di P. Giulio Monti fam |
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“Intendo morire con gioia, in piena obbedienza al Padre Celeste e alla Madre Chiesa, che ho cercato di servire sempre, grato ai confratelli sacerdoti”.
In queste brevi righe del testamento è ritratta la figura di Don Tarcisio (o don Tarcì), come gradiva essere chiamato anche da Vescovo.
Tarcisio Carboni nasce ad Ortezzano il 9.9.1923 penultimo di nove fratelli.
La vita della famiglia in questo periodo non è troppo agiata, anzi piena di stenti, sacrifici e difficoltà.
Ma è proprio questo clima vissuto con fede e gioia che crea nel ragazzo uno stile di vita che riprodurrà continuamente nella sua lunga esperienza di sacerdote.
La povertà gioiosa ma dignitosa lo educò alla comprensione, al sacrificio e alla generosità verso gli altri.
Dovendo andare a vivere a Macerata dopo la consacrazione episcopale non portò con sé se non poche cose: i suoi vestiti e poche altre cose. Cosa trovò nell’episcopio? Una rete senza materasso, lenzuola, coperte… altro.
Non disse niente a nessuno ma seguitò a vivere nella semplicità e povertà senza che alcuno se ne accorgesse.
Fu la presenza di P. Orfeo che notò la mancanza di ogni cosa, dai piatti, forchette.. al materasso, lenzuola, coperte… come rimase male quando la gente gli portò l’occorrente per vivere dignitosamente! Sembrava che gli stessero facendo un torto. Ma non lo diede a capire. Anzi fu ben felice di vedere tanta generosità dei suoi nuovi fedeli. Però è anche vero che molte di quelle cose che gli vennero regalate furono destinate a diversi sacerdoti più poveri di lui.
A lui andava bene tutto; anzi era sempre troppo quello che gli si faceva e quello che aveva. La scuola dei lebbrosi e della gente del Brasile aveva affinato la sua sensibilità per le persone, per le sofferenze altrui e l’aveva spinto a cercare solo la felicità e il bene di quanti avvicinava.
Terminate le elementari venne avviato al seminario perché manifestava il desiderio di diventare sacerdote.
Don Michele, suo parroco, lo seguiva come un padre: di tanto in tanto andava in seminario a parlare con i professori e superiori e poi si fermava a dialogare con lui riferendogli quanto aveva sentito.
Durante le vacanze estive lo seguiva e lo voleva vicino a sé per avviarlo alla vita pastorale, affidandogli anche il catechismo dei giovani.
Diventato sacerdote fu mandato a Porto Potenza Picena ove restò per circa dieci anni. Fu un’esperienza che lo forgiò alla scuola di un parroco santo, ma molto esigente. Quindi venne chiamato dal Vescovo in seminario come padre spirituale.
Nel 1965 gli viene affidata la nuova parrocchia di Porto Sant’Elpidio.
Fu in questa parrocchia che effuse il suo zelo pastorale; ma non gli bastava questo immenso campo di lavoro; gli sembrava troppo poco.
Chiese al vescovo di partire per il Brasile insieme ad altri confratelli e ad alcuni laici.
Dopo appena tre anni venne richiamato dal suo vescovo per prendere l’incarico di Vicario Generale della diocesi di Fermo. Nel 1976 viene consacrato vescovo di Macerata, Cingoli… fino al 20.11.1995.
La gioia è stata la costante del suo comportamento, sia con i piccoli che con i grandi, con i sani e con i malati, con tutti, specialmente con i lebbrosi di Guarullos.
Anche nelle celebrazioni liturgiche – da lui ben curate e vissute – sapeva trasmettere quella gioia particolare che viene dal rapporto col Padre Celeste.
Durante gli anni che siamo stati insieme a Macerata e che ho avuto la fortuna di accompagnarlo nella prima visita pastorale alla diocesi. Mi è rimasta particolarmente impressa la gioia che comunicava alle persone nel prepararle alla liturgia penitenziale. Sembrava di assistere alla scena del Padre Misericordioso tanto sapeva comunicare sia il pentimento del figlio prodigo, come soprattutto la bontà e tenerezza del Padre, nel riabbracciare il figlio.
Era tale e tanta la capacità di comunicare “gli stessi sentimenti di Cristo” che la gente si commoveva e si avvicinava alla confessione con serenità e con gioia, contenta di far felice il Padre che attende l’incontro col figlio che l’ha offeso e decisa a cambiare vita.
Questa gioia – dicono gli amici che l’hanno conosciuto da ragazzo, da giovane e da sacerdote – gli veniva dalla famiglia e dalla formazione ricevuta dal parroco, Don Michele, ma soprattutto da quel contatto prolungato con Gesù Eucaristia.
Faceva ogni giorno circa quattro chilometri a piedi per recarsi nel suo Paese per partecipare all’Eucarestia.
I parenti: ”umili, discreti, prudenti, laboriosi, sempre generosi con me e tanto comprensivi”, così li ha descritti nel testamento. Si è inserito completamente in questo stile di vita e ha completato tale quadro con una facilità di parola che sapeva conquistare e attrarre l’uditorio per ascoltare la parola di Dio e la sua spiegazione.
Chi non ricorda la spiegazione delle letture domenicali alla radio Nuova Macerata o sulla televisione diocesana di Recanati!
Mi fece molta impressione la prima festa – celebrata dal vescovo Carboni - di san Giuliano, patrono di Macerata: a conclusione della processione, davanti alla cattedrale gremita di gente, soprattutto di giovani: parlò della gioia che deve animare il cristiano a vivere il suo amore per Cristo anche nella sofferenza, nelle prove, in ogni momento.
I fedeli erano entusiasti e i giovani terminata la celebrazione si avvicinarono al vescovo e lo sollevarono diverse volte in aria. Era il loro modo di esprimere la contentezza che provavano. E la gente? Applaudì lungamente perché avevano trovato un vescovo che era riuscito a far sentire che essere cristiani vuol dire vivere con gioia, semplicità, serenità e spontaneità.
Negli spostamenti in macchina per andare da una parte all’altra due cose animavano i nostri viaggi: la preghiera spontanea alla Madonna e argomenti che ci tenevano allegri, anche barzellette inventate sul momento. E di questo era maestro: faceva anche da attore. Non si vergognava di simile comportamento, anzi ne era contento specie se mi vedeva un po’ accigliato o preoccupato.
Con lui non si poteva essere seri o tristi. L’offesa più grande che gli si poteva arrecare era quella di rimanere seri e compunti.
Ricordo che un giorno piovoso di novembre, andavamo, dopo pranzo, al funerale del padre di un sacerdote. Al semaforo ci fermammo e fummo tamponati da un giovane. Io reagii con stizza e non scesi dalla macchina per non investire il giovane con insulti e offese. Lui sdrammatizzò tutto scherzandoci sopra e scese a far coraggio al giovane, che era impaurito e preoccupato perché non aveva con sé la patente e non ci aveva visti.
Negli anni di seminario si distinse per le sue doti organizzative di gite, trattenimenti ricreativi, conferenze… Questa passione per lo svago gioioso l’ha conservata e ha cercato di trasmetterla anche ai giovani seminaristi, specie nei circa dieci anni che è stato chiamato a svolgere la funzione di padre spirituale in seminario. Anche in questo lavoro ha portato il suo amore particolare ai giovani.
Negli anni di episcopato a Macerata spesso invitava i giovani o si autoinvitava presso i vari incontri giovanili per respirare il loro entusiasmo e per spingerli sempre più verso la perfezione della gioia, verso un amore pieno a Cristo.
Al funerale di Don Tarcisio due sono state le categorie che più di ogni altra è stata presente: i sacerdoti e i giovani. Ho sentito diversi ragazzi affermare: abbiamo perso un padre ed una guida sicura nel nostro cammino di fede.
Nel 1970 parte per il Brasile, ma prima emette i voti nella nostra famiglia religiosa.
Nei momenti di maggiore intimità, con un pizzico di malizia, gli ho chiesto come era avvenuta la sua adesione alla famiglia religiosa dell’Amore Misericordioso, proprio prima di partire per le missioni.
E’ stata l’occasione per crescere nella conoscenza di Gesù Amore Misericordioso attraverso i rapporti e i legami con la famiglia dei FAM, fu la risposta.
Ma anche se non era tanto convinto di quello che aveva fatto, poi la vita l’ha portato ad entrare a pieno titolo nello spirito e nel carisma della Congregazione.
Ha faticato, e non poco, per mentalizzarsi al carisma dell’amore ai sacerdoti, era la sua testimonianza. Ma non credo gli sia costato più di tanto perché è stato sempre particolarmente attento e vicino ai sacerdoti. Anche l’esperienza come padre spirituale in seminario ha fatto sviluppare il seme dell’amore ai sacerdoti gettato dal suo parroco quando era nei primissimi anni di preparazione al sacerdozio.
Il tempo in cui è stato in Brasile ha continuamente sollecitato la congregazione ad andare in quelle terre perché i sacerdoti si trovavano soli e in grandi difficoltà, sia per il grande lavoro che avevano sia per il clima sociale che respiravano.
Spesso nelle sue lettere c’è quest’invito ad andare in Brasile: “è questo il tempo favorevole, domani potrebbe essere troppo tardi”.
Da vescovo ha fatto una scelta particolare: “sarò il parroco dei sacerdoti”.
Infatti ha scelto di vivere con i sacerdoti nella casa del clero, era sempre disponibile ad ascoltare i sacerdoti, li andava a trovare quando sapeva che stavano male o si trovavano in difficoltà, li seguiva per telefono e diverse volte ha tolto anche il tempo al sonno per assisterli in ospedale.
Per i sacerdoti trovava sempre tempo!
Ricordo che dovette operarsi d’urgenza di peritonite e il dottore aveva dato ordine di non far entrare nessuno a visitarlo per alcuni giorni.
I sacerdoti che desideravano vederlo trovavano la scusa dicendo: “mi ha chiamato il vescovo”, in alcuni casi era vero, ma in altri avevano trovato il debole del vescovo per essergli vicini e lui non diceva mai “basta, non posso”. Se poi si faceva notare l’ordine del dottore rispondeva che il Signore gli aveva concesso un po’ di riposo non per stare in ozio, ma per i suoi sacerdoti.
Ancora un ricordo della prima visita pastorale: normalmente - durante la visita – si fermava nella parrocchia e mangiava e dormiva in canonica anche per stare vicino ai sacerdoti, condividere con loro ogni momento della giornata, provare le loro gioie e sostenerli nelle loro difficoltà.
Ma quando si accorgeva che il sacerdote si trovava a disagio per la sua presenza, con una scusa qualsiasi tornava a Macerata; se poi si notava che il sacerdote era povero lo riempiva di cose utili, scarpe, vestiti, e quant’altro gli occorreva, togliendolo dal suo guardaroba.
La sua esperienza come FAM l’ha approfondita soprattutto da vescovo e ha incoraggiato, specialmente nel giovedì santo, i suoi sacerdoti ad abbracciare questo stato di vita perché ne avrebbero tratto enorme beneficio e il loro sacerdozio ne sarebbe uscito rafforzato; a conferma di queste parole narrava la sua esperienza personale.
Nel suo testamento ha espresso la sua gratitudine ai confratelli sacerdoti per la loro comprensione, per il loro amore e perché lo hanno aiutato a vivere in pienezza il suo ministero pastorale.