amore dai nostri e altrui segni di morte abbiamo realizzato! Quanta forza c’è allora nel nostro messaggio di vita e nella nostra proposta per i giovani che hanno cercato a volte solo la giustizia, rimanendo così delusi!

Come l’amore dalla morte?

Era la morte civile per molti di essi, essere handicappati.

E fu proprio dall’assunzione comune di tali situazioni limite da parte dei giovani che hanno creduto di essere solidali sino in fondo alla sorte umana, e dall’armoniosa pienezza di una disinteressata dedizione alla causa dell’uomo alla verità e all’amore (Dives, 7) che è nata la comunità.

La comunità è stata fatta da giovani volontari che si sono fatti comunitari degli handicappati sino in fondo.

Questo scambio profondo in cui, come dice l’enciclica, anche chi dona riceve (Dives, 14) e che si fa dedizione alla verità e all’amore, da parte di tutti quelli che si coinvolgono pur nel pluralismo delle loro idee e matrici, realizza poi, un di più del vivere per tutti, una creatività eccezionale di amore, che è la sostanza del vivere in comunità e che ora racconto in alcune storie emblematiche, proprio per far capire il valore di queste esperienze d’amore e solidarietà sino in fondo, che creano la comunità.

L’amore dei gruppi famiglia

Quanto amore per esempio, viene realizzato in quei giovani, segnati duramente dalla distrofia muscolare progressiva, che fan parte della comunità, dal loro desiderio di vita e di affetto!

Penso a Memmo e a Michele sposati con le loro donne anche loro handicappate, creatori e sostenitori di gruppi di famiglia.

Fino al limite delle loro forze; uno come esse, Antonio Petruzello, anche lui miodistrofico, quando morì su una strada di periferia, tornava dal comitato di quartiere, con in mano l’indirizzo della via dove doveva sorgere la farmacia per una borgata che ancora non l’ha; lo attendeva in casa una giovane sana che di lì a poco lo avrebbe dovuto sposare. Lui, però, aveva ormai dato tutto di sé alla comunità, alla cooperativa elettronica, a lei. L’autopsia che facemmo fare, data la morte sulla strada, rivelò che il suo cuore non esisteva più come muscolo. Tutto aveva dato alla vita, al lavoro, all’impegno sociale, all’affetto, all’accoglienza del suo gruppo aperto. Gli hanno intitolato il centro sociale della borgata.

Stiamo oggi tremando per Memmo, anche lui miodistrofico, per il suo stato di salute, ma quando chiuderà gli occhi, avrà la consapevolezza profonda esaltante di essere stato, lui che doveva prevenire, con sua moglie, anche lei distrofica, le nascite, padre di tanti giovani che nel suo gruppo famiglia hanno trovato la dimensione di sé e della propria disponibilità a servire.

Egli vive e anima il gruppo della comunità agricola di Grottaferrata, donataci dalle suore Missionarie Francescane di Maria.

Quanti giovani, quanti altri handicappati, hanno trovato in lui oltre che il maestro di pittura e di ceramica, il padre di vita!

L’amore delle famiglie aperte

Quante famiglie nostre nate sotto questo segno della famiglia aperta! Famiglie, per esempio, di paraplegici che pur nell’impotenza dell’amore fisico, dato che sono colpiti al midollo spinale, si realizzano nell’accoglienza di bambini abbandonati non nel senso dell’adozione, che pur potrebbe esserci, ma nel senso dell’affidamento collaborando così con la famiglia in difficoltà!

Raffaele e Alfonsina, Paolo e Betti, Renato e Concetta, Ninetta ed Ernesto: tutte famiglie aperte all’accoglienza di minori.

L’amore dei sessi portato sino all’estrema conseguenza di essere accoglienza dell’Uomo, del Figlio dell’Uomo, abbandonato sulla strada, negli Istituti, dove tanti bambini languiscono perché non c’è amore che li accoglie. La nuova legge 184 dice all’art. 1 il diritto di ogni bambino ad avere una famiglia educatrice, accogliente, anche se ha la sua famiglia in difficoltà e che va quindi integrata.

Se non si passerà concretamente a questa azione di accoglienza quando si battezzano i bambini e poi li si lascia o si mettono in istituto, tradiamo il senso concreto del battesimo, con cui i bambini sono accolti dalla comunità. Accolti nella comunità, dentro ad una famiglia per farli crescere. Questo sempre dovrebbe accadere, anche quando la propria famiglia è in difficoltà.

"L’amore" profondo delle nostre famiglie

Aldilà delle famiglie aperte all’accoglienza, quanta misericordia abbiamo sperimentato e viviamo nel creare le nostre famiglie, per i sentimenti profondi di appartenenza, di tenerezza, di perdono e consolazione della vita, con cui Dio dice di amare la nostra umanità nel sacramento-mistero del Matrimonio, quando per vite stroncate da un incidente, da un banale tuffo in mare, da una malattia progressiva nascono sentimenti di amore, di dedizione reciproca sino a far formare una nuova famiglia! Famiglie splendide, ricche di gioia, tra handicappati, tra sani e handicappati, tra sani. Splendide così le nostre feste di matrimonio, richiamo autentico di tanti amici sinceri. Una sola coppia si è sposata in comune. Ma poi, prendendo coscienza, hanno battezzato il loro bambino.

Le vocazioni personali di servizio, di amore accogliente

Tutti partecipano in tale clima di questo slancio d’amore, di dedizione, tutti diventano protagonisti di impegni comunitari, sociali, cooperativistici.

Si scoprono sempre più ulteriori vocazioni di sevizio e di amore.

Anche la persona singola può, vivere la sua vocazione di dedizione affettiva e qualche situazione limite. Nella nostra comunità, un sacerdote, anzi due sacerdoti, sono arrivati ad adottare due bambini (uno spastico, l’altro figlio di nomadi).

Marisa spastica dalla nascita, in carrozzina, comunitaria sin dall’inizio, vive ormai dal 78 una grandissima vocazione di maternità con Pia. Pia ha 21 anni ed è schizofrenica (almeno così la definiscono). Pia non è in abbandono dentro un ospedale psichiatrico, come sarebbe stata la sua sorte, come sarebbe stata condannata per tutta la vita, se non l’avessimo accolta attraverso Marisa.

Il primo anno che ce l’hanno consegnata piena di farmaci: scappava continuamente. Anche ora è molte volte confusa, aggressiva, ma vive con noi come una figlia, io sono uno de suoi autisti preferiti.

I suoi occhi azzurri, il suo esplodere nella gioia, nella ripetitività delle espressioni, sono una nostra canzone d’amore, anche se piena di ansia per lei. Marisa si sta perdendo appresso a lei. Siamo però in molti a sostenerla: un’altra famiglia giovane, una suorina in questi mesi, altri volontari a turno, una psicologa all’esterno.

Bruna, prima di sposarsi, poliomielitica in carrozzina, ebbe l’ardire di prendersi 5 fratelli in affidamento. Poi, fidanzatasi con Adriano, prese anche Marco.

Si sposò e Marco cambiò tutto quello che aveva sofferto in 4 anni di abbandono con 1 anno di vita intensa familiare: sprizzava gioia da ogni parte. Per una banale operazione morì. Era però un bambino miodistrofico. È seppellito nel cimitero delle suore di Grottaferrata a rallegrarle, unico bambino, con la sua presenza.

Poi, a sostituire Marco, con tante difficoltà, figlia del miracolo è nata Ilaria a dare loro la gioia del loro appartenersi. Tutto ciò è stato dato a Bruna che aveva conosciuto giovane la totale esclusione del Cottolengo di Firenze.

Romana, anche lei ebbe la gioia di sentirsi amata da un bambino Tonino, che aveva tanto sofferto per storie particolari. Fu affidato personalmente a me dal padre molto anziano. Ce lo portò via una macchina sulla strada Tuscolana, ma dopo che aveva tanto rivissuto il bene da potersene tornare in cielo da tutti i suoi che lo attendevano.

Ora, Romana fa la madre ad un bambino figlio di ragazza madre, che deve imparare ad essere madre "vera" anche lei per riaverlo. E noi la stiamo aiutando.

Lidia, nel suo amore di sposa, con il suo Luigi, ha accolto Alessia perché oltre la sua mamma che fa la vita, avesse una famiglia totalmente disponibile a lei per darle serenità, rassicurarla. Quando venne era una piccola selvaggia.

Mille sono le storie personali di vocazione di amore che si possono vivere quando si fa insieme comunità di vita con i poveri, tra i poveri con legami concreti di vita comune, di gruppo, di famiglie aperte, di famiglie collegate da un principio di abitare insieme, di cassa comune, di rapporto totale come lo viviamo noi.

L’attualità della Madre della Misericordia

Questo concetto della Madre della Misericordia che è la Madonna non può non essere realizzato in tante storie possibili di dedizione in cui la donna, non solo la donna sposata, deve rendersi conto delle possibilità di amore della sua vita. La donna, oggi, deve spingere a fondo tale sua ricchezza. Viene dalla Madre della Misericordia che ha reso possibile con il sacrificio del cuore rivelare la misericordia divina (Dives, 9).

L’altro giorno sono stato al funerale di Enelda, in Abruzzo, una nostra povera donna di 51 anni che per tanti rifiuti familiari (per le famiglie è difficile da sole portare avanti certe storie) ma anche per la complessità della nostra vita, ma soprattutto per la sua malattia di fondo cerebrale (era epilettica) i farmaci che l’hanno, alla fine, intossicata, le psicopatie dell’età, è morta mentre era alla ricerca dell’affetto dei suoi, proprio nel suo paese d’Abruzzo, dopo aver partecipato alla festa paesana con gioia, quasi a scambiare con un giorno di gioia tutta una vita di ansia di bene.

Banalmente, scendendo da un pullman.

La sua morte liberatoria (aveva tanto invocato la pace, non sapeva nemmeno più lei quello che voleva, si sentiva perseguitata da tutti) l’ha portata alla casa del Padre, l’unico che potrà darle pace e l’amore che cercava: ma dietro alla sua bara, davanti ai parenti, con me, che le ho fatto come potevo da padre, c’era una bambina che portava i fiori, figlia di una ragazza madre che l’aveva avuta in mille maniere disponibile a tenerla, quando la ragazza madre, impiegata come infermiera non sapeva a chi lasciarla.

Quella bambina tenera, commossa, con i fiori in mano era il segno che la vita di Enelda non era stata inutile, aveva invece tanto valore.

Il suo morire è oggi per noi, segno di misericordia, sui tanti limiti della comunità.

La chiesa oggi nel suo compito di misericordia verso gli ultimi

Questa vocazione di amore che nasce dall’amore concreto di Dio, Figlio che muore per noi sulla Croce e così assume ogni morire per risorgere, e si concretizza unicamente nell’accoglienza dei poveri, in cui essi sono testimoni in atto compiuto di un mondo nuovo, oggi la chiesa, che dice di voler ripartire dagli ultimi, deve saperla vivere fino in fondo, facendosi comunità accogliente di condivisione.

"Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me".

Solo questo è eucaristia vera, solo dopo averlo accolto nei poveri.

Finché ci sono due chiese, quella che evangelizza soltanto e quella che attende fuori dalla porta della chiesa nei poveri, daremo scandalo al mondo.

Il mondo attende da ogni cristiano, dal laico, l’essere profeta, testimone del Regno di Dio già realizzato nella condivisione della vita dei poveri.

Il popolo sacerdotale e profetico che ogni cristiano deve essere.

Ed i sacerdoti: è di noi sacerdoti nella funzione dell’ordine, di farci animatori e promotori di comunità tra i poveri, con i poveri (questa è anche la misericordia che Dio realizza nel nostro cuore di preti in me e negli altri sacerdoti della comunità, riconciliatori dell’umano) per rivelare agli uomini, ad ogni uomo, tale mistero possibile di amore, per ciascuno.

Integrare oggi, per i giovani, la giustizia con la misericordia

Nel contesto, preciso oggi, degli altri mali sociali, che non sono più soltanto l’emarginazione degli handicappati, anziani, dimessi dagli ospedali psichiatrici (emarginazione che resta, anzi si approfondisce), ma il male che è dentro al problema del vuoto di valori, del perché, del senso e speranza di vita per i giovani e per gli adulti che non sanno più insegnare.

Il senso del Nulla che assedia lo spirito.

Cioè siamo arrivati ad una svolta in cui la Misericordia deve farsi struttura di vocazioni, di amore e di servizio (come i gruppi famiglia, le comunità di accoglienza, le cooperative integrate e di solidarietà sociale, i servizi sociali territoriali in cooperative di servizio, i progetti "giovani" delle città per ricostruire l’ambiente e la cultura dello stare insieme) in cui a tanti giovani dobbiamo trasmettere che il senso più profondo del loro vivere deve essere farsi artefici di misericordia, per vivere sino in fondo la loro sete di giustizia (Dives, 4). Questa è la storia incompiuta del ’68 dei giovani, a cui tocca dare risposte più profonde.

L’obiezione di coscienza, il volontariato femminile di un anno, vissuti in strutture concrete di servizio, di condivisione, di progetti articolati sul territorio, di ambiti vitali nuovi in cui si sperimentano mano a mano, nuovi modelli di famiglia, di rapporto tra le famiglie, di dedizioni personali, di professioni molto sentite e qualificate sono e possono essere il grido concreto, il grande slancio di azione con cui la nostra fede e la nostra speranza sono solo rivelate e verificate dall’Amore del Cristo Risorto, però in termini concreti, anticipatori, dai mali che con lui cerchiamo di portare, non rifiutandoli, ma sposandoli sino in fondo nella nostra comunità di vita con i poveri.

Questa è la forza del testo della Dives, paragrafo 8, che recita così:

"Ed è per questo che, quando ricordiamo la Croce di Cristo,

la sua passione e morte, la nostra fede e la nostra speranza

s’incentrano sul Risorto… più potente della Morte…

più potente del peccato".

Tutto questo nella dimensione concreta di quello che sono divenuti oggi la Morte e il Peccato: come il Male oscuro della droga, dell’emarginazione giovanile, il male del Nichilismo sociale… sino alla vastità economica dei mali economici e sociali, come il Terzo Mondo, che si erige davanti a noi come profeta che ci giudica. Questo inferno della nostra umanità delle nostre civiltà invivibili.

Il Cardinale Martini di Milano ci dice che dalle carceri può venire, nella misericordia attiva, tanto bene, tanta possibile coscienza per il cambiamento.

Siamo tutti sfidati, dal tempo di oggi, anche la comunità di Capodarco, che pure ha fatto tanto cammino, ad opere di misericordia che siano capaci di accogliere tutto questo smarrimento della società di oggi, nella vastità cosmica e disgregatoria dei problemi che abbiamo.


*     Monterubbianesi don Franco, fondatore della Casa "Papa Giovanni XXII", Capodarco (AP)