Ennio Antonelli*
AMORE, MORTE E RESURREZIONE
A lungo rimarrà in noi la risonanza di questo convegno, con le solenni liturgie, le forti testimonianze, le profonde lezioni di teologia.
Mio compito è soltanto quello di raccogliere in una visione di insieme, tra le tante che ci sono state offerte, le riflessioni teologiche più aderenti al tema generale del Convegno: Amore, Morte e Risurrezione.
Procederò con brevità e schematicità, con sottolineature, osservazioni, integrazioni.
I. Amore
I. 1 L’amore è indefinibile, ma qualche aspetto di esso può essere chiarito, ricorrendo all’analisi dell’esperienza, alla riflessione metafisica, alla testimonianza della divina rivelazione.
I. 2 La dinamica dell’amore si svolge in tre momenti. Inizia con un moto di compiacenza, cioè un’unione affettiva fondata sull’unione ontologica, quasi l’amante dicesse all’amato: “È bello che tu sia; ti riconosco come uno con me, un altro me stesso, in armonia col mio essere e con la mia perfezione”.
Si sviluppa come benevolenza, o misericordia, quasi l’amante dicesse all’amato: “Voglio che tu sia; ti faccio essere, ti creo, se non esisti; ti perfeziono, se sei difettoso; ti faccio nuovo, se sei degenerato e corrotto; ti risuscito, se sei morto”.
Si compie nella gioia di essere insieme, quasi l’amante si riposasse nell’amato e gli dicesse: “Tu non morirai; tu sari sempre con me![1].
I. 3 L’amore di sé è presupposto all’amore dell’altro.
L’esperienza attesta che tra gli uomini l’amore più forte, contrariamente a quanto in un primo momento si potrebbe pesare, non è la pura benevolenza disinteressata, ma la benevolenza mista al desiderio. La ricerca psicologica, come in questo convegno è stato ricordato, mette in evidenza che stima e amore per se stessi, in un clima di fiducia verso gli altri, costituiscono la base per poter riconoscere gli altri nei loro diritti ed esigenze, per accettare la loro presenza e la loro autonomia, per cercare e godere la loro amicizia. La riflessione filosofica spiega che l’uomo, non essendo autosufficiente e pienamente realizzato, non può non amare per pura benevolenza senza alcuna commistione di desiderio[2].
Soltanto in Dio l’amore è del tutto gratuito e disinteressato. Eppure, secondo la fede e la teologia, Dio stesso crea il mondo per la Sua gloria, cioè per comunicare la Sua vita, le Sue perfezioni, la Sua felicità. Proprio perché apprezza e ama se stesso come valore infinito, vuole anche comunicare Se Stesso agli altri.
L’amore di sé è necessario e concomitante all’amore di qualsiasi altra realtà: nell’altro si ama o un altro se stesso o qualcosa di sé.
L’unità con se stesso è condizione per l’unificazione con l’altro[3].
Tale prospettiva è implicita nello stesso comandamento biblico: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. La carità, a differenza di quanto asseriscono alcune teologie di ispirazione luterana, in assoluto non è un dimenticare e perdere se stessi, ma un voler essere insieme. Amare l’altro considerandolo un altro se stesso, riporre in lui la propria felicità non è strumentalizzarlo, ma valorizzarlo, dire a Dio: “Tu sei la mia vita, il mio tutto” è sottomettersi a Lui, riconoscerlo come Signore.
L’amore di sé diventa egoistico, solo quando l’altro viene strumentalizzato a un fine che non sia lui stesso.
I. 4 Amare e farsi uno con l’altro come l’altro, senza sopprimere l’alterità. Non si tratta di una assimilazione di tipo biologico, come quella in cui il cibo viene assorbito, prendendo la propria identità; si tratta invece di una unificazione di tipo spirituale con l’altro in quanto altro, come quello che avviene nell’atto del conoscere. L’amore non sopprime, ma fa essere, fa vivere. In definitiva è sempre generatore di vita e di unità nell’alterità.
I. 5 Misericordia è farsi uno con chi è misero; è essere colpiti dalla miseria altrui come fosse la propria[4]. Essa comporta sofferenza, proprio perché l’amante si fa uno con chi è misero.
L’amore in quanto condivisione, non implica necessariamente la negazione di sé: chi comunica a un altro la propria scienza non rimane impoverito nella sua cultura; chi comunica l’essere a un altro, non necessariamente sminuisce se stesso. Solo quando l’amore si rivolge verso la miseria, diventa sofferenza, rinnegamento di sé, perdita della propria vita per riacquistarla insieme con gli altri.
Dio, sebbene nella sua infinita perfezione nulla possa perdere o acquistare, tuttavia, concedendo all’uomo la sua alleanza, lo ama come un altro se stesso, si fa uno con lui; avverte il male dell’uomo come se fosse proprio, lo assume su di sé e lo vuole superare con lo stesso impegno con cui affronterebbe un suo proprio male. Dio, che in se stesso è immutabile e beato, viene colpito nella sua scelta di amore, dal peccato e dalla sofferenza dell’uomo.
Colui che è impassibile si è fatto volontariamente vulnerabile nella sua decisione di alleanza. Come qualcuno, nel convegno ha affermato, si può parlare di dolore di Dio nel senso analogico: dolore che non proviene da privazione, ma da sovrabbondanza; dolore non subito passivamente, ma assunto attivamente e liberamente, per amore appassionato verso la creatura, fatta a propria immagine e somiglianza.
II. Morte
II.1 L’esperienza più vera della morte, per noi viventi, avviene dentro l’esperienza dell’amore e precisamente nella perdita di una persona amata. Tale morte è avvertita da chi sopravvive come una frattura violenta dell’essere insieme, come una diminuzione del proprio essere stesso.
La morte contraddice radicalmente l’amore. Contraddice l’amore di sé, perché tutti vogliono vivere, vivere pienamente e per sempre; anche chi si suicida, lo fa, in definitiva, in nome della vita. Contraddice l’amore verso l’amato, perché viene considerato uno con sé e anche per lui si desidera l’immortalità come per se stessi.
II. 2 L’amore umano è invocazione di immortalità, di un perpetuo essere insieme; è protesta contro la morte; ma si rivela impotente di fronte ad essa.
La morte mette a nudo la nostra precarietà e dipendenza; annienta ogni pretesa di autosufficienza e ogni assolutizzazione dei beni mondani. In questo senso può diventare il luogo privilegiato, dove si mette alla prova e giunge a maturazione l’atteggiamento di fede e di amore verso Dio, l’abbandono fiducioso nelle sue mani.
II. 3 Una forte esperienza di comunione con Dio concilia anche con la sua morte; le restituisce, almeno in parte, quel carattere di passaggio al Padre e di ascesa verso una condizione superiore di esistenza, che il peccato originale e quello personale, in quanto alienazione di Dio, le hanno tolto.
III. Il messaggio pasquale
III. 1 La relazione di X, Léon Dufour, nonostante l’impostazione piuttosto rigida e unilaterale, ha giustamente sottolineato che Gesù non ha voluto direttamente la propria morte come mezzo di redenzione. Ha interpretato la sua missione come servizio per il regno di Dio, che è vita per i peccatori, i poveri, i poveri, i malati, gli oppressi, i perseguitati, i morti. Ha lottato però senza temere la morte, nella ferma fiducia che il regno di Dio viene malgrado la morte e perfino oltre la morte.
È salito a Gerusalemme, camminando a testa alta con aspetto deciso (cf. Lc. 9, 51), andando coraggiosamente davanti a tutti, mentre quelli che lo seguivano erano pieni di paura e gravati da sinistri presagi (cf. Mc. 10, 32). Lo stesso grido di Gesù in croce “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” non può essere inteso come disperazione, perché è citazione del Salmo 22, che nel suo insieme esprime l’angoscia del giusto perseguitato e schiacciato dai nemici con la ferma fiducia che Dio non gli farà mancare il suo aiuto. Se poi si accetta l’interessante proposta a Léon Doufour, secondo cui Gesù avrebbe gridato: “Elí attha”, cioè “il mio Dio sei Tu”, ci troveremmo di fronte all’esplicita attestazione della suprema adesione di Gesù al Padre e alla sua volontà, il suo regno che viene comunque.
III. 2 Gesù fu ucciso dagli uomini, non da Dio. La sua morte è un delitto; è il fallimento della sua missione storica e, in quanto tale, non è salvifica, non è un valore. Dio non ha voluto direttamente la morte di Gesù; non è stato Lui a condannarlo, anzi, secondo diversi kerigmatici degli Atti degli Apostoli, Dio ha cancellato l’ingiusta condanna e lo ha riabilitato mediante la risurrezione (At. 2,22,24; 4,10; 5,30; 10,10).
Propriamente parlando, Dio non ha placato la sua giustizia e la sua ira, a motivo del peccato degli uomini, facendo scontare il castigo a un innocente. Troppo nella teologia e nella predicazione del passato si è insistito su questo tipo di linguaggio, che oggi viene rifiutato alla nostra sensibilità umanitaria. L’immagine del Padre che, per concedere il perdono, esige di essere pagato con il sacrificio di un uomo innocente, è insopportabile per la nostra coscienza morale. Del resto non era questa l’immagine di Dio che la migliore teologia intendeva delineare.
Le espressioni metafisiche del N.T. di carattere culturale o giuridico, vanno interpretate alla luce della visione complessiva,. Secondo la quale l’iniziativa della salvezza scaturisce dal Padre. La sua misericordia verso l’uomo è prioritaria e incondizionata. Non è la mediazione di Gesù che ci ottiene la misericordia del Padre; al contrario è la misericordia del Padre che suscita la mediazione di Gesù, come primo dono agli uomini, dal quale dipendono tutti gli altri doni[5].
È il Padre che comunica a Cristo il Suo amore per gli uomini e Gesù fa proprio l’atteggiamento e la volontà del Padre[6].
L’autodonazione di Gesù, con la conseguente rigenerazione degli uomini peccatori, glorifica il Padre e gli offre soddisfazione, non perché Dio abbia bisogno di qualche cosa o voglia avere qualche cosa dalle sue creature, ma perché vuole donare ed esse la sua vita. Dio rimane soddisfatto non nel ricevere, ma nel suo volere appassionato.
La giustizia di Dio non è parallela alla sua misericordia, ma è un frutto e una modalità della misericordia, nel senso che Dio concede i suoi beni in maniera ordinata, in modo che gli uni dispongano a ricevere gli altri, rispettando il dinamismo delle creature[7].
III. 3 Gesù fu consegnato da Dio (cf. Mc. 9,31; 10, 33-34; 14,21,41 e test. Par). gli uomini hanno potuto ucciderlo, proprio perché il Padre lo ha consegnato nelle loro mani.
Non è stato il Padre a condannarlo alla morte; ma è stato il Padre a consegnarlo e a donarlo agli uomini peccatori. Il Padre lo ha mandato nel mondo; ha voluto che egli fosse uomo tra gli uomini, soggetto ai dinamismi e ai contraccolpi della storia; non lo ha protetto; non ha ritirato indietro il suo dono, neppure davanti al rifiuto e all’ostilità crescente; è arrivato fino in fondo, rivelando un amore incondizionato e illimitato per i peccatori. Quello che fa il Padre lo fa anche il Figlio. Se il Padre lo ha consegnato, Gesù si è consegnato liberamente, fino a ricevere su di Sé i colpi tremendi del peccato e dell’ostilità degli uomini.
Gesù si è consegnato con coraggio e con fiducia in Dio, ma anche con angoscia terribile, che in parte possiamo tentare di precisare come orrore delle sofferenze fisiche, repulsione per la mostruosità del peccato, amarezza per il rifiuto da parte del Suo popolo e l’abbandono da parte degli amici, delusione per il fallimento della Sua missione storica, probabile oscurità di fronte alle prospettive concrete di attuazione del regno, sgomento per l’imminente ingresso nella desolazione dello Sheol.
Anche se Gesù non avesse esplicitamente interpretato la Sua morte con un linguaggio culturale sacrificale, è certo però che interpretò e affrontò l’intera vita terrena fino alla morte in croce come un servizio per il regno di Dio e come espressione di solidarietà verso i peccatori, un farsi uno con essi. Da questa perfettissima unità con Dio e con i peccatori scaturiva non solo la volontà di non sottrarsi alla violenza e al dolore fisico, ma anche l’intensissima e terribile sofferenza interiore.
In quanto in modo unico si identificava con Dio, Gesù poteva misurare, in tutta la sua misteriosa profondità quell’abissale e ripugnante miseria che è il peccato; in quanto in modo unico amava i peccatori e si faceva uno con essi, poteva sperimentare e soffrire concretamente come propria la loro miseria.
In questa prospettiva certe espressioni bibliche, quali “Egli portò i nostri peccati sul suo corpo sul legno della croce” (1Pt. 2,24), oppure “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece diventare peccato in nostro favore “ (2 Cor. 5,21), potrebbero assumere un significato assai forte, quasi letterale. Il dolore più intenso da lui provato sarebbe stato, non quello fisico, ma quello spirituale che era un “patire con”, cioè scaturiva dal sentirsi uno dei peccatori[8].
È possibile anche che Gesù provasse quell’angoscia così tenebrosa, di cui parlano alcuni mistici, equivalente in qualche modo a un’esperienza dell’inferno. È possibile chela discesa agli inferi debba essere interpretata in tal senso[9].
È vero che l’inferno è tormento che nasce dall’odio e dal rifiuto definitivo di Dio; ma è anche possibile che l’amore a tal punto si sia fatto uno con i peccatori, da sentire proprio il peso del loro inferno, associandosi in tutto ad essi, fuorché nel peccato.
A tali inaudite profondità potrebbe giungere la logica dell’amore intenso come farsi uno con l’altro, la logica della misericordia intesa come farsi uno con chi è misero.
III. 4 Gesù, consegnato da Dio e ucciso dai peccatori, è stato risuscitato a vantaggio dei peccatori stessi.
L’amore di Dio per gli uomini è arrivato fino alla morte e oltre la morte. La croce in sé è delitto e sventura e non può produrre automaticamente alcun bene, la l’amore di Dio è così potente, da dare significato anche a ciò che non ne ha, da far emergere la vita perfino dalla morte e la giustificazione dal peccato. Dio ha reso gloriosa la croce di Cristo, innalzando il crocifisso alla sua destra come Signore, che dà Spirito e vita. Dio ha accolto il sacrificio di Gesù, cioè il dono di sé, che Egli ha attuato durante la vita terrena e ha portato a compimento nella morte. Tale sacrificio, che rimane in eterno e si fa presente nell’Eucaristia della Chiesa, a voler essere precisi, non è la morte, ma la lotta per la vita fino alla morte e fino alle misteriose profondità degli inferi.
Questa precisazione del linguaggio non è senza importanza per la prassi dei credenti: la pazienza cristiana non ha niente a che fare con il masochismo, la rassegnazione e il fatalismo; è impegno coraggioso a favore della vita, nella convinzione che il bene può scaturire da qualunque situazione, per quanto disastrosa essa sia.
III. 5 La risurrezione di Gesù non è ritorno alla vita precedente, ma trasfigurazione mediante la potenza dello Spirito Santo e personalizzazione completa della sensibilità e del corpo, inteso come struttura della materia ed espressione della soggettività. Sull’argomento ci tornano spontaneamente alla memoria le profonde riflessioni, che abbiamo ascoltato da U. de las Heras Rubio.
Il Signore risorto, sebbene noi non possiamo vederlo, è più presente nel mondo adesso che non durante la vita terrena. Le apparizioni pasquali, il sepolcro vuoto, le manifestazioni dello Spirito Santo nella Chiesa, soprattutto nei miracoli e nella santità eroica di molti cristiani, costituiscono altrettanti segni della presenza del Risorto e della Sua azione sovrana. Intronizzato Signore della storia e del cosmo, Egli opera mediante lo Spirito, per la giustificazione dei peccatori, per l’edificazione del popolo di Dio, per la creazione di cieli nuovi e terra nuova, finché Dio sarà tutto in tutti. Il mondo nuovo della risurrezione, come ci ha detto S. Breton, viene evocato suggestivamente dalle icone dell’oriente cristiano: corpi allungati verso l’alto, senza gravità, occhi aperti per comunicare, materia che trapassa la luce, pura energia in espansione.
IV. Rivelazione dell’amore trinitario
IV. 1 Il mistero pasquale è la Trinità nella storia e la storia nella Trinità. Su questo tema abbiamo inteso la bellissima sintesi di Bruno Forte.
IV. 2 L’avvenimento unico della morte e risurrezione di Gesù Cristo è avvenimento del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Il Padre consegna Gesù alla morte e lo risuscita; dona tutto al Figlio e dona il Figlio agli uomini. In ciò si rivela come l’Amore comunicazione, donazione, origine.
Il Figlio si consegna e risorge, accogliendo l’iniziativa del Padre; si riceve dal Padre e al Padre si dona. In ciò si rivela come l’Amore accoglienza attiva, o anche come Amato che ama.
Lo Spirito Santo è il dono escatologico, che il Figlio riceve dal Padre e riceve di poter donare a sua volta anche agli uomini; è quasi l’alito di Dio, che esce da Lui insieme alla Parola, “procede dal Padre, rimane nel Verbo e lo rivela[10], è Colui che riceve e si lascia donare. In ciò si rivela come l’Amore dono, unità, sovrabbondanza, gioia, bellezza, compimento di Dio e del mondo, santificazione, forza, apertura, novità, riconciliazione.
Padre e Figlio e Spirito Santo sono correlativi, tre relazioni dell’Amore[11]; sono la concretezza della suprema rivelazione neotestamentaria “Dio è Amore” (Gv. 4,8).
IV. 3 In Dio con c’è alcuna negazione e limitazione, ma solo comunicazione e relazione. Il Padre non cessa di essere Dio, per il fatto di comunicare la divinità al Figlio. Il Figlio non cessa di essere Dio per il fatto di essere tutto rivolto al Padre. Il Padre ed il Figlio non cessano di essere Dio per il fatto di essere uniti e aperti nello Spirito Santo. Il dono di sé non è necessariamente negazione o diminuzione di sé.
V. Vivere in Cristo
V. 1 Gesù Cristo “è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione” (Rom. 4, 28). Innalzato come Signore alla destra del Padre, egli effonde nell’universo lo Spirito della vita, come la sera di Pasqua, apparendo ai dodici riuniti nella stanza a porte chiuse, alitò sopra di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo” (cf. Gv. 20, 19-23).
Il “respiro” d’amore del Padre e del Figlio diventa il nostro respiro; ci rinnova interiormente, ci rende capaci di dire “Abba, Padre” (cf. Gal. 4,6), cioè di condividere l’atteggiamento di adorazione, lode, gratitudine e obbedienza di Cristo verso il Padre, di servizio e solidarietà verso gli altri uomini.
V. 2 Da soli non siamo capaci di amare gratuitamente, senza calcolo, perché siamo paurosi, diffidenti, egoisti; al più possiamo arrivare a contraccambiare chi ci fa del bene, a salutare chi ci saluta, a concedere favori a chi è in grado di restituirli. Ma lo Spirito di Colui che ha dato Se Stesso fio alla morte in croce, ci rende capaci di donare noi stessi senza ricevere e di creare una vera fraternità, come nella primitiva Chiesa di Gerusalemme; suscita in noi la forza dell’amore misericordioso, che non teme la morte e per questo può spezzare la logica del male e creare un’umanità nuova, una società giusta.
Lo Spirito Santo apre il nostro cuore ad accogliere la verità ultima della vita, che è l’amore. Ci assicura interiormente che Dio ci ama gratuitamente, così come siamo, senza condizioni e senza misura. Ci persuade che anche noi, per grazia, possiamo amare con un amore simile.
Essere amati ed amare: questa è la verità; per questo siamo stati creati; senza questo mai saremo riconciliati con noi stessi; con questo vinceremo l’angoscia della morte e vivremo fin d’ora da risuscitati, secondo la logica del chicco di grano, che perde la vita per riacquistarla, accresciuta e moltiplicata.
Questo è anche il messaggio fondamentale che ci hanno lasciato le principali testimonianze, portate al convegno.
V. 3 “Amore, Morte e Risurrezione”. L’amore si oppone alla morte; si fa uno con chi è nella morte; lo conduce alla vita oltre la morte. In tal modo l’amore si rivela come misericordioso e onnipotente.
* Sintesi conclusiva da parte del moderatore del Convegno Antonelli S.E. Mons. Ennio, vescovo di Gubbio
[1] Per queste analisi cf. S. Tommaso d’Aquino: I q 1 a8; q 2 a6 ed ad 1; a7; q 3 a1; q 11 a3 ad3; q 25 a2 e ad2; q 26 a2; q 27 a3; a4 ad2; q 28 a1 ed ad2; II-II q 27 a2; C. Gent. 1, q1.
[2] Cf. I q 20 a2
[3] Cf. I q 60 a4 ad2; II-II q 26 a4
[4] Cf. S. Tommaso d’Aquino: “Misericors dicitur aliquis quasi habens miserun Cor,, quia scilicet afficitur miseria aterius per tristitiam, ac si esset eius propria miseria” (I q 11 a3)
[5] Cf. S. Tommaso d’Aquino: “Christus non dicitur quantum ad hoc nos Deo riconciliasse, quod de novo nos mare inciperet: cum scriptum sit in Jeremia 31,3 ‘In caritate perpetua dilexi te’; sed quia per passionem Christi sublata est odii causa (= il peccato)” (III q 49 a4 ad2)
[6] “Inspiravit ei coluntatem pro nobis, infondendo ei caritatem” (III q 47 a3)
[7] “Opus autem divinae justitiae sempre praesupponit opus misericodiae et in eo fundatur” (I q 21 a4; cf. anche I q 21 a3)
[8] Cf. S. Bonaventura, In II sent, d16, a2, p2
[9] Cf. S. Agostino, Lett. 164 n. 3 (PL. 33,710); De Gen. ad litt. 12,63 (PL. 34,48)
[10] Giovanni Damasceno, De Fide Orthodoxa I, 7; cf. Gregorio Nisseno, Oratio cattolica magna 2
[11] Per questa interpretazione della Trinità cf. Agostino, de Trinitate VIII; IX, 2; Riccardo di S. Vittore, De Trinitate III, C22 ss; V, c7 ss