FARSI PROSSIMO
DEI SACERDOTI IN DIFFICOLTÀRelazione di
P. Giannantonio Fincato
Superiore generale della Congregazione
Di Gesù Sacerdote di Padre Venturini
I. Accoglienza dei Sacerdoti in difficoltà
- Tutte le comunità, prima o poi, sperimentano la presenza di un fratello/sorella povero, sofferente, in difficoltà. I fratelli che si accorgono, che in qualche modo sono informati, sono invitati ad assumersi le difficoltà del fratello e ad intervenire.
Esonerarsi, fingere di non sapere, condannare rivela un atteggiamento poco sensibile all’uomo ed è antievangelico.
Il dono dello Spirito fa comprendere che un fratello da aiutare è momento di grazia e sviluppa l’attenzione di Cristo medico per l’uomo ammalato
Dobbiamo essere sempre buona notizia tra fratelli. Ognuno di noi, come singolo o come gruppo, riceve la buona notizia che il Padre ci ha amato in Cristo. Tuttavia insieme facciamo buona esperienza e facilitiamo il fratello a sperimentare l’amore del Padre attraverso il nostro amore fraterno soprattutto nel momento della prova. Proclamarci fratelli esige una conversione che passa dal viverci come stranieri, ospiti a concittadini e familiari gli uni gli altri. È un settore che proclama la nostra capacità di essere profezia anche in questo ambito.- Poniamo anzitutto l’attenzione al “volto” e al “cuore”, della nostra comunità, della nostra famiglia religiosa.
Possiamo cadere nella tentazione di presentare solo il volto come “facciata senza problemi”, ma essere poi trascurati, nelle relazioni tra di noi, a quelle che sono le esigenze del cuore buono in profondità.
Dal cuore vengono le azioni buone e quelle meno buone. Ricordiamo che Dio ci ha mostrato “nelle imperscrutabili ricchezze di Cristo il mistero nascosto da secoli nella mente di Dio” (cf Ef 3, 8s), nel cuore di Dio. Quindi è il cuore di Dio che è giunto a noi in Cristo. Con questi presupposti va accompagnato ogni fratello che vive difficoltà.- Parliamo di fratelli poveri. Ci chiediamo anzitutto: quando, come fratelli accettiamo nelle nostre famiglie un fratello povero, con quale criterio lo accettiamo? perché lo accettiamo? con quale verità totale ci mettiamo di fronte alla sua realtà, con quale solidarietà effettiva?
Oggi siamo più facili ad accogliere fratelli con vari tratti di fragilità, fratelli che un tempo sarebbero stati molto facilmente giudicati non adatti alla vita religiosa. Come a dire che oggi, guardandoci attorno, nelle nostre comunità possiamo trovare dei fratelli “poveri”, in seguito potremo trovarci di più, non di meno! Per il semplice fatto che accettiamo persone più fragili.
Siamo più attenti alla persona concreta?
Più attenti alla sua realtà personale che non alla norma?
Forse abbiamo più bisogno di braccia, abbiamo più bisogno di numero?- Non è affatto facile fare la pace con le povertà di casa accettando, promuovendo, portando, rinunciando a misurarci sul profitto...; non pesando chi rende o chi non rende o è addirittura contro-redditizio... Dobbiamo lasciarci purificare dalla parola di Dio, dal dono dello Spirito. È importante.
Si tratta di una dimensione umana ed evangelica che propone il coraggio nella vita consacrata di tradurre in grazia ogni momento di difficoltà dei fratelli o delle sorelle.- Può avvenire che affiori qualche situazione di crisi in qualche fratello. Prima ci pareva che andasse tutto bene, da questo momento invece pensiamo che tutto sta crollando...
Assistiamo ad un notevole ritardo nella maturazione personale per i giovani d’oggi; e i giovani religiosi respirano la stessa aria. Hanno molti stimoli e molte possibilità di superficie, ma nascondono molta insicurezza, notevole difficoltà di collegamento con il mondo adulto, difficoltà anche nel riconoscersi all’interno.
C’è poi il grosso settore della fragile identità sessuale, spesso meno conosciuta anche da parte dell’interessato, e le notevoli costellazioni di disturbo che l’accompagnano e la mascherano. La nostra gioventù è spesso molto fragile in questo settore. Ciò vuol dire che da una chiara identità etero sessuale a quella omosessuale esiste un ventaglio di collocazioni notevolmente vasto. A volte l’interessato non ne parla, non se ne rende pienamente conto, però “parla” attraverso diverse manifestazioni disturbanti, quali insofferenza diffusa, solitudine esistenziale, difficoltà alla relazione tranquilla e gratuita, desiderio di mostrarsi sempre giovani...- Come possiamo quindi essere accanto ai fratelli con problemi o ai fratelli in crisi per un cammino di una gioiosa sequela di Cristo?
Non sottovalutiamo i problemi e, d’altra parte, non drammatizziamoli. Sarà opportuno incamminarsi insieme al fratello, facendo con lui alleanza. Certo non è facile far alleanza con il povero, con chi è in crisi.
È valido intraprendere un dialogo.
Diventiamo quindi trasparenti nel cuore e, secondo il Vangelo, la realtà diciamola con franchezza all’interessato, non ad altri. Se lo diciamo ad un altro, sia solo perché egli ci possa aiutare ad andare ancora dall’interessato.
È anche molto importante che abbiamo vera fiducia nel Signore e nelle sue strade. Egli è il salvatore di tutti, ed ha molte strade di salvezza, per raggiungere una santità gioiosa.
È l’impegno perché le nostre comunità siano spiritualmente e psicologicamente sane. Avremo così permesso l’evolversi sano di molte situazioni. Certe realtà si esasperano e scoppiano, spesso, perché non possiamo offrire un ambiente sano, spiritualmente sano, cioè ricco di fede, di preghiera, di rispetto, ripieno dell’amore del Padre che viene a noi in Cristo Gesù.
Non “scarichiamo” i nostri fratelli, anche quando chiediamo ad altri un aiuto competente. Spesso l’aiuto è migliore se non sradichiamo dal proprio ambiente la persona in crisi, ma la “portiamo” lasciandola sul posto. L’esperienza ci suggerisce che sarà necessario spostare il fratello in crisi in altro ambiente solo se vediamo che è impossibile una evoluzione positiva nel luogo dove egli si trova
Come Chiesa, abbiamo forse parlato un po’ troppo male delle scienze antropologiche per averle poi a nostra disposizione in modo buono. Possiamo trovare diversi professionisti ben preparati, ma con notevoli carenze a capire la vita religiosa nelle sue componenti ed esigenze. Sono guardati come fatali nemici della fede e della morale, invece d’essere loro vicini da fratelli e pastori.- Da ultimo un pensiero sulle nostre comunità nella gioiosa manifestazione di quella gioia che chiama ad annunciare il Padre che salva tutti in Cristo e dà a tutti pienezza di vita.
Una serenità di fondo, un ambiente che sa superare le tensioni, un volto sereno dei singoli fratelli, sono il supporto migliore per confrontare la tristezza delle problematiche con ciò che fa vivere nella vera pace dei fratelli e delle sorelle.- Torniamo all’immagine del volto: la nostra comunità dà buona testimonianza non se è fatta di persone solo sante, solo ricche, solo intelligenti e capaci, ma perché, pur essendo quella comunità che è, vive la carità di Cristo.
II. La psicopatologia nei ministri sacri
Il mio intervento è mirato a considerare l’ “Assistenza sacerdotale” della mia Congregazione come servizio a favore dei ministri sacri e dei religiosi che vivono la vasta gamma delle sofferenze umane e spirituali, psicologico–psichiche o morali con “gradazioni” diverse o differenziate e le difficoltà inerenti al loro stato di vita.
Questo servizio è attento particolarmente ad un approfondimento della propria vocazione umana, religiosa, spirituale e di fede.
L’approccio non segue l’aspetto scientifico dell’analisi o della statistica ma si limita semplicemente ad una esperienza condotta dal mio Istituto fin dagli anni 40 e dalla mia attività presso le nostre case sostenute dai fratelli di comunità e dal lavoro di una équipe e dal supporto specialistico al bisogno del singolo.
Questo servizio è attento particolarmente ad un approfondimento della propria vocazione umana, religiosa, spirituale e di fede.
L’approccio non segue l’aspetto scientifico dell’analisi o della statistica ma si limita semplicemente ad una esperienza condotta dal mio Istituto fin dagli anni 40 e dalla mia attività presso le nostre case sostenute dai fratelli di comunità e dallavoro di una équipe e dal supporto specialistico al bisogno del singolo.
È con cuore attento e sensibile che la Chiesa ha sempre seguito questi fratelli. Il primo atto che noi abbiamo registrato nella storia è la convocazione fatta più volte negli anni 40 da Pio XII del sacerdote don Mario Venturini di Chioggia, nostro Fondatore, che aveva manifestato al Santo Padre di iniziare un’Opera per la formazione sacerdotale e per i preti che vivessero difficoltà. Troviamo così l’attuazione dell’ordinamento penitenziario ecclesiastico e la “Domus Poenitentiae” codificati dal Diritto Canonico. Un lavoro di riabilitazione che il Santo Padre ebbe a qualificare difficile, soprattutto per mancanza di strumenti di analisi psicologica e psichiatrica.
Disse il 12 gennaio del ’49 al Fondatore della mia Congregazione attualmente denominata “Congregazione di Gesù Sacerdote”: “Pensiamo che questo lavoro vi costerà assai: ve ne siamo tanto grati. È opera ardua e difficile; ardua e difficile tanto”.
La situazione era generalmente descritta in termini di “difficili condizioni soggettive”, “caratteri difficili e squilibrati”, “crisi di personalità, refrattari a ogni cura e incapaci di una riabilitazione”, insomma una “materia sorda”. Per la riabilitazione si faceva leva su interventi disciplinari, sulla necessaria conversione, sulla buona volontà e l’impegno spirituale del singolo. È di ieri, ma anche di oggi, che punire è più facile che capire e formare, ma non ci vuole molto capire che con il castigo si percorre una strada disumana e antieducativa.
P. Venturini non tardò a ricorrere, in un lavoro così complesso e delicato, a P. Agostino Gemelli che lo seguì, lo aiutò in molti casi e in situazioni difficili suggerì linee di intervento e di vicinanza nelle varie problematiche che insorgevano nei preti.
Gli era amico anche il Prof. Cherubino Trabucchi psichiatra che gli fu affianco in molte situazioni con competenza e passione.
Attualmente la Congregazione, in Italia e in Brasile, prosegue l’impegno, in alcune case organizzate per tale servizio di accoglienza con la presenza di una comunità, e offre ai preti e ai consacrati uno stage di vita comunitaria aiutati dalla possibilità di varie relazioni, dall’aiuto di accompagnamento personale e dalla condivisione del lavoro. Lo scopo è offrire la possibilità di una ripresa fisica e psicologica, spirituale e di ministero e quindi di saper armonizzare la propria vita con gli scopi della vita, con le motivazioni di una scelta fatta, con la fatica, in solidarietà con tutti gli uomini, acquistando padronanza di sé nel superamento dei conflitti personali. Siamo accanto particolarmente quando il consacrato decide di lasciare il sacerdozio o la vita consacrata cercando di riflettere insieme sulle motivazioni di fondo.
L’esperienza ci fa concludere che non è semplicemente l’operato di una sola persona, necessaria e competente, che aiuta il prete ad un recupero ma il supporto completo di una comunità.
All’aiuto del psicoterapeuta, per la conoscenza e la risoluzione di problematiche di natura psicologica, e un settimanale incontro di terapia di gruppo con un esperto nel settore, si affiancano un direttore spirituale che accompagna i singoli per consolidare l’identità di vita consacrata e di presbitero e conferma la vita di fede, un medico per la vita fisica e per le terapie, un coordinatore per concordare tempi e modalità dell’attività lavorativa.
L’équipe mantiene un continuo contatto con le persone, con i superiori e con l’ambiente di origine.
I nostri superiori hanno molta più fiducia e disponibilità di un tempo ad aiuti specifici di psicoanalisi ma non è ancora debellata l’idea o meglio la convinzione che sul piatto della bilancia il peso abbondi dalla parte della buona volontà, della spiritualità, della teologia. Rompere il silenzio sulla psicologia, sulla psichiatria e sulla psicoanalisi come conoscenza del momento psichico più nascosto dell’uomo non è più dilazionabile anche in questo campo.
Per esperienza diretta ci sono turbe psichiche vissute da sacerdoti e religiosi e si conoscono anche le più diffuse, che sono iceberg che scoppiano prima o poi nella loro vita.
Anche il mondo ecclesiastico conosce l’AIDS ma quando si presenta il “caso”, fa riconoscere a monte deviazioni o abusi sessuali - sia omosessuale che eterosessuale -, patologie psichiche, oppure al minimo fa scoprire una mancata educazione all’autocontrollo per giungere alla maturazione sessuale della persona, che assicura la capacità di gestione di questo settore tanto conflittuale della vita.
Riconosciamo la complessità della pedofilia, ma quando coinvolge il ministro sacro e il consacrato, per la loro stessa scelta vocazionale hanno bisogno di un aiuto specifico che non è facile per la difficoltà della persona ad ammetterlo e accettare di chiamare le cose per nome, mettersi in analisi e accogliere l’aiuto.
Tutti conosciamo la depressione, e il prete ne soffre molte volte nel silenzio ma nessuno gli toglie il peso di situazioni vissute, degli stress logoranti, delle inconsistenze che lo reprimono, di situazioni personali che hanno logorato la sua vita con dinamiche interpersonali complicate, con il risultato che il singolo si sente inadeguato e angosciato e dove non basta un buon ritiro spirituale per un recupero, la stessa parola conversione non trova terreno possibile di cambiamento.
Il prete conosce la psicologia ma come conoscenza, razionalizza ma non sospetta minimamente che vi è dentro anche lui e gli è difficile dire: “Nevrotico lo sono anch’io”.
Valutare un peccato, infine, non significa conoscere solo e bene i valori morali trasgrediti, perché molte volte le discipline psicologiche e psichiatriche portano a scoprire una diminuita responsabilità del singolo e inducono a recepire un’ incapacità sul piano della volontà.
Non si fa opera di riabilitazione se non si ama la parte umana dell’esistenza e non si fanno tentativi di comprensione della persona che si ha di fronte, creata da Dio con un progetto e un ruolo.
Il rilievo viene fatto a livello di ministri sacri e consacrati ma il capitolo si allunga se, in campo femminile, entriamo nel mondo delle consacrate, delle religiose.
C’è, inoltre, una gamma di sofferenze che coinvolgono la vita del presbitero e del religioso: il giovane fragile e psicologicamente debole, l’anziano non capito, l’alcolismo, i problemi affettivi, il rifugio nella malattia… come guadagno secondario, situazioni di depersonalizzazione. A tutto ciò vanno uniti anche i problemi vocazionali che circolano attorno al perché uno ha fatto una determinata scelta, gli influssi familiari che ancora a volte non sono del tutto superati. L’esperienza fa ammettere che i problemi dello spirito sono legati a qualche settore di vita psicologica o comunque umana, familiare, che si svela debole e rende annebbiate le motivazioni delle scelte.
A volte queste scelte non sono state oculate perché lasciate al giudizio finale di uno solo e non ad una équipe o il discernimento non ha fatto riferimento ad altre scienze che a quelle teologico – spirituali - pastorali.
Una volta potevamo giudicare non adatto un fratello, oggi diciamo: “La vita aiuterà!”. Il mondo d’oggi, prevalentemente nei giovani, ci mostra parecchie stranezze che possiamo capire o non capire anche nei nostri ambienti religiosi.
È in ogni modo da tenere presente che con l’accettazione di fratelli fragili, viene impegnata maggiormente la solidarietà di tutti. Cioè ogni comunità che li riceverà, domani dovrà essere solidale con loro, e per sempre. E la vita è lunga...
Si deve trattare inoltre di una vera accettazione: se non si ha il coraggio di escludere un fratello, si rischia poi di ammazzarlo un po’ alla volta non accettandolo.
Ci possiamo trovare, a volte, di fronte a scelte che giuridicamente sono definitive perché ci sono i voti, perché c’è una consacrazione, perché è tempo di ordinazione; di fatto non sono ancora tali, totalizzanti nella vita della persona... Di fronte a riconosciuti ritardi di maturazione, abbiamo sviluppato degli schemi di tappe di cammino meno ravvicinate, mentre ci troviamo in una realtà giovanile che vive con sempre maggiore difficoltà le scelte definitive. In definitiva non dobbiamo meravigliarci se ci troveremo con situazioni, giuridicamente definitive perché c’erano le scadenze, ma in realtà c’era “una convivenza” con i valori religiosi più che una alleanza profonda, un’assimilazione a livello esistenziale.
Il cammino dell’appartenenza totale e definitiva, il sì senza esclusioni e per tutta la vita conosce ritardi, denuncia conflitti, conosce fratture, e anche abbandoni. Le parole sono chiare a livello essenziale e giuridico ma ci si rende conto, oggi più che mai, che l’uomo raggiunge la maturità per gradi, per esperienza di vita progressiva.
Gli impegni definitivi si differiscono come, del resto, lo costatiamo in molti altri settori della vita.
Il confronto va fatto con le fragilità della persona in tutti i suoi settori, dell’amicizia, del matrimonio, della professionalità. In tutti i casi il patto non basta sia scritto e firmato sulla carta, sappiamo invece che deve essere stampato nel cuore delle persone che accettano di vivere in base a un progetto che si sta realizzando. In conclusione la definitività conosce la legge della gradualità con tutti i rischi anche di inciampare in qualche gradino della struttura psicosomatica che porta a volte ad una revisione, a un riadattamento, a una rifondazione dei valori scelti. L’abbandono degli impegni dice spesso la conclusione non subito prevedibile di questa fragilità.
Riscontriamo poi che le molteplici sofferenze personali spesso sono accompagnate da dipendenze di psicofarmaci, da dipendenze da alcool, da vari tipi di compensazioni e aggiungiamo pure la vasta gamma delle conversioni somatiche.
L’esperienza ci fa dire che sono tutte realtà da non trascurare, ma da non colpevolizzare.
È facile ancora sentir catalogare subito come infedele, o cattivo, o traditore il fratello con problemi: mentre è richiesta da ognuno una conversione per non giudicare subito con un metro morale ciò che in realtà è frutto di sofferenza e di dipendenza da condizionamenti psicologici. Non è facile dichiararsi “malato” quando si vivono sofferenze psichiche.
Posso dire che molti preti non hanno mai parlato dei loro gravi problemi per aver conosciuto e sperimentato solo il giudizio morale, il rimprovero, peggio il castigo, invece della comprensione e di un intervento appropriato.
Aiutare a chiamare per nome il problema, il trauma interiore vissuto per anni, è ancora il lavoro più proficuo, direi la strada più vera per un riprendere in mano la propria vita e conoscere la strada per vivere in buona serenità. Molti di questi fratelli parlano a stento per mesi ed anni di un loro problema ma senza avere il coraggio di dare il vero nome alla sofferenza. Può essere facile parlare di omosessualità in genere, manca invece la forza quando bisogna ammettere: “Sono omosessuale”.
Certamente l’incontro con questi fratelli è un impatto con grandi sofferenze, nelle realtà più intime delle persone che aspettano non giudizi (sanno condannarsi da soli!) ma una mano di aiuto.
Il tutto avviene in un momento di “evoluzione” della persona: la sofferenza inizia presto ma non viene affrontata. Vari meccanismi di difesa fanno procrastinare la richiesta di aiuto, non sono conosciuti dai superiori o vengono minimizzati, fino allo scoppiare del problema in modo insopportabile.
Un nostro rilievo interno enuclea le problematiche emergenti da gravi difficoltà personali e relazionali. A volte l’“autorità esterna” crea difficoltà perché non trova quella “autorità interna” del singolo che fa una persona libera e responsabile.
Purtroppo i ritardi di intervento su situazioni gravemente avanzate per non ulteriore sopportazione o scandalo grave, non hanno facile risultato quando la soluzione e i rimedi sono imposti. Se il bisogno di aiuto non parte dal singolo almeno a livello di bisogno, il cammino terapeutico non si può affrontare in modo valido e fruttuoso.
Una domanda facile è: “La vita religiosa e clericale attrae facilmente persone disturbate, immature?”.
A mio parere non mancano i casi, ma questo non significa definire il fatto in modo costante e assoluto né vogliamo liquidare il problema con superficialità. Ci può essere una visione distorta della vita consacrata anche perché in genere si costata che questi stati di vita esigono molto equilibrio psichico e a volte, nel caso della vita comunitaria specialmente in clausura, una formazione umana matura e molto equilibrata.
Pena evidentemente il non sopportare uno standard di vita piuttosto stressante, ripetitivo e che coinvolge la parte più profonda dei meccanismi psicologici.
Una sofferenza costante che ho riscontrato e di notevole entità psicologica oltre che morale e spirituale è la “memoria malata”. Sono molte le realtà di cui la persona non riesce a fare il “lutto”.
Mi riferisco sia alla coscienza della scelta fatta di aver lasciato molte cose a livello pratico ma non ovviamente a livello affettivo e di legame, sia al ricordo nella vita di quei “nei” - errori, fallimenti, divisioni - che intaccano ancora la personalità e non permettono di vivere in pace le scelte attuali. La difficoltà psicologica di far lutto diminuisce di significato la scelta fatta, fino a vuotarla nel tempo di ogni valore.
Disinvestire la posizione precedente significa a volte entrare nei giochi compensativi che stanno accompagnando il cammino del fratello, rileggere i valori, le mete anche in proporzione ai costi (grandi fatiche, stanchezze senza tregua, richiesta continua di ferie, di riposo, sofferenza per i pochi risultati…).
Il tutto va letto in relazione alla persona, ai suoi bisogni e nell’accettazione dei limiti.La polarizzazione sul vero significato delle scelte fatte, che faccia identità nella persona ricondotta più sull’essere che sul fare, è strada oggettivamente di alto valore e risponde alle esigenze di tutta la persona. Tuttavia le molte delusioni e frustrazioni manifestano molti lutti non ancora realizzati e l’incapacità di reinvestire la vita sulla nuova realtà.
- Un’analisi sull’affanno del prete ha messo in risalto che nel contesto dell’attuale cultura del fare, in ritmi sempre meno vivibili, in situazioni più subite che affrontate, non si può chiudere gli occhi su quest’affanno, sullo scoraggiamento in tema di pastorale, sulla crisi nella dimensione profetica.
Da questa sofferenza emergono nuovi meccanismi psicologici di difesa come:
- l’attardarsi in molte cose da fare che dicono spesso l’affanno o la copertura di altri problemi;
- il rifugiarsi in scelte che sembrano innocue, ma fuorvianti per compensare la frustrazione di non essere capiti o di non valere agli occhi degli altri;
- il cedere alle nostalgie del passato per recuperare punti fermi che non esistono più;
- il lasciar perdere l’aggiornamento, la formazione, l’abdicare le responsabilità;
- la pastorale sembra soffrire di stress, di depressione, di frustrazione; c’è frenesia, attivismo eccessivo, insicurezze, difficoltà di vivere da soli, incapacità di relazioni profonde, incapacità di programmazione, di riflessione, il bisogno di consenso.
Così l’affanno diventa un alibi più che una fatica.
- Ancora due rilievi sulle difficoltà vissute dai preti:
- a. Non posso omettere un cenno, fatto con il cuore, ai fratelli sacerdoti e religiosi che hanno lasciato i loro impegni e il loro ministero sacerdotale per seguire un’altra strada. La percentuale del fenomeno resta ancora alta ed è studiata anche nelle cause.
È una via dolorosa sia per le persone che per la chiesa. Il motivo del celibato è certamente da considerare, è stato chiamato un “carisma col filo spinato” (P. B. Haering), tuttavia non è l’unica lettura del fenomeno dell’abbandono del ministero per cui molti restano nello stato celibatario o convivono o sposano civilmente. I motivi sono tanti. Sono problemi sorti nelle crisi anche di fede, di disciplina, di politica, di teologia.
Mi domando solo se nel grande tema della perdonanza del Giubileo potesse essere possibile coniugare l’amore per la verità e l’amore per l’umanità seguendo il Cristo che disse: “Misericordia voglio, non sacrificio”. La stanchezza di attendere ha spinto molti preti a fare delle scelte bisognose di ulteriore riflessione.
Varie comunità cristiane hanno già riflettuto per indirizzare positivamente ricchezze immense, umane e cristiane di fratelli che hanno lasciato il sacerdozio o la vita consacrata che lo Spirito ha suscitato e che non possono essere sciupate.- C’è anche chi ritorna. Più volte siamo chiamati per un aiuto a confratelli che, lasciato il ministero e ottenuta la dispensa, dopo diverso tempo desiderano intraprendere il cammino di preparazione in vista di inoltrare la richiesta di reintegrazione.
Si possono contemplare alcuni momenti fondamentali: quello spirituale per la ripresa di una convinta preghiera, la partecipazione all’Eucaristia, alla meditazione sulla Parola di Dio; quello dei rapporti interpersonali vissuti con correttezza e normalità oltre a vivere il celibato in modo sereno; quello dello studio sacro per quanto riguarda i Decreti conciliari, i testi liturgici, la morale e il Diritto canonico. Tuttavia i fattori motivazionali, della conoscenza dei meccanismi psicologici, della maturità personale del richiedente, vanno accuratamente considerati. Occorre vedere la consistenza delle attuali motivazioni per un rientro nell’esercizio del ministero e confrontarle seriamente con quelle che l’hanno spinto a chiedere la secolarizzazione. Queste situazioni sono da analizzare in modo del tutto particolare anche a livello psicologico.
Il percorso non può essere breve, anche dopo un periodo di prova. Fa piacere che fra tanti che lasciano ci sia qualcuno che responsabilmente può essere riammesso al ministero, purché il rientro, a motivo della struttura personale, non ponga problemi a sé e agli altri.
- Parlando di religiosi e di preti in difficoltà non può mancare l’accenno a quanto influisca la relazione polarizzante primaria con il Cristo uomo-Dio, morto e risorto.
L’autentica relazione con Dio è importante per ricucire le altre relazioni del consacrato con se stesso, con la natura, con gli altri, con una vita di fiducia, di speranza e di vita nuova.
La sintonia con i suoi sentimenti e la sue scelte e la tensione della sua missione fa recuperare una indispensabile unità della persona dove nessuna parte rimane trascurata per la totale guarigione. Gesù che dice al cieco: “La tua fede ti ha guarito” significa un sanare nel corpo e nello spirito, perché non ci sia la presunzione di una guarigione che sia tale per aver sanata una sola parte senza tener conto di tutta la persona.
Il termine riabilitazione, guarigione va visto nel tentativo di organizzare un nuovo equilibrio psichico della persona sofferente che prende maggior consapevolezza delle proprie capacità e dei propri limiti di chi è prete o religioso. Così il tema della gradualità non va sottaciuto perché scontato. C’è la crescita e lo sviluppo della personalità: è la prospettiva dinamica che forma ogni legge di sviluppo umano. Il tutto e subito è frutto di una modernità che rischia di mortificare l’uomo e creargli gravi problemi di riabilitazione. I fattori di ripresa sono tutti coinvolti nella formazione dell’unità della persona.
Siamo convinti che ogni parte dell’uomo debba trovare il proprio posto nell’unità, tuttavia è necessario differenziare il mondo mentale, il mondo spirituale da quello psicologico almeno per dire che le malattie dell’anima sono i peccati e non le depressioni, le dissociazioni, le schizofrenie. C’è rapporto stretto tra corpo e anima, due vie di accesso per entrare nell’uomo, anche se la persona rimane solo una e lo psicologo non è il direttore spirituale anche se devono collaborare in modo molto stretto.
Vale l’osservazione del “Pastores dabo vobis”: “Senza una opportuna formazione umana, l’intera formazione sacerdotale sarebbe priva del suo necessario fondamento”(PdV 43).
Concludo ricordando che all’inizio del novecento, il Cardinale di Parigi, al momento di ordinare in Cattedrale i suoi nuovi preti, conoscendoli uno ad uno, ha cambiato la domanda iniziale fatta al rettore del Seminario: “Sai che ne siano degni?”, con un’altra: “C’è la previsione che vivano felici nel loro ministero?”.
L’essere contenti della propria scelta può essere la cartina tornasole di una identità amata e vissuta integralmente.
III. Bozza di programma d’aiuto
- La Congregazione di Gesù sacerdote, proseguendo nell’incarnazione del carisma affidato dallo Spirito alla Chiesa attraverso padre Mario Venturini, si rende disponibile ad accompagnare sacerdoti diocesani o religiosi, e religiosi fratelli nel cammino di approfondimento della propria vocazione umana, religiosa, spirituale e di fede.
- La comunità religiosa di Trento ha scelto di fare questo servizio, in particolare aprendo la propria casa ai sacerdoti che desiderano dimorarvi per un periodo di riflessione, di ripresa spirituale, fisica e psicologica in vista di una migliore presenza nella Chiesa.
Ad essi pensa di poter offrire innanzitutto la sua realtà ed esperienza di fraternità che si alimenta nell’ascolto, nella preghiera, nella vita di relazione, nella condivisione, nel lavoro e nell’apostolato.- Crede, infatti, che la ricchezza e la bontà dello Spirito e il contesto ordinario della grazia si rivelino proprio nella convivenza, dove la complementarietà dei carismi e delle esperienze, la varietà di vocazioni, le stesse problematiche e sofferenze che ognuno porta con se siano ricchezza per le singole persone.
Per questo essa guarda ad ogni ospite come ad un dono che viene a sollecitarla positivamente nel suo cammino.- Ai fratelli ospiti la nostra comunità si propone come luogo che può facilitare l’esperienza di Dio e l’incontro con il Signore risorto, partecipando la propria ricerca di vita evangelica, la quotidiana celebrazione dell’eucaristia e della liturgia delle ore, la prolungata e silenziosa adorazione, ed altri momenti di ascolto della parola e di preghiera.
- Essa è lieta pure di partecipare il suo impegno di vivere nella semplicità e nella carità evangeliche le esperienze quotidiane della fraternità, della mensa e di altri momenti distensivi; del rispetto delle esigenze comunitarie e personali; della collaborazione per un clima familiare e fraterno.
- Inoltre partecipa anche la sua esperienza di lavoro e di servizio che sostiene in coerenza con la propria scelta di povertà e in solidarietà con tutti gli uomini, consapevole di dover armonizzare la propria vita anche con la fatica quotidiana.
- È contenta, infine, di aprire anche ai fratelli ospiti la rete delle proprie amicizie e conoscenze, e di partecipare la sua sensibilità ecclesiale e la sua sollecitudine per i problemi dell’uomo e del mondo.
- In questo contesto, la comunità mette a disposizione dei fratelli ospiti anche risorse specifiche per l’aiuto del cammino di ognuno.
- Il servizio viene offerto nel rispetto delle persone, nell’accettazione delle varie problematiche, nella comprensione dei diversi tempi di cammino di maturazione umana, spirituale ed ecclesiale, e nell’accoglienza delle scelte che, nel tempo, i singoli andranno maturando.
- Oltre all’apporto della comunità religiosa, una équipe di aiuto è chiamata ad un servizio più diretto con i singoli e il gruppo:
- per accompagnare la persona nella revisione e nel consolidamento della propria vita di fede, un direttore spirituale sarà accanto al singolo con appropriati incontri (con la frequenza media di due-tre volte nel mese);
- per l’aiuto nella conoscenza e nella risoluzione di problematiche di natura psicoogica, uno psicoterapeuta incontrerà la persona settimanalmente;
- per una migliore comprensione delle dinamiche vissute nel gruppo e nei rapporti con gli altri è offerto un incontro settimanale di gruppo guidato da psicologo esperto nel settore;
- per favorire l’equilibrio psicosomatico e una buona efficienza fisica, si farà riferimento al medico di base o a specialista secondo necessità;
l’infermiere di casa assiste nell’applicazione delle terapie e interviene in caso di bisogno;- per un’utile occupazione di lavoro nei diversi settori (tipografia, campagna-giardino, computers, officina, ...), il coordinatore concorda con il fratello ospite i tempi e le modalità dell’attività lavorativa giornaliera prescelta.
- L’insieme degli interventi e le modalità dello svolgimento sono coordinate dal responsabile dell’accoglienza:
- egli accompagna il fratello ospite nel momento dell’accoglienza, nel suo inserimento negli spazi della comunità, nei rapporti con i membri dell’équipe, nei diversi momenti della sua permanenza, nelle conclusioni e nelle scelte finali;
- cura, inoltre, le periodiche verifiche e terrà anche gli opportuni contatti con l’autorità di riferimento del singolo fratello.
- Per formulare un programma personalizzato - riguardante le modalità di permanenza, il cammino spirituale, gli opportuni interventi per i problemi personali, l’occupazione nel lavoro e nello studio... - il responsabile dell’accoglienza, il direttore di spirito e lo psicoterapeuta incontrano il fratello ospite all’inizio della sua permanenza.
Con lui, inoltre, ogni due mesi circa, verificano il cammino e concordano gli obiettivi e il percorso del periodo successivo.- Un incontro quindicinale di gruppo - degli ospiti e del responsabile dell’accoglienza - è strumento per una migliore conoscenza reciproca, per formulare mete comuni e per coordinarne il raggiungimento.
- L’esperienza che la nostra Congregazione religiosa è venuta acquisendo in questi anni di assistenza e di aiuto ai sacerdoti, la porta a sottolineare l’importanza di una corretta collaborazione tra la diocesi - o la provincia religiosa - e la nostra équipe, perché gli interventi di aiuto siano più appropriati e il fratello ospite si senta effettivamente e affettivamente seguito dalla sua famiglia ecclesiale di origine.
Tale collaborazione si potrebbe configurare nei seguenti aspetti:
- Ci pare indispensabile che il sacerdote ospite viva con chiarezza le motivazioni che lo portano - tramite il suo ordinario - a chiedere un periodo di riflessione e di cammino presso la nostra comunità.
A questo proposito riteniamo necessario che l’interessato possa programmare alcuni giorni fra noi per prendere contatto con l’ambiente e confrontarsi con i responsabili del programma d’aiuto, in modo che la scelta della permanenza avvenga con serena consapevolezza.- La nostra comunità religiosa offre gratuitamente l’ospitalità e le diverse forme di aiuto al fratello ospite. Ma nel contempo, chiede che la diocesi continui a versare all’interessato l’assegno mensile del Fondo sostentamento clero (o la somma equivalente).
- Durante il periodo di permanenza fra noi, impegni pastorali o culturali esterni quali l’insegnamento, l’avvio di corsi di specializzazione, ecc. li troviamo normalmente non positivi.
Eventuali attività ministeriali sono concordate con il responsabile del programma d’accoglienza.- Riteniamo senz’altro opportuno che l’Ordinario o un suo delegato conservino un frequente rapporto con il fratello ospite.
Ad esso il nostro responsabile del programma comunica - d’accordo con l’interessato - il progredire del cammino e le tappe prospettate.- Ci pare infine necessario rilevare che in ogni fase della sua permanenza e del suo cammino, il fratello ospite sia considerato sempre il soggetto primo e principale dell’esperienza che sta vivendo; ci auguriamo quindi che persone e strutture di origine e di riferimento siano a ciò sempre sensibili.