introduzione
«Guardando te, Vergine santa, é più facile scoprire che Dio é amore, tenerezza, pace, pazienza, perdono»: sono le parole di Madre Speranza, che tutti abbiamo letto. E’ detto in termini non teologici, ma sapienziali, la ragione di questo nostro studio su «La Madre della Misericordia», che continua la serie dei Convegni Internazionali sull’Enciclica «Dives in Misericordia» di Giovanni Paolo II.
Questo tema affrontato con esplorazioni esemplificative, veramente esemplari per profondità di analisi e autorevolezza degli Autori, nei vari campi del sapere teologico, con approccio multidisciplinare che consentirà di conoscere meglio e amare di più la Mater Misericordiae, la quale, come vedremo, si colloca dentro il discorso della salvezza e non ai margini.
Ci aiuteranno nella riflessione biblica il prof. P. Antonio Sicari e fratel Max Thurian; nella riflessione liturgica sia per le chiese d’Oriente che per la chiesa d’Occidente il prof. archimandrita Giorgio Gharib; nella riflessione patristico-storica il prof. P. Réginald Gregoire; nella riflessione sull’insegnamento della Chiesa cattolica Sua Ecc. Mons. Vincenzo Fagiolo, S. Em. il cardinale Edouard Gagnon, e il prof. don Angelo Amato; nella attualizzazione della attitudine misericordiosa, propria della Vergine Maria, suor Maria Antonia Colombo, suor Maria Pia Giudici, l’Onorevole Maria Eletta Martini, con sagge riflessioni che saranno per noi anche provocazioni e testimonianze. Non mancheranno esempi di religiosità popolare.
Nel prosieguo delle riflessioni sulla misericordia di Dio su questo suo cuore di «padre materno» (é il tema d’una relazione di Luis Maria Armendariz nel Convegno del 1982) che si piega sulle miserie dei figli che abbandonano la casa della consolazione per correre l’avventura rischiosa d’una malintesa libertà, ci imbattiamo necessariamente nella «Madre della Misericordia» come in un passaggio obbligato per la condiscendenza divina: é l’argomento trattato al n. 9 del cap. V della Dives in misericordia a coronamento della riflessione sul mistero pasquale, che é il cuore pulsante della grande sinfonia della misericordia di Dio. «Il Cristo pasquale é l’incarnazione definitiva della misericordia, il suo segno vivente: storico-salvifico ed insieme escatologico». Ma di questo Cristo pasquale Maria é la radice carnea, assolutamente necessaria dal giorno in cui l’amore di Dio decise di farsi in Gesù, carne e croce e corpo risorto. Maria - come dice Agostino[1] - «ha custodito più la verità nella sua mente che la carne nel suo grembo. Cristo é verità, Cristo è carne: Cristo é verità nella mente di Maria, Cristo é carne nel grembo di Maria».
― Essa, la piccola Maria, é la prima beneficiaria di questa misericordia: é colei che Dio ha amato, e per questo é stata «riempita di grazia» (Lc 1,28) e il suo grembo é diventato scrigno prezioso della misericordia di Dio che ha nome di Gesù Cristo.
― Essa, la piccola Maria, é la compartecipe privilegiata del processo attuativo di questa misericordia nella pasqua di suo Figlio, portandovi il contributo del «sacrificio del cuore».
Lei é la «bella agnella», pura e innocente, coinvolta nella sofferenza e nella passione del suo Gesù, come cantano i testi liturgici bizantini, e la celeberrima Omelia sulla Pasqua di Melitone di Sardi (+ c 180) dove il mistero pasquale é fuso con il mistero dell’incarnazione attraverso l’immagine dell’agnello, che é poi - anche semanticamente ed esegeticamente - il servo sofferente -. «E’ lui l’agnello muto/é lui l’agnello sgozzato/ é lui che é nato da Maria l’agnella pura/ é lui che dal gregge fu preso/all’immolazione fu trascinato/sul far della sera fu ucciso/di notte fu sepolto/sul legno non fu spezzato/ in terra non fu corrotto/dai morti risorse/ e risuscitò l’uomo dal fondo della tomba»[2].
La croce, lo sappiamo tutti, é il segno dell’amore, oltre che della misteriosa iniquità del peccato: la sofferenza é grande, immensa, indicibile per che grande, immenso, indicibile é l’amore misericordioso di Dio. E questa sofferenza é congiuntamente abbracciata da Madre e Figlio nell’ora provvidenziale per la quale Madre e Figlio esistono.
― Essa, la piccola Maria, entra in maniera permanente con la sua «funzione materna» (LG 60) nel dinamismo di questa misericordia nel suo momento storico-applicativo: é mediazione «pneumatologica», come é stata chiamata che si svela nelle tre funzioni dell’intimità, della creatività, dell’incontro[3]. Misericordiosa perché madre compartecipe del mistero pasquale, agnella sacrificale che s’accompagna all’agnello immolato. Madre data da Gesù a Giovanni, e cioè alla Chiesa, ai piedi della croce, perché fosse «cosa sua» (Gv 19,26). Madre, quindi, della Chiesa «nell’ordine della Grazia» (LG 61), coronamento con Dio nell’opera di ricreazione dell’uomo redento. «Noi viviamo in virtù della umanità di Cristo», diceva S. Ilario; «la nostra vita divina si spiega dal fatto che in noi si rende presente Cristo mediante la sua umanità. E, mediante questa, viviamo di quella vita che Egli ha dal Padre»[4]. Ma «caro Xsti, caro Mariae»; e nella carne di Maria c’è allora la radice della nostra vita divina, misteriosa e misericordiosa.
― La maternità, in humanis, é una relazione permanente e crea un rapporto permanente. Maria è madre di Cristo, ma é madre per noi, per me: quel per noi, per me dura nel tempo come dura nel tempo il rapporto fondante con Cristo. E’ per sempre madre di Gesù, é sempre Teotokos, é sempre «pronobis peccatoribus», come la Chiesa crede e prega sin dalla sua origine. Sempre misericordiosa, allora, perché sempre madre: madre di Cristo e madre della Chiesa, che é a sua volta Chiesa madre. E’ appena il caso di ricordare una celebre terzina dantesca:
«Donna, sei tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua distïanza vuol volar senz’ali» (Par. XXXIII).
La «Dives in misercordia», però, non esaurisce in questo ambito teologico e mistico il discorso sulla misericordia di Dio e su Maria, madre della divina misericordia, in maniera molto concreta, proprio al n. 9 che stiamo presentando, a Maria che si fa operatrice di visibili atti di misericordia, partecipando così «in modo singolare ed eccezionale», con il «cuore» e con la vicinanza, alla concretissima misericordia di Gesù, che passò tra gli uomini «facendo del bene e risanando tutti», così come aveva profetizzato Isaia elencando i bisognosi di misericordia fatti oggetto di cura del Messia, i poveri, privi di libertà, i non vedenti, gli oppressi dal potere, i peccatori (Lc 4,18 e Lc 7,22; cf anche il Magnificat). A questi «segni» visibili della filantropia di Dio anche Maria é orientata al fine di «avvicinare agli uomini l’amore di Dio». C’é anche per lei un processo di prossimizzazione che nasce dalla partecipazione «nascosta» ma «incomparabile» alla missione messianica di Gesù: Aim Karim, Cana, la presenza eretta ai piedi della croce lo dimostrano. Il che significa che la Madre della misericordia non é lontana dai problemi concreti che ci angustiano, e che «in Lei e per mezzo di Lei» l’Amore Misericordioso di Dio «non cessò di rivelarsi nella storia della Chiesa e dell’umanità».
Non é chi non veda quanto il discorso sulla misericordia di Dio si faccia per ognuno di noi esigente e concreto: gli uomini, che hanno bisogno di segni per capire, non potranno aprire il cuore alla misericordia di Dio se non vedranno attorno a sé segni concreti, e cioè visibili e sperimentabili, di misericordia, imparando dai segni ad amare Dio sopra ogni cosa, ma anche ad amare l’uomo per amore di Dio, essendo l’uomo vivente gloria di Dio (S. Ireneo).
Si noti: con questi segni di misericordia si avvicina l’amore di Dio agli uomini, perché gli uomini possano vedere e farsi catturare dall’amore di Dio.
Si apre a questo punto il vasto capitolo sociale e politico (si intenda la parola nel suo più ampio e nobile significato) di segni di misericordia, che consentono «lo sconvolgente incontro della trascendente giustizia divina con l’amore: quel “bacio” dato dalla misericordia alla giustizia», che é descritto nel salmo 85, v.11.
Così la Chiesa ha sempre inteso il ruolo della Vergine Maria nella Chiesa: quello della madre misericordiosa. Vorrei cogliere questa dimensione mariana in alcune espressioni delle tradizioni religiose e della pietà popolare dell’Umbria. Una delle immagini mariane più venerata nella regione é la SS. Icone di Spoleto, che la tradizione vuole donata dal Barbarossa alla città in segno e pegno di pacificazione dopo l’excidium del 1185. E’ una icone orientale, che recenti restauri ricollegano alla tradizione fayumita (VI sec.), riproducente il tipo iconografico della Hagiosoritissa.
Orbene tra Madre e Figlio si svolge un dialogo molto interessante di misericordia e di riconciliazione: «Che domandi, Madre?/ La salvezza degli uomini/Mi provocano a sdegno!/Conpatiscili, Figlio mio!/Ma non si convertono.../ e tu salvali per grazia».
Hanno scritto i Vescovi italiani nel loro recente documento «La forza della riconciliazione»: «La Vergine Maria può ben essere assunta come “icona dell’umanità riconciliata”, Maria sta all’inizio del cammino di riconciliazione come madre della Chiesa e, al termine come meta a cui il mondo riconciliato guarda per essere, come lei e con lei, celeste Gerusalemme. Essa é segno di speranza certa a cui guarda il mondo».
Questa attitudine misericordiosa di Maria viene descritta dai pittori con un tipo iconografico molto diffuso in regione, riprodotto sui gonfaloni comunali e sui muri delle chiese, conosciuti come la Madonna della Misericordia. Maria è ritratta in piedi, con il grande manto regale aperto, sotto il quale si ricoverano autorità religiose e politiche, sacerdoti e mecenati, mercanti e confratelli, e tutto il popolo peccatore che fa la Chiesa.
Non parlo dell’esperienza di Francesco di Assisi perché se ne è già fatta menzione. Ma non posso non ricordare un discepolo di Francesco, quel Jacopone da Todi, già notaio e poi frate bizzoso, che con l’appassionato ardore che lo contraddistingue, così descrive e invoca la misericordia di Maria in una sua laude «De la beata Vergine Maria e del peccatore»:
O Regina cortese, ― io so’ a voi venuto
ch’al mio cor feruto ― deiate medecare.
Io so a voi venuto ― com’omo desperato
da omne altro aiuto; ― lo vostro m’é lassato
se ne fusse privato ― farieme consumare.
Lo mio cor’é feruto, ― Madonna, nol so dire;
ed a tal é venuto ― che comenza putire;
non deiate soffrire ― de volerm’aiutare.
Donna, la sofferenza ― si m’é pericolosa;
lo mal pres’ha potenza ― la natura è dogliosa;
siate cordogliosa ― de volerme sanare.
Non aio pagamento, ― tanto so anichilato;
faite de me stromento ― servo recomperato;
donna, el prez’é dato ― quel ch’avest’a lattare.
Donna, per quel amore ― che m’ha avut’el tuo Figlio
dever’aver un core ― de darme’l tuo consiglio;
succurre, aulente giglio, ― vieni a non tardare.
Di questa misericordia di Maria vogliamo appunto parlare perché di essa c’é bisogno nel mondo, nella Chiesa, nella ricerca religiosa dell’uomo d’oggi. L’enciclica «Dives in misericordia» ha ampiamente parlato del grande bisogno di misericordia nel mondo, in una società che i sociologi hanno descritto «senza padre» ma che é descrivibile anche «senza madre», e cioè senza tenerezza e senza consolazione; nella Chiesa, che ha da riscoprire quel «principio di femminilità» di cui cominciano a parlare sempre più diffusamente i teologi (si veda Hurs von Balthasar), ma nella quale si trova sempre quel «fratello maggiore» della parabola, chiuso nella roccia impenetrabile delle sue sicurezze, pronto al giudizio che ferisce ed emargina: c’é chi ha poeticamente detto che nella dolcissima parabola lucana del Padre prodigo di misericordia e del figlio scialacquone sembra mancare una figura di donna che fosse mediatrice di tenerezza; nella ricerca che l’uomo fa di Dio, spesso oggi dominata da immagini arcigne e vendicative di Dio, da una ricerca fatta di volontarismo esasperato, senza grazia e senza misericordia (si veda la variegata costellazione delle sètte: e penso in particolare ai Testimoni di Geova, così ostili alla misericordia della croce, come un tempo lo erano i càtari...).
C’é invece bisogno non solo della misericordia di Dio ma di quel suo aspetto tutto femminile che é la tenerezza. Mi piace ricordare a questo punto «il canto delle lacrime» di Olivier Clément, che così conclude la sua presentazione del «Poema del pentimento» di S. Andrea di Creta, un classico della liturgia orientale: per il dono misericordioso delle lacrime , «l’uomo é tutto preso da una immensa spirituale dolcezza», da una tenerezza di tutto l’essere, «la divina tenerezza del cuore» (come la chiama Esichio di Batos). Il carisma di «simpatia» ci fa cogliere l’altro come una rivelazione; e l’altro intravede in tale accoglienza l’immensa tenerezza di Dio, la cui immagine umana per eccellenza troviamo nella Madre di Dio, «speranza e protezione di chi la glorifica», «porto di naviganti in tempestoso mare»: «Tu, che la gioia partoristi/il dolore dammi del pentimento./E io potrò trovare un giorno/divina consolazione,/o mia Regina»[5].
Ancora una volta nella liturgia della Chiesa orante e credente il mistero pasquale é agganciato alla divina maternità di Maria che consente all’Amore Trinitario di farsi Misericordia attraverso il corpo di Gesù; ma nelle coordinate spazio-temporali di questo Amore Misericordioso dobbiamo incrociare per forza la piccola Maria, da cui ci viene la vita e la gioia.
Concludo citando ancora un poeta dei nostri tempi, Davide Maria Turoldo, in un suo frammento lirico del 1963:
«Noi ti abbiamo ucciso il Figlio.
ma ora sei nostra madre:
Viviamo insieme la resurrezione».
† Chiaretti Giuseppe
Vescovo di Montalto e Ripatransone