CON I SACERDOTI SULLE ORME DI MADRE SPERANZA – 6 Sac. Angelo Spilla I punti essenziali dell’identità Del sacerdote diocesano Figlio dell’Amore Misericordioso. VERSO UN VITA DI COMUNITA’ NUOVA
Edizioni Amore Misericordioso - settembre 2007 |
L’augurio che fin dall’inizio ci prefiggiamo nell’individuare le linee direttive che devono essere da guida per la crescita delle nostre comunità FAM e in particolar modo per quelle erigende dei sacerdoti Diocesani FAM vorrei formularlo con quanto San Luca dice della prima comunità di Gerusalemme: "Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della resurrezione del Signore e tutti essi godevano di grande stima" (At 4,33).
La forza di questa testimonianza dipende dall’esistenza stessa della comunità e del suo stile di vita. Propriamente viene detto ancora nei confronti della prima Comunità cristiana che "la moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola".
Ecco l’augurio che fin dall’inizio ci facciamo.
Anche le nostre comunità religiose, proprio perché hanno la certezza della presenza del Cristo Risorto che opera con noi e in noi, sono chiamate a rendere credibile questo annuncio: "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,35).
Come nella Chiesa dei primi tempi, così siamo chiamati nelle nostre comunità, oggi.
Quali punti essenziali dell’identità dei SDFAM
Mi piace partire dal Decreto del Prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica datato 26 maggio 2005. E in questo contributo faccio riferimento propriamente allo Statuto dei Sacerdoti diocesani FAM; Decreto che ha approvato e confermato "definitivamente il testo dello Statuto come presentato e conservato nell’archivio del medesimo Dicastero ". In questo breve contributo faccio riferimento principalmente a questo Statuto, così come approvato.
Una tale approvazione dalla Santa Sede costituisce certamente per i sacerdoti diocesani Figli dell’Amore Misericordioso una tappa di arrivo. Madre Speranza lo aveva avuto detto da Gesù e per questa approvazione ecclesiastica aveva pregato ed atteso. Una tappa di arrivo che vede oggi nel seno della famiglia dei FAM anche il ramo dei sacerdoti diocesani. Perché partecipi dell’"unica vocazione e di un medesimo dono di grazia, sono chiamati a perseguire le stesse finalità della Congregazione, secondo modalità proprie e in maniera compatibile con gli impegni diocesani". (Statuto, art.2).
Ma non solo momento di arrivo. Viene chiesto adesso a questi chierici diocesani consacrati di vivere secondo questo carisma con la modalità propria, secondo quanto approvato dall’autorità ecclesiastica. Un dono e un impegno quindi che viene a interpellare i chierici diocesani consacrati FAM e l’intera Congregazione alla quale si appartiene.
Un nuovo ramo che si aggrega ai primi tre già riconosciuti e che sperimentano già da tempo -55 anni appena dalla nascita- un cammino di fede e di testimonianza: i sacerdoti religiosi, i fratelli religiosi in abito ecclesiastico e i fratelli religiosi in abito civile.
Non si tratta di considerare adesso in quale grado questi sacerdoti Diocesani FAM appartengono alla Congregazione FAM, se più avanti o più indietro rispetto agli altri, oppure se da considerarli religiosi in senso stretto o meno. A me pare che nella vita della fede, per la sequela di Cristo, c’è una regola sola da tenere presente e che precede ogni formula giuridica ed è l’appello di Gesù: "Una cosa sola ti manca. Va vendi quello che hai. Poi vieni e seguimi". "Vieni e seguimi" è chiesto ad ogni consacrato. Vieni e seguimi, quindi, anche al chierico diocesano consacrato unito all’Istituto Religioso dei Figli dell’Amore Misericordioso.
Diversi rami certamente ma unica Famiglia perché partecipi di un’unica vocazione e di un medesimo dono di grazia. E poi perché chiamati a perseguire le stesse finalità della Congregazione, anche se con modalità proprie e in maniera compatibile –come in questo caso dei SDFAM- con gli impegni diocesani.
Non è superfluo precisare quanto detto anche per gli stessi sacerdoti diocesani FAM al fine di far prendere maggiore coscienza del loro stato di vita, una volta emessi i voti, e vedere anche nella Congregazione FAM la propria famiglia, il grembo del Padre ricco di misericordia che ci ha accolti, l’amore senza limiti di Gesù che ci spinge ad incarnare nel proprio ministero l’amore misericordioso e lo Spirito Santo che ci offre una chiara e tipica testimonianza ecclesiale, conforme alla natura della vita consacrata.
Occorre conoscere, però, questi punti essenziali dell’identità.
I Sacerdoti Diocesani FAM si uniscono alla Congregazione "mediante la professione dei consigli evangelici di castità, povertà ed obbedienza e partecipano alla vita comune" (Statuto, art.1). Pratica dei consigli evangelici e vita comune sono i due requisiti fondamentali che definiscono la modalità di appartenenza.
" Gesù chiamò vicino a sé alcuni che aveva scelto, ed essi andarono da Lui… Li scelse perché stessero con Lui, per mandarli a predicare" (Mc 3,13-14). "Venite con me, vi farò diventare pescatori di uomini… Essi abbandonarono subito le reti e lo seguirono" (Mc 1,17-18). "Gesù lo guardò con amore e gli disse: và, vendi tutto quello che possiedi, e i soldi che ricavi dallo ai poveri. Allora avrai un tesoro in cielo. Poi, vieni e seguimi!" (Mc 10,21). "Gesù riunì i Dodici… poi li mandò ad annunziare il Regno di Dio"(Lc 9,1-2). Sono veramente tanti i riferimenti evangelici che ci richiamano soprattutto questa chiamata e questa appartenenza alla vita religiosa. Così abnegazione, povertà, preghiera, obbedienza e missione diventano stili e forme di vita che come ali ci permettono di entrare nel Vangelo, senza essere considerate per niente delle gabbie.
Giovanni Paolo II in una delle ultime profezie ci ha detto: " No, non una formula ci salverà, ma una Persona, e la certezza che essa infonde in noi: Io sono con voi!" (Novo Millennio ineunte, 29 ). Allora non ci preoccuperà neppure un’altra forma di vita religiosa, a confronto di quelle già collaudate, nè pretendiamo sostituirla a queste. Non pretendiamo sostituire o sopravvalutare ma tutti ci lasciamo precedere e accompagnare dal Signore senza volere dettargli le vie, ma di percorrere realmente la "Via".
Ai sacerdoti diocesani FAM è chiesto propriamente di camminare con questa duplice attenzione: l’osservanza dei consigli evangelici e la pratica della vita comune in maniera compatibile con gli impegni diocesani.
Ci addentriamo adesso a considerare più da vicino questa specifica vocazione.
Da una lettura attenta dello Statuto ci si chiede quale sono i punti comuni con l’intera Congregazione a cui è tenuto anche il sacerdote diocesano FAM e quale, invece, quelli specifici dei chierici diocesani consacrati.
Individuo prima i punti in comune che consistono nelle finalità proprie della Congregazione dei FAM:
1. Partecipazione ad un’unica vocazione e ad un medesimo dono di grazia
Si tratta del dono della chiamata che accomuna in questo caso anche tutta l’intera Famiglia religiosa dell’Amore Misericordioso: Ancelle e Figli dell’Amore Misericordioso. Ma ci riferiamo particolarmente ai FAM . È la chiamata di Gesù Amore Misericordioso che va in cerca dell’ultimo, di chi non ha da rivendicare niente, di chi immeritatamente si sente chiamato, amato e inviato.
È la chiamata in questa Congregazione religiosa a saper cogliere il respiro di Dio Padre che ama tutti i suoi figli e li vuole rendere felici. Lo scorso giovedì santo, il Santo Padre Benedetto XVI nell’omelia della messa crismale ha proposto una riflessione spirituale molto intensa sulla grazia del sacerdozio ed ha invitato tutti sacerdoti a non dimenticarlo, magari troppo presi dagli impegni pastorali o dalle cose pratiche da fare e dall’attimo che rischia di svuotarne il significato.
Che cosa ci ha ricordato il Papa? Ci ha ricordato che il sacerdote in forza del sacramento parla e agisce con l’io di Cristo, "in persona Christi". Facendo riferimento propriamente al gesto antichissimo dell’imposizione delle mani il Signore è come se ci avesse detto: "Tu mi appartieni… Tu stai sotto la protezione delle mie mani. Tu stai sotto la protezione del mio cuore. Tu sei custodito nel cavo delle mie mani e proprio così ti trovi nella vastità del mio amore. Rimani nello spazio delle mie mani e dammi le tue" (Benedetto XVI, Lettera ai sacerdoti per il giovedì santo del 2006).
Anche nelle Costituzioni FAM ribadiamo questa scelta ed appartenenza: "Nell’Eucarestia si attua la reale comunione con l’Amore crocifisso e risorto. Al momento della nostra professione religiosa siamo stati offerti a Dio dalla Chiesa, in intima unione al sacrificio eucaristico. L’offerta di noi stessi deve divenire una realtà concretamente e continuamente rinnovata" (Art. 4). E poi, ancora più specificatamente riguardo alla nostra vocazione le stesse Costituzioni ci richiamano: "Al seguito di Cristo, misericordia incarnata, siamo chiamati ad accogliere, facendone profonda e personale esperienza, l’Amore Misericordioso di Dio e a testimoniarne il primato nella nostra vita. È necessario che ci impegniamo il più possibile affinché l’uomo conosca l’Amore Misericordioso di Gesù e veda in Lui un Padre pieno di bontà che arde d’amore per tutti. Questa ispirazione centrale del nostro carisma illumina tutto il nostro essere e operare, e risponde alle attese più profonde del cuore umano, che quando si chiude al cuore di Dio vive l’amara esperienza della solitudine e della disperazione" (Art. 8).
Anche ai sacerdoti diocesani con voti valgono questi stessi richiami che costituiscono la propria vocazione specifica oltre a quanto ricevuto con il sacramento dell’ordine sacro. È la chiamata alla perfezione dell’amore che si esprime nella misericordia, cuore della nostra missione.
Il Signore anche con la chiamata alla vita religiosa ha reso i sacerdoti diocesani Figli dell’Amore Misericordioso partecipi di questa vocazione e di questa grazia.
2. Chiamata a perseguire le stesse finalità della Congregazione secondo modalità proprie e in maniera compatibile con gli impegni diocesani
Qui vediamo adesso ancora gli aspetti comuni che toccano però le finalità. Nella Chiesa siamo chiamati ad essere sacramento dell’Amore Misericordioso.: "Nel momento in cui diveniamo religiosi, siamo costituiti apostoli dell’Amore Misericordioso con tutta la nostra vita" (Costituzioni, art.16). Questo annunzio e questa testimonianza si esplicano nei confronti dei due amori: i poveri e i sacerdoti. Sempre dalle Costituzioni leggiamo: "I Figli dell’Amore Misericordioso aiuteranno e conforteranno molte famiglie bisognose ed afflitte; porteranno consolazione ai malati; presso di loro gli orfani e i bisognosi troveranno la propria famiglia, i giovani la guida, i deboli il sostegno e i caduti la forza per rialzarsi… Ogni bisognoso –povero, malato o peccatore– deve trovarci sensibili e pronti nell’intervenire affinché ritrovi la sua dignità di figlio di Dio, libero e responsabile per accogliere il suo amore" (Art.17). E poi riguardo all’attenzione specifica dei sacerdoti viene detto: "Consapevoli che Cristo è il Sommo Sacerdote misericordioso perché ha offerto se stesso a Dio per noi condividendo le nostre infermità, noi Figli dell’Amore Misericordioso vediamo nei sacerdoti i primi destinatari e mediatori della misericordia di Dio per gli uomini. Per questo motivo abbiamo una priorità ben chiara nella nostra missione: l’unione del clero secolare. Il fine principale di questa Congregazione è l’unione del clero diocesano con i religiosi, i quali devono porre tutto l’impegno e la cura nell’unirsi ai sacerdoti, essendo per loro veri fratelli, aiutandoli in tutto, più con i fatti che con le parole" (Art. 18).
Anche nello Statuto dei sacerdoti diocesani FAM vengono richiamate queste finalità comuni: " Essi sono chiamati, innanzitutto, ad annunciare la pienezza di bontà di Dio Padre, il quale ama tutti i suoi figli e li vuole rendere felici: per questo in Gesù Cristo si è rivelato particolarmente ricco di amore e di misericordia, affinché l’uomo, anche il più malvagio e peccatore, non temesse di tornare pentito alla casa del Padre, per esservi di nuovo accolto in qualità di figlio" (Art. 3). Una finalità, quindi, che ci coinvolge con la vita e la parola ad annunciare la bontà di Dio, nella rivelazione dataci da Gesù Amore Misericordioso.
3. Professione dei consigli evangelici di castità, povertà ed obbedienza.
La scelta dei consigli evangelici va vista come servizio alla pienezza della vita. E vanno abbracciati con gioia poiché non si tratta di semplice e pura rinuncia e sottomissione ma di radicalità dell’amore e di servizio alla vita.
È lo Spirito Santo che guida i consacrati a una comprensione vitale dei consigli evangelici per una maggiore conformità con la vita di Cristo.
La pratica dei voti, poi, va fatta con un atteggiamento di fondo: la libertà di mettersi al servizio del regno di Dio. La povertà, l’obbedienza e la castità celibataria sono propriamente questa forma di consacrazione al Dio della vita e dell’amore.
Nelle Costituzioni leggiamo infatti: "La professione è l’atto con cui ci doniamo totalmente all’Amore Misericordioso come figli e servi suoi, impegnando tutta la nostra vita nel perseguire le finalità della Congregazione, secondo il suo spirito. È l’alleanza nella quale si celebra l’incontro più profondo tra l’Amore del Signore che chiama e l’amore del discepolo che risponde con una scelta unica ed irrevocabile. È l’impegno reciproco del religioso che entra a pieno titolo a far parte della Congregazione, e di questa che l’accoglie con gioia per condurlo verso la pienezza della carità, secondo le Costituzioni. È il segno di una consacrazione pubblica e permanente per quel servizio specifico nella Chiesa per il quale la Congregazione è stata riconosciuta ed approvata" (Art.30).
Questo è proprio il significato per cui anche i sacerdoti diocesani con voti fanno la professione religiosa. Si tratta di una particolare chiamata che rafforza e perfeziona ancor più quella ricevuta con il sacramento dell’ordine sacro. Infatti nello stesso Statuto si legge: " Attraverso l’effettiva prassi dei consigli evangelici assunti in maniera istituzionalizzata, essi, si danno totalmente a Dio amato sopra ogni cosa e si pongono alla sequela del Divino Maestro al di là della stretta misura del precetto, per seguirne più da vicino gli esempi e gli intendimenti, sotto l’azione dello Spirito Santo" (Art. 8).
Questa alleanza stretta tra il Signore che chiama e noi che rispondiamo, questo inserimento nella Congregazione mediante la consacrazione pubblica e permanente producono degli impegni.
E trattiamo così, adesso, ciò che è specifico ad ogni sacerdote Diocesano FAM. A farci da guida è sempre lo stesso Satuto per i sacerdoti diocesani dove richiama quattro punti:
"Tendere con rinnovato impegno alla propria santificazione, così da conseguire una maggiore armonia tra vita interiore e ed azione apostolica" (art. 4).
"Perseguire con particolare interesse il fine primario della Congregazione, a norma delle Costituzioni, operando per l’unità del clero diocesano e la sua santificazione, in spirito di concreto servizio fraterno" (art. 5).
"Incarnare nel proprio ministero la particolare sollecitudine dell’Amore Misericordioso del Signore per quanti sono maggiormente colpiti dal male morale, fisico o materiale, ponendo di preferenza la propria carità pastorale al loro servizio" (art. 6).
"Offrire una chiara e tipica testimonianza ecclesiale, conforme alla natura della vita consacrata" (art. 7).
Si tratta di compiti assai specifici ed impegnativi che già nella loro enunciazione parlano da sé e ci interpellano. Ma preferisco sottolinearne alcuni aspetti che sono di richiamo a questo compito specifico dei sacerdoti diocesani con voti. Mi riferisco a tre aspetti che toccano più da vicino i sacerdoti diocesani con voti FAM: la professione dei consigli evangelici, il rapporto tra sacerdoti diocesani e sacerdoti religiosi, e la vita comunitaria.
1. La professione dei consigli evangelici
Le persone consacrate vengono consacrate a Dio mediante il ministero della Chiesa.
Cosa significa in concreto, secondo lo Statuto, l’osservanza dei consigli evangelici ce lo dice lo stesso testo approvato dalla Santa Sede. Già nella definizione iniziale si legge: "I sacerdoti diocesani Figli dell’Amore Misericordioso, sono chierici diocesani consacrati i quali, senza mutare la propria condizione canonica, si uniscono in quanto singoli, all’Istituto religioso dei Figli dell’Amore Misericordioso mediante la professione dei consigli evangelici di castità, povertà ed obbedienza …"(art.1). Ma poi ancora più specificatamente viene detto: "Poiché con questa consacrazione i sacerdoti diocesani perfezionano impegni già precedentemente assunti e ne contraggono di nuovi verso la Congregazione, essi emettono i voti di obbedienza, castità e povertà nelle mani del Superiore generale o, in forza del presente Statuto, nelle mani del proprio Ordinario diocesano, secondo la formula prescritta" (art.17).
Nel fare la professione dei consigli evangeli il sacerdote diocesano sa come la "sequela Christi" è il punto determinante per interpretare e comprendere i consigli e la loro pratica. E proprio perché ormai appartenenti a questa Congregazione ci si impegna a vivere la santità evangelica secondo il carisma dell’Amore Misericordioso e a testimoniarne il primato nella nostra vita. È seguendo Cristo casto, povero e obbediente che il consacrato realizza questa specifica vocazione. Lo Statuto, poi, oltre a delineare il carisma determina, anche, in concreto come va attualizzato mediante i voti. Esso quindi comprende la finalità, la natura e lo spirito che sono l’espressione dell’intendimento e del progetto della fondatrice, Madre Speranza.
Vivere la castità significa avere un cuore puro, che ha sì rinunciato all’affetto umano, ma per essere ripieno di Dio e testimoniarlo così nel mondo. Per il sacerdote diocesano con voti significa in questo caso di un rinnovo degli impegni del celibato ecclesiastico. Lo stesso Statuto infatti lo precisa quando afferma: " con il voto di castità assumono di nuovo e con rinnovato slancio gli impegni del celibato ecclesiastico, per aderire con cuore indiviso a Cristo Signore, nella piena donazione ministeriale alla Chiesa e nella testimonianza gioiosa della condizione futura" (art.39). E Madre Speranza diceva con fermezza: " I Figli dell’Amore Misericordioso faranno risplendere la virtù della castità in tutta la loro persona ed in tutto il loro comportamento"( El pan 14,57).
Povertà vorrà dire, nel concreto, non attaccarsi ad alcunché, per avere un cuore libero di amare Dio. Povertà, poi, ci richiama anche la comunione dei beni che è un impegno al quale tutti siamo tenuti. Ma non ci dimentichiamo che c’è anche la comunione dei beni spirituali. Non dobbiamo tenerli per noi solamente ma siamo chiamati a farne dono agli altri. Quando, così, doniamo le idee, le ispirazioni, le esperienze pastorali positive o negative, i frutti della preghiera, viviamo la propria vita nella povertà di Cristo. Madre Speranza ci ricordava che la povertà non va vista tanto dal punto di vista negativo, cioè sotto l’aspetto della rinuncia, quanto nell’aspetto positivo, e cioè avere un cuore libero da tutto per potere amare Dio e i fratelli. Lei diceva: " È diritto di Gesù che il nostro cuore, libero da ogni legame, si slanci verso di Lui come al sommo Bene" (El pan, 5,182).
L’obbedienza, infine, è intesa prima di tutto come obbedienza a Dio e alla sua volontà. Chi obbedisce a Dio vive come Cristo, che si è fatto obbediente fino alla morte di croce. Vivere l’obbedienza, anche per il sacerdote diocesano FAM, significa quindi offrire a Dio la propria volontà. È una dipendenza filiale, che si esprime anche nel sottomettersi con umiltà e amore ai propri superiori, oltre che al proprio vescovo diocesano. In tal proposito, nello Statuto si legge: "I sacerdoti diocesani FAM, con il voto di obbedienza confermano la promessa di sottomissione gerarchica al proprio Ordinario diocesano, in tutto quello che riguarda l’appartenenza e il servizio ministeriale alla propria Chiesa particolare, in unione devota e filiale verso di lui"(art.18). Ma nello stesso tempo aggiunge: " In forza del medesimo voto essi sono anche tenuti ad obbedire, con senso di fede e docile sottomissione, ai Superiori religiosi in tutto ciò che si riferisce alla pratica della vita consacrata, secondo le Costituzioni e il presente Statuto" (art.19). Il richiamo alle Costituzioni è di grande importanza poiché lo Statuto segue le Costituzioni e ne deriva da queste.
2. Rapporto tra sacerdoti diocesani e sacerdoti religiosi
Un problema particolare che tocca i sacerdoti diocesani FAM riguarda il loro stretto rapporto tra l’essere diocesani e contemporaneamente religiosi. L’articolo 20 delle Costituzioni – anch’esso integralmente approvato dalla Santa Sede assieme allo Statuto, come il precedente art. 10 delle Costituzioni, così recita: " I sacerdoti uniti a norma dell’art. 10, senza nulla togliere alla loro natura di diocesani, debbono essere considerati come membri dell’Istituto". È un’affermazione, a mio dire, di una straordinaria attualità e conquista.
Nei documenti conciliari del Vaticano II si ha la distinzione di queste due figure. La diocesanità è il parametro costante con cui il Concilio specifica l’ambito della vocazione nell’esercizio del ministero di quei presbiteri che con il proprio vescovo costituiscono il presbiterio. La condizione del presbiterio diocesano è caratterizzato da una donazione totale e incondizionata al servizio della Chiesa particolare e da una speciale relazione con cui si vincolano al vescovo diocesano. Sono due gli elementi caratterizzanti la vita e la missione dei presbiteri che costituiscono il presbiterio: il particolare vincolo di obbedienza che li lega al vescovo diocesano e la disponibilità piena al servizio pastorale di tutta la diocesi.
I testi conciliari a cui faccio particolarmente riferimento sono: Lumen Gentium,28, Christus Dominus, 28 e 34, Presbyterorum ordinis, 8 e Ad Gentes, 20.
Mentre nella L.G. emerge la preoccupazione di sottolineare la relazione di tutti i presbiteri, religiosi e diocesani, con l’unico sacerdozio e con il comune ministero derivato da Cristo, nell’altro documento conciliare Christus Dominus si sottolinea, invece, che il presbiterio è una realtà distinta dall’"ordo presbyterorum". L’ordine dei presbiteri è costituito da tutti i sacerdoti sia diocesani che religiosi in forza dell’ordinazione che, in unione con il vescovo, li rende partecipi dell’unico sacerdozio di Cristo. Il presbiterio diocesano, invece, è costituito soltanto dai sacerdoti diocesani. I diocesani si qualificano in quanto "costituiti provvidenziali cooperatori dell’ordine episcopale", "incardinati o addetti a una Chiesa particolare", "si consacrano totalmente al servizio della Chiesa particolare per la cura spirituale di una porzione del gregge del Signore".
Ne deriva che il servizio reso alla Chiesa particolare non è uguale per i diocesani e i religiosi. Questi ultimi, infatti, non costituiscono il presbiterio perché non possono realizzare nella loro vita tutti gli elementi che qualificano la condizione dei sacerdoti diocesani.
Riguardo ai presbiteri religiosi il decreto conciliare Christus Dominus afferma che in forza dell’ordinazione presbiterale questi sono "provvidenziali collaboratori dell’ordine episcopale"(34). Ma ciò non modifica la loro condizione in rapporto al presbiterio e alla dimensione non diocesana della loro vocazione e dell’esercizio del loro sacerdozio. Nel decreto non si afferma mai che i sacerdoti religiosi costituiscono il presbiterio. Di essi si dice soltanto che – nel caso abbiano parte della cura delle anime e alle opere di apostolato – "essi sono da considerarsi in certo qual vero modo come appartenenti al clero della diocesi".
La delineata identità diocesana esclude la possibilità che anche i presbiteri religiosi possono essere considerati membri costitutivi del presbiterio diocesano. La loro condizione, sia per la vocazione specifica sia per lo stato giuridico, non permette la realizzazione della dimensione diocesana. Ne consegue che il presbitero religioso rimarrà fedele alla propria vocazione impegnato in una modalità specifica di esercizio del ministero che, anche con l’eventuale servizio a favore della diocesi, non potrà modificare sostanzialmente la sua condizione e non lo potrà rendere membro costitutivo del presbiterio diocesano.
Se questa è però la distinzione che caratterizza i sacerdoti diocesani dai sacerdoti religiosi, nel caso dei sacerdoti diocesani FAM, questo scoglio è stato superato, nel senso che l’essere diocesani coincide nello stesso tempo con l’essere religiosi. Con l’approvazione dello Statuto i due ruoli possono coesistere. Il Prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica nel Decreto di approvazione dello Statuto dei sacerdoti diocesani FAM, in data 26/05/2005, infatti scrive: "L’Istituto religioso dei Figli dell’Amore Misericordioso, oltre ai membri che emettono i voti religiosi, osservando gli articoli 10 e 20 delle Costituzioni, può ammettere anche i Sacerdoti Diocesani, che assumono i Consigli evangelici con voti pur conservando la loro incardinazione nella propria Chiesa particolare". E poi all’articolo 1 dello Statuto si dice ancora: " senza mutare la propria condizione canonica, si uniscono in quanto singoli, all’Istituto religioso dei Figli dell’Amore Misericordioso". E nelle Costituzioni viene detto: "La Congregazione dei Figli dell’Amore Misericordioso si compone di Religiosi: Sacerdoti, Fratelli che esercitano mansioni interne, Fratelli in abito civile impegnati in attività secolari, e di Sacerdoti Diocesani con voti. Questi Sacerdoti, poiché non mutano la proria condizione canonica, hanno un modo proprio di appartenere alla Congregazione. Anche dopo l’unione perpetua con l’Istituto tramite l’assunzione dei consigli evangelici con voti, conservano l’incardinazione nella propria Chiesa particolare con tutti i diritti e doveri" (art.10).
La novità quindi consiste non solo che rimane immutata la loro condizione canonica di sacerdoti diocesani ma che fanno parte, "si uniscono in quanto singoli", all’Istituto religioso dei Figli dell’Amore Misericordioso. E se prima si diceva che i religiosi non facevano parte del presbiterio diocesano ma solamente dell’ordine presbiterale, ora con questa novità apportata dallo Statuto, anche questi sacerdoti, cioè i sacerdoti diocesani FAM modificano la loro condizione in ordine alla dimensione diocesana della loro vocazione e dell’esercizio del loro sacerdozio.
Nuove forme di vita in comunione
Si sa bene che la fraternità è qualcosa di ben diverso da un semplice agglomerato di individui, da una collettività. Lo stesso vale anche per una fraternità religiosa, che non è mai semplicemente una "comunità di persone". Il termine stesso "fraternità" fa riferimento a una particolare relazione, anche familiare, fra i suoi membri. È a partire proprio dalla famiglia di origine che si cresce nella fiducia, nel dialogo, nella stima, nella comunione e nell’amore. Si è nel luogo della sicurezza, della protezione e della fiducia. Ecco il primo luogo dove si vive la fraternità.
Nel caso poi di una comunità religiosa, ciò che ci spinge a considerarci fratelli sarà dettato da una motivazione forte, equilibrata e validamente verificata, quella della vocazione vera e propria. La chiamata alla fraternità non può rispondere a un desiderio di avventura, a una curiosità, a un gioco di compensazione, dal momento che comporta un radicale capovolgimento di situazioni e una inevitabile e forte tensione. Questa fraternità, poi, sarà determinata dal desiderio di crescere veramente nella donazione e nello spogliamento di sé, per poter autenticamente incontrare l’altro e permettere all’altro di raggiungermi, familiarmente. Questa vita di fraternità coinvolge, poi, tutta la vita, fino alla morte e anche oltre, nella fede. Non ha niente a che fare con la convivenza.
Il modello di ogni vita fraterna è propriamente Gesù con i suoi apostoli. Questi seguivano il Maestro perché da lui affascinati a portare la buona novella in tutto il mondo. La sequela era data dallo stare insieme con Gesù. Dopo di questo anche le prime comunità cristiane si caratterizzavano per il loro "fare comunità" attraverso l’osservanza assidua delle quattro caratteristiche: ascolto di ciò che gli apostoli tramandavano, condivisione dei beni, preghiera comune e spezzare il pane eucaristico. Erano fratelli con un cuor solo ed un’anima sola. Realizzavano così la "koinonìa" che fu la fonte d’ispirazione per le future comunità cristiane.
Nella storia della Chiesa diverse sono state, poi, le forme di vita comunitaria e religiosa, di quanti cioè hanno voluto scegliere di seguire Cristo mediante la professione dei consigli evangelici mediante i voti. Si parte dalla vocazione di Antonio che inizia il monachesimo vivendo in una solitudine radicale , quale espressione del "Dio mi basta". Sequela di Cristo in quel momento voleva dire distaccarsi dalla terra per avvicinarsi a Dio. E qui c’è la testimonianza di Simone lo stilita. In seguito nasce la vita cenobitica con Pacomio e successivamente la vita comune con Basilio, denominata fraternità. Sant’Agostino poi scrive nella Regola:"Il motivo per cui siete insieme riuniti è che viviate unanimi nella casa e che abbiate un‘anima sola e un cuor solo in Dio". Per San Benedetto, invece, la comunità benedettina si caratterizza come una società cenobitica intesa quale luogo di formazione al cammino verso Dio piuttosto che come una comunità di vita fraterna avente valore in se stessa e per se stessa. Con San Francesco D’Assisi c’è un mutamento, i membri non si chiamano più monaci ma fratelli e il monastero convento. Qui la comunità è data dal convergere delle persone più che dal luogo. Il riferimento qui non è la comunità di Gerusalemme ma la vita degli apostoli, non è quello di costituirsi ma di una comunità particolare che vuole estendere a tutti l’ideale evangelico della fraternità. Ci sarà poi Sant’Ignazio che muta il modello monastico e conventuale con quello missionario. La comunità è funzionale al progetto della comune missione in risposta al mandato di Gesù di diffondere il vangelo. I componenti infatti non sono né monaci né fratelli ma compagni di Gesù e tra di loro. Dopo il 1500 fino ad arrivare al 1700 si hanno nuove forme originali su come impostare la fraternità. Così per Sant’Angela Merici la vita religiosa e la fraternità si realizzerà nell’essere unite e concordi "di volere come si legge degli apostoli e di altri cristiani della Chiesa primitiva", senza vivere sotto lo stesso tetto. San Vincenzo de Paoli con Santa Luisa de Marillac diranno che le Figlie della carità non potranno essere mai religiose, perché le religiose richiamano la clausura mentre loro dovranno andare ovunque. Dopo questo periodo, però, tra il 700 e il 900, sorgono tantissime congregazioni nuove su sollecitazioni di bisogni sociali del tempo che ricalcano modelli di impronta gesuitica frammisti a schemi comunitari di tipo monastico. Qui predominano un rigido ascetismo, l’uniformità, le pratiche spirituali, l’osservanza regolare. E questo perdura fino a poco prima del Concilio Vaticano II, quando si registra un fioritura di nuovi tipi di comunità con caratteristiche diverse rispetto alle precedenti. Qui i laici, spinti dal progetto di vita discepolare mediante la consacrazione tendono alla koinonìa con l’impronta della comunità di Gerusalemme dove per comunità si intende una esperienza spirituale vissuta insieme. E oggi assistiamo a molte forme di consacrazione laicali. Le nuove forme di vita consacrata, a cui ha fatto riferimento anche il papa Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica "Vita consecrata" ai nn.12 e 62, costituiscono senza dubbio uno dei temi di grande interesse anche nella nostra presente riflessione. Se, poi, il Codice di Diritto Canonico non ha voluto trattare queste forme di consacrazione di vita nelle associazioni sarà stato perché le ha ritenute esperienze ancora in una fase sperimentale, e perciò difficilmente normabili a livello universale.
La questione fin’ora affrontata è di grande importanza per i sacerdoti diocesani con voti riguardo propriamente alla vita comunitaria. Si tratta di comprendere come si possa coniugare l’indole propriamente diocesana con l’appartenenza all’Istituto religioso dei Figli dell’Amore Misericordioso in merito alla vita comunitaria. È chiaro che sorgono delle notevoli difficoltà a volere costituire delle vere comunità religiose in senso stretto, come vissute dalle comunità religiose oggi, considerando gli impegni pastorali e la distanza che spesso separa i singoli sacerdoti diocesani gli uni dagli altri. Pur trovandosi vicino, cioè ad esempio in una stessa diocesi, come il caso di quanto si sta tentando di sperimentare, sorgono delle notevoli difficoltà quando si vuole seguire gli standard delle altre comunità propriamente dette. Questo perché se questi sacerdoti diocesani con voti "possono far parte della Congregazione …qualunque sia l’incarico da essi assunto in Diocesi" (Statuto, art. 11), a volte gli stessi incarichi pastorali come le stesse distanze creano delle notevoli difficoltà oggettive in merito alla conduzione della vita comunitaria. E di questo bisogna tener conto.
Voglio dunque dire che molteplici possono essere le espressioni dell’unica comunione e nessuna di queste può essere assolutizzata, così come non lo è stato nel passato poiché ricondotta a manifestazioni tipiche di tempi diversi, ecclesiologie diverse e diverse e differenti teologie della vita consacrata.
Ai sacerdoti diocesani con voti, che seguono la vita comunitaria, va ricordato quanto afferma il documento "La vita fraterna in comunità" quando dice che "la storia della Vita Consacrata testimonia modalità differenti di vivere l’unica missione". Ma anche lo stesso papa Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica "Vita consecrata", sopra citata, aveva detto: "Si potrà avere storicamente una ulteriore varietà di forme"(n.3). In ultimo, anche il documento "Ripartire da Cristo" al n. 12 afferma che le persone consacrate sono obbligate a cercare nuove forme.
Si vede già come i Figli dell’Amore Misericordioso ci sono arrivati. E i sacerdoti diocesani con voti si impegnano fortemente in questa scelta di "vita in comunione", anche con momenti fissi di incontri infrasettimanali, di preghiera e di pasti in comune, di condivisione di beni e di forti momenti di spiritualità. Soprattutto anche in comunione con le altre comunità e con i propri rispettivi superiori. E di queste nuove forme di comunità di vita religiosa noi ci auguriamo che ce ne possano essere ancora tante. In questo nostro caso "per offrire una chiara e tipica testimonianza ecclesiale, conforme alla natura della vita consacrata" "operando per l’unità del clero diocesano e la sua santificazione, in spirito di servizio fraterno", come testimonianza dell’Amore Misericordioso del Signore.
Concludendo,
avendo dato uno sguardo su quelli che sono i punti essenziali dell’identità dei sacerdoti diocesani FAM, vorrei fare osservare che la vita religiosa comunque è una realtà che non è mai compiuta, e non solo in riferimento all’approvazione del ramo dei sacerdoti diocesani FAM. La vita religiosa si svuota e cessa di essere se consideriamo terminato il processo di coloro che ci hanno preceduto, se lasciamo cadere l’entusiasmo del carisma per il quale siamo stati chiamati a testimoniare. Senza passione non c’è convinzione. Ed è questa convinzione che ci spinge ad abbracciare e a vivere il carisma dell’Amore Misericordioso secondo la specifica modalità in cui ognuno è stato chiamato; e diventerà certamente passione condivisa. Per tutto questo occorre un cuore semplice e disponibile, che si lasci formare dal Signore mediante il suo Spirito, secondo quanto ha chiesto Madre Speranza: "Chiediamo a Gesù la grazia di perseverare in un servizio fedele; sforziamoci di corrispondere alla vocazione religiosa e che ci dia di vivere molto intimamente uniti a Lui".
Voi saprete…
C’è una ragione di fondo che richiama la necessità di vivere la dimensione comunionale tra presbiteri. Siamo inseriti nella Chiesa mistero, anzi la Chiesa comincia nel mistero e questo mistero è la Trinità nella sua condiscendenza verso l’uomo.
La Trinità è, innanzitutto, amore reciproco fra le Persone divine, è "inabitazione reciproca".
Questo "reciproco essere l’uno per l’altro" dalla teologia viene denominata "pericoresi". In origine pericoresi era il nome di una danza la cui caratteristica consisteva nella reciprocità del danzare: uno danza intorno all’altro, l’altro danza intorno a lui, in un costante e reciproco circondarsi.
L’immagine di questa danza esprime bene, dunque, la continua tensione reciproca che caratterizza la dinamica intratrinitaria dove la diversità asserisce se stessa non contraddicendo o negando l’altro, ma divenendo dono per l’espressione piena dell’altro.
Nella edificazione reciproca, poi, la diversità si compone nell’unità. Qui le differenze, infatti, non emergono per entrare in conflitto o per competere con l’altro ma per cooperare alla sua espressione e alla sua edificazione.
Sappiamo anche che il mistero della santissima Trinità non rimane chiuso in sé ma si comunica a noi mediante l’incarnazione e la redenzione del Figlio di Dio per mezzo dello Spirito Santo. Questo mistero diventa, quindi, il centro della chiamata e dell’essere dell’uomo e del cristiano in particolare. E la Chiesa inizia da questo mistero originario che è la Trinità: l’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Ce lo ha ricordato anche la Lumen Gentium quando dice che "la Chiesa è in Cristo come sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano"( n.1).
C’è da dire anche che questa unità della Trinità santissima non è soltanto la causa efficiente dell’unità della Chiesa, ma anche la forma di vita della Chiesa unita. Cristo invita la Chiesa a vivere lo stesso amore, lo stesso servizio e la stessa comunione che vi è fra le Persone divine. Lo ricorda pure San Paolo quando fa riferimento alla nostra comunione con Cristo: " La vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio". (Col 3,3). E Cristo ce lo aveva gia detto in riferimento alla sua stessa Pasqua: "In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me ed io in voi" (Gv 14,20).
Noi dunque siamo inseriti in questo rapporto trinitario fra il Padre e il Figlio nello Spirito.
C’è poi un impegno a vivere la comunione non solo con la Trinità ma anche fra quelli che comunicano in essa. Ricordiamo particolarmente la preghiera sacerdotale di Gesù: ut unum sint. E ciò non era in riferimento solamente ai discepoli immediati (cfr Gv 17,11) ma anche a " quelli che per la loro parola crederanno" in Lui. Per questo Gesù prega ancora di più il Padre: " perchè siano perfetti nell’unità" (Gv 17,23).
Come la Trinità si comunica e trasmette la propria vita alla Chiesa cosi la Chiesa non può vivere al di fuori della vita trinitaria. Come la Chiesa si radica nella vita trinitaria così si comprende che la comunione non può essere fatta da noi. Perché è donazione del Padre al Figlio, è donazione del Figlio al Padre; il tutto mediante lo Spirito Santo. E’ donazione che anche noi in quanto inseriti in Cristo siamo chiamati a vivere.
Da questa ecclesiologia comunionale scaturisce una concezione del ministero ordinato anch’esso armonicamente inserito in un quadro unitario.
Talvolta dei solitari
Dopo la resurrezione di Cristo la nostra umanità non è più frammentata. Rimangono però indimenticabili, oltre che attuali, le parole pronunciate da Paolo VI rivolte ai sacerdoti: "Non siamo talvolta dei solitari in mezzo a una moltitudine che dovrebbe essere di fratelli e costituire una famiglia? Non preferiamo talora d’essere isolati, d’essere noi stessi distinti, diversi, ed anche separati, e forse anche dissociati, e perfino antagonisti, in mezzo alla nostra compagine ecclesiastica? Ci sentiamo davvero ministri solitari nel medesimo ministero di Cristo? È sempre viva fra noi un’affezione fraterna, che ci fa solleciti e lieti del bene dei nostri confratelli, e umilmente e santamente fieri della nostra vocazione fra le file del proprio presbiterio?".
Sono interrogativi assai inquietanti. E non toccano solo argomenti funzionali e psicologici a mio parere perchè il problema sta più a fondo. Ci sono ragioni teologiche che ci scuotono e ci fanno riflettere anche nel vissuto di relazioni esperienziali, pastorali e fraterne. Non siamo talvolta dei solitari? Come possiamo essere testimoni di un Dio d’amore nel nostro ministero sacerdotale se non sappiamo testimoniare questa forza d’amore?
Ritornando a parlare di Paolo VI vengono in mente quelle parole della sua enciclica Ecclesiam suam del 1964, scritta dunque ancora prima del decreto conciliare Presbyterorum Ordinis dell’anno successivo, dove aveva esortato i cristiani ad avvicinarsi agli uomini del nostro tempo con spirito di dialogo e di condivisione della realtà del mondo: "Bisogna farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso che vogliamo essere loro pastori e padri e maestri"(49).
È un invito che viene rivolto a tutti i cristiani ma risulta ancor più appropriato per il presbitero.
Il richiamo alla vita di comunione ci porta a guardare innanzitutto alla stessa esistenza cristiana che è infatti una ex-sistenza, cioè un’esistenza che esce da sé e che ci porta ad andare, a tendere oltre noi stessi. È la chiamata a raggiungere l’Altro, che è prima di tutto Dio stesso, fonte dell’amore, comunione di vita. Nello stesso tempo diviene invito ad andare agli altri, cioè dai nostri fratelli. E tutto questo noi sacerdoti lo viviamo nella partecipazione dell’unico sacerdozio di Cristo mediante la celebrazione eucaristica che è rendimento di grazia per eccellenza di tutta la Chiesa e questo avviene mentre il sacerdote agisce in persona Christi. Anche quando menzioniamo il nome del Papa e del proprio vescovo noi esprimiamo la stessa comunione con tutta la Chiesa.
Vale la pena ricordare anche che il presbitero è chiamato alla vita di comunione proprio per il fatto di essere stato chiamato da Cristo come gli apostoli per stare insieme con lui. Prima che fossero mandati ad annunciare la buona novella il loro primo compito fu quello di stare con Lui, con il Signore Gesù. E stavano insieme anche tra di loro apostoli. Hanno fatto una vita comune almeno certamente di tre anni.
C’è un dato di fatto importante che rimane fondamentale nella vita di ogni presbitero. Non è stata la decisione degli apostoli a rendersi tali quanto piuttosto la parola efficace di Gesù rivolta loro sotto forma di chiamata. Nel Vangelo di San Marco si legge infatti: "Egli li fece"(Mc 3.14) cioè li costituì suoi apostoli. Costituiti tali, stanno presso Gesù e in comunione con Lui. Solo dopo vengono inviati. C’è un raduno che precede l’invio. Meglio, questo invio è strettamente determinato dall’esperienza di comunione con il Maestro e che rimane costantemente. E la missione può essere fatta solo se vissuta nella comunione personale con Cristo.
Lo stesso vale per i presbiteri. C’è una chiamata per noi che è la comunione. Prima che ogni presbitero svolge il proprio compito ministeriale deve crescere con gli altri confratelli presbiteri nella comunione e nell’amicizia con Gesù. La solitudine e l’isolamento contraddicono con la chiamata al presbiterato perché la vita sacerdotale è vocazione alla comunione con Cristo che agisce ed è presente in noi.
C’è anche un altro elemento fondamentale ed ecclesiologico che dobbiamo ricordare. Il ministero sacerdotale permette alla Chiesa, quale corpo ecclesiale di Cristo, di vivere della partecipazione all’unico corpo eucaristico di Cristo. "Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane" (1 Cor 10,16-17). Permettiamo così, dunque, di diventare l’unico corpo ecclesiale che è propriamente la Chiesa di Cristo.
Scegliere l’amore, uscire dal proprio io, significa allora per il presbitero scegliere la speranza, scoprire che Cristo ci ha scelti prima di ogni nostro passo: " Non temere, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Io sono il Signore tuo Dio, tu sei prezioso ai miei occhi, e io ti amo ".
Il Vangelo poi ci assicura che le nostre fragilità possono diventare una porta attraverso la quale lo Spirito Santo entra nella nostra vita. Contribuiremo certamente a costruire nella famiglia umana una parabola di condivisione e così creare la comunione. Un nuovo modello di Chiesa, Chiesa comunione come ce lo ha regalato il Vaticano II, richiede un nuovo modello di ministero più a servizio della comunione. Un presbitero sempre meglio inserito in una rete fraterna di relazioni.
Un richiamo inquietante
Ho trovato assai interessante un libro di Dietrih Bonhoeffer dal titolo: Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere ( Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1996).
Tutti sappiamo che la vita del teologo protestante tedesco è stata segnata dalla testimonianza reale di un cristiano che ha dedicato la propria esistenza al prossimo e alla società in cui viveva. Il teologo esprime alcune riflessioni, ma soprattutto testimonia un coraggioso impegno in difesa della dignità umana, gravemente negata dalla follia tedesca. E precisamente dal carcere berlinese dove era stato imprigionato scrive "Resistenza e resa" in una lettera datata luglio 1944.
Bonhoeffer si pone un interrogativo di fondo così sintetizzato: Che cos’è per noi il cristianesimo?
L’autore parte da una considerazione e cioè che oggi non si può rispondere parlando agli uomini attraverso le "parole della religione" perché è passato il tempo in cui era possibile rivolgersi all’interiorità e alla coscienza dell’uomo. Andiamo incontro, infatti, a un "tempo completamente non religioso" e il nostro cristianesimo sembra essere del tutto scalzato.
Ci si chiede quindi come è possibile, in questo mondo ormai non religioso, vivere da cristiani? E come fare perché Cristo diventi il Signore anche dei non – religiosi?
È assai inquietante tutto il suo ragionamento. Offre la risposta nella riscoperta di Cristo in un’ottica di fede totalmente rinnovata: Dio si rivela nel "tu", nella relazione con l’altro e nella responsabilità verso di lui. Per Bonhoeffer, Dio non sta "al di là", dove vengono meno le capacità umane ma sta "al centro del villaggio", dove gli uomini si incontrano e si pongono in relazione fra loro. Dio, insomma, non si manifesta più nella sua rassicurante onnipotenza ma si nasconde nel misterioso silenzio della debolezza di Cristo e di ogni uomo che si incontra.
Da qui sorge la domanda sulla santità: quale modello di santità siamo chiamati a raggiungere dunque? Mutato il contesto storico e culturale, la misura della santità è data dal riconoscimento e dall’accoglienza dell’altro. E’ da questo esclusivo "esserci – per- altri", incarnato compiutamente da Cristo, che scaturisce la santità. Continua il teologo dicendo che non si può essere "uomini completi" da soli, ma unicamente insieme ad altri. Non si relega Dio "in qualche ultimo spazio segreto", ma lo si riconosce negli eventi della vita e soprattutto nella presenza ineludibile dell’altro.
Cosa ci fa diventare veramente cristiani dunque? "Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prendere parte alla sofferenza del mondo". E questo ci permette di continuare a vivere da cristiani in un mondo non religioso in quanto capaci di "essere – aldiquà" della vita, cioè capaci di essere – per- altri. Gesù Cristo ha testimoniato propriamente così. Nella misura in cui in noi c’è l’esserci – per- altri partecipiamo all’esserci stesso di Gesù.
Il trascendente non è l’irrangiungibile, il caotico, il lontano, "e neppure la greca forma divino-umana dell’uomo in sé; bensì ‘l’uomo per altri’ e perciò il crocifisso".
Ne scaturisce da tutto ciò una lezione: il cristiano è soltanto se esiste per altri.
Questa è la convinzione di questo teologo:"Essere cristiani non significa essere religioso in un determinato modo … ma il prendere parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo".
Il problema posto offre delle riflessioni anche nell’ambito della vita presbiterale e tocca quindi anche il tema della santità nostra.
Siamo chiamati a prendere parte alla sofferenza di Dio nella sofferenza del mondo, pur in mezzo a un mondo non più religioso. Nella misura in cui partecipiamo all’esserci – per- altri partecipiamo all’esserci stesso di Gesù.
Occorre che la vita presbiterale incarni, cioè, questo modello relazionale che Gesù propone e che ruota interamente attorno alla reciprocità. Ricordiamoci che Dio abita "al centro del villaggio".
Se è vero che la reciprocità nel riconoscimento e nell’accoglienza dell’altro, nel dono e nella comunicazione di sé, non solo apre un nuovo modo di stare insieme, di vivere con l’altro ma racchiude tutta la novità della relazione cristiana, intesa come incarnazione della relazione trinitaria, quanto più la spiritualità di comunione dovrebbe permeare la vita e la fraternità presbiterale.
Nella vita del presbitero deve trovare forza questo concetto. Oltre che per la testimonianza cristiana da portare agli altri fratelli, dobbiamo sentire il bisogno di una fraternità presbiterale propriamente come luogo di santificazione e di crescita nella comunione tra noi.
È in questo esserci per gli altri presbiteri che partecipiamo così all’esserci stesso di Gesù tra noi. Lì, cioè, sarà il luogo dove trova spazio la presenza di Cristo.
Non dimentichiamo pertanto quanto ci ha ricordato Giovanni Paolo II nella Novo Millennio ineunte, dove soprattutto sottolinea la necessità di promuovere una "spiritualità di comunione" che è capace di permeare la vita della Chiesa a tutti i livelli, compresi noi presbiteri. E nel caso nostro la comunione nascerà dalla capacità di sentire il confratello "come uno che mi appartiene, per saper condividere le sue gioie, le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia" (Novo Millennio ineunte, 43).
Ritengo che la via alla santità presbiterale non può fare a meno per noi della presenza dell’altro presbitero, è percorsa con quest’altro, in sua compagnia, insieme a lui e in comunione con lui, in un rapporto di piena e continua reciprocità.
Fraternità presbiterale, luogo di crescita
Si dice che gli uomini sono in grado di sopportare qualsiasi condizione, salvo quella di non essere importanti per qualcuno. E ciò avviene nel caso dell’isolamento, quando cioè si sperimenta di sentirsi senza legami significativi. Nessun uomo può vivere nell’isolamento. Fa soffrire tutto questo ancor più quando si verifica nei confronti dei presbiteri. Il miglior modo per non caderci o per uscirne eventualmente fuori sta propriamente nella relazione presbiterale.
Serve precisare però che isolamento non è solitudine. Infatti c’è una forma di solitudine che fa parte dell’esperienza di tutti ed è quindi un fattore normale, anzi è condizione indispensabile alla cura della vita interiore. C’è anche una solitudine che però nasce a volte da difficoltà varie. Il presbitero in quest’altro caso deve sapere che ci sono mezzi molto utili per superare gli effetti negativi della solitudine, soprattutto mediante una sincera partecipazione al presbiterio diocesano, intensificando una mutua collaborazione, praticando la vita fraterna tra presbiteri e vivendo anche una sana amicizia con quei laici che maggiormente si frequentano.
Oltre a questo, però, c’è quell’altra solitudine che risulta necessaria alla vita interiore. Anche Gesù si ritirava, spesso, da solo a pregare (Cfr. Mt 14,23). Questa solitudine ci immette nella presenza del Signore. Tutti sappiamo che Dio parla nel silenzio e questo diviene la forma essenziale della preghiera. Non segna un vuoto o un atteggiamento di divisione ma vicinanza, disponibilità, comunicazione, apertura verso l’altro. Si colloca, meglio, nel linguaggio dell’amore. Ed è nel silenzio che noi percepiamo Dio, così come è avvenuto al profeta Elia a cui Dio si rivolse sulla montagna nel "mormorio di un vento leggero" (1 Re 19,12). Dio, insomma, parla e cerca chi lo ascolta e ciò porta a un dialogo contemplativo.
Nella vita del presbitero si rendono necessari questi spazi e tempi di "deserto", anche quando a volte li consideriamo a discapito delle attività pastorali.
Ritornando a quanto detto, il miglior modo invece per uscire dall’isolamento consiste nella relazione presbiterale. Ci sono situazioni, problemi, difficoltà – non nascondiamo a dirlo – che un sacerdote può comunicare solamente ad un altro sacerdote. A volte addirittura lo si legge negli occhi. Ma non per dei fattacci successi, ma anche per problemi riguardanti la propria fede o semplicemente la propria stanchezza. Da chi andare? Gli altri, i laici, ci comprenderanno ma non in pieno e fino a che punto? Lo stesso vale anche per gli stessi nostri familiari. L’amicizia e la fraternità con i laici è certamente cosa buona ma non può mai supplire del tutto quella tra confratelli poiché con questi ultimi avviene una maggiore apertura e confidenza. Solo con un altro confratello, a volte, si può condividere una gioia, un’intuizione spirituale, il proprio stato d’animo così come con nessun altro. L’amicizia tra presbiteri è fondata sulla grazia dell’ordine. Il cuore di un sacerdote può comprenderlo soltanto un cuore di un altro sacerdote.
Trovo molto bello, a tal proposito, un mosaico del secolo XII che si trova nella navata sinistra della cappella palatina di Palermo. Testimonia in pieno il tema della fraternità sacramentale. Viene raffigurato l’incontro tra l’apostolo Pietro e l’apostolo Paolo. I due si abbracciano in modo fermo e tenero; guancia a guancia, con lo sguardo che non è un fissarsi reciproco, ma sembra il fissare un punto in comune. Il movimento delle braccia poi dice quell’accogliersi e sostenersi reciprocamente. C’è uno slancio silente e intenso da provocare un’emozione grande. Anche il movimento dei piedi porta l’uno ad incontrare l’altro senza creare distanze. Pietro, maestoso e sereno, coronato di bianco, appare quasi piegarsi un poco come se si trovasse su un trono, pronto a gettare le braccia attorno all’altro. Paolo, più giovane, pare slanciarsi a trattenere Pietro con una delicatezza particolare, quasi a volersi rimpicciolire ma con una sicurezza da donare. Un abbraccio che non ha nulla da nascondere o da insinuare perché dice un incontro vero e fraterno. Due santi diversi per doti umane e cultura che si ritrovano all’interno di un unico progetto che li supera.
Ecco come interpretare la fraternità presbiterale. Questa diviene così l’ambito dove possiamo parlare di noi stessi e non solo del lavoro come avviene tra colleghi. Può avvenire così che dopo ore e ore di lavoro pastorale portiamo all’altro presbitero quella particolare situazione per confrontarci e farne diventare preghiera. Oppure quando portiamo le nostre fatiche pastorali, i successi e gli insuccessi, la grazia che ha agito in noi o l’incomprensione e la delusione. Un laico li coglierebbe solamente sotto un altro aspetto piuttosto superficiale, oppure come uno sfogo; eppure quando è grande a volte la tentazione che ci fa credere che un laico vale di più di un presbitero. Così come nel caso di un adolescente quando rifiuta i propri genitori per confidarsi con un primo amico che incontra. Nella relazione presbiterale poi paure, fatiche, emozioni, sentimenti non diventano solamente miei, sono trasferiti all’altro e insieme vengono rivisti e restituiti alle loro dimensioni. Diventano addirittura preghiera. Abbiamo bisogno di condividere, anche emotivamente e non solo operativamente, i pesi e le fatiche del nostro apostolato e il primo riferimento non può che essere la fraternità presbiterale.
Quante volte abbiamo sperimentato di aver faticato invano, "abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla"(Lc 5,5). Come nel caso di San Pietro sentiamo dirci dal Maestro: "Prendi il largo e calate le reti per la pesca". E avendo preso una gran quantità di pesci chiama i compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Oltre a fidarci totalmente del Signore, ci sono anche i confratelli a darci una mano di aiuto. Senza dire poi quanto incide la relazione tra presbiteri sul proprio ministero pastorale. Quanto è necessario questo nella vita presbiterale tra confratelli. Quanto risulta utile l’aiuto dei soci, l’amicizia tra presbiteri.
C’è una ragione ancora più di fondo che ci richiama il bisogno della fraternità presbiterale. Nella Presbyterorum Ordinis ci viene ricordato che "tutti i presbiteri, assieme ai vescovi, partecipano in tal grado dello stesso e unico sacerdozio di Cristo, che la stessa unità di consacrazione e di missione esige la comunione gerarchica dei presbiteri con l’ordine dei vescovi" (n.7).
La fratellanza sacerdotale porta quindi ad agire insieme, ad operare in comunione perché si arrivi a portare frutto nell’adempiere la missione affidata.
Sempre nello stesso documento ci viene infatti ricordato che "nessun presbitero è quindi in condizione di realizzare a fondo la propria missione se agisce da solo e per proprio conto, senza unire la propria forza a quelle degli altri presbiteri, sotto la guida di coloro che governano la Chiesa" (n. 7).
Questo fondamento sacramentale della fratellanza sacerdotale si manifesta anche nella dimensione ecclesiale. Ne risulta condizione necessaria. Anche la Pastores dabo vobis sottolinea questa necessità: "La fisionomia del presbitero è quella di una vera famiglia, di una fraternità, i cui legami non sono dalla carne e dal sangue, ma sono dalla grazia dell’ordine: una grazia che assume ed eleva i rapporti umani, psicologici, affettivi, amicali e spirituali tra i sacerdoti"(n. 74). E questo clima di famiglia tra presbiteri ci può portare anche alla correzione fraterna. Il discernimento comunitario, la revisione di vita, il progetto comunitario e la stessa correzione fraterna diventano idonei strumenti per fare in modo che la comunità diventi davvero tale.
Quanto poco edificante è sentire parlare male di un confratello alle spalle dell’interessato; se ne parla con tutti ad eccezione della persona a cui è diretta la questione.
Nella correzione fraterna, invece, avviene diversamente: c’è questa apertura perché c’è l’interessamento dell’altro, si sperimenta la carità anche se a volte dolorosa, ma soprattutto non si giudica la persona. Questa correzione fraterna risulta il rimedio più efficace alle inevitabili difficoltà che sorgono nell’esercizio della fraternità sacerdotale.
A tal proposito anche il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e uno dei più noti e tradotti teologi cattolici in campo internazionale, così si esprime:" L’esistenza da single di molti sacerdoti non corrisponde alla forma comunitaria di vita che è essenziale per la comunità dei discepoli di Gesù; essa non è una soluzione ragionevole e soprattutto non è una soluzione responsabile. E’ urgentemente necessario creare, partendo dal centro eucaristico, nuovi spazi vitali e nuove condizioni di vita per la forma spirituale di vita dei sacerdoti" (Servitori della gioia. Esistenza sacerdotale – servizio sacerdotale, Ed. Queriniana, Brescia 2007, 161).
Anche papa Benedetto XVI è ritornato su questo tema sottolineando l’importanza che la vita fraterna ha in chiave vocazionale:"E’ importante avere intorno a sé… delle comunità di sacerdoti che si aiutano, che stanno insieme in un cammino comune… Se i giovani vedono sacerdoti molto isolati, tristi, stanchi, pensano: se questo è il mio futuro allora non ce la faccio. Si deve creare realmente questa comunione di vita che dimostra ai giovani: sì, questo può essere un futuro anche per me, così si può vivere" (Incontro con il Clero di Aosta, 25/07/2005).
Madre Speranza ci ha creduto
Tanti e diversi sono gli aiuti messi a disposizione per una preziosa esperienza vitale per i presbiteri. Giovanni Paolo II sempre nell’esortazione apostolica Pastores dabo vobis ce li ha indicati. Tra questi certamente assai importante risulta il richiamo alla vita comune tra i presbiteri: "Tra questi ricordiamo le diverse forme di vita comune tra i sacerdoti, sempre presenti, anche se in modalità e intensità differenti, nella storia della Chiesa. Oggi non si può non raccomandarle, soprattutto tra coloro che vivono o sono impegnati pastoralmente nello stesso luogo. Oltre che a giovare alla vita e all’azione apostolica, questa vita comune del clero offre a tutti, compresbiteri e laici, un esempio luminoso di carità e di unità" (n. 81).
Una donna nella Chiesa ha avuto il dono di una specifica missione, quella di pensare ai presbiteri, anzi di fondare una Congregazione per essi e lei - questa donna - per questa missione si è consacrata vittima a Gesù.
Si tratta di Madre Speranza, una vita spesa per la santificazione dei presbiteri. I preti erano la sua passione. Forse - perché no - in ambedue i significati: perché affidati a lei dal buon Gesù nel custodirli e perché lei sapeva della fragilità e della miseria umana di questi, per cui necessitava tanto sacrificio e accettazione di dolore.
In una delle sue "distrazioni" spirituali, Madre Speranza così dice al buon Gesù:" Oggi, 24 dicembre 1941, sento il trasporto a rinnovare l’offerta come vittima di espiazione in riparazione delle offese dei sacerdoti del mondo intero, fatta il 24 dicembre 1927 ricordando quanto ha sofferto e fatto Gesù per tutti noi, l’amore che continuamente ci dimostra, la poca riconoscenza delle anime consacrate e le numerose offese che riceve dai suoi sacerdoti. Dio mio, quello che ti do per una sì grande riparazione è ben poca cosa, ma tu uniscila al tuo amore e alla tua misericordia e tutto sarà saldato".
Il richiamo di Madre Speranza è stato sempre quello di rinforzare la fraternità sacerdotale. Era lei sempre pronta a organizzare incontri, visite, tempi di preghiera e di riposo per i presbiteri. Premure, attenzioni, cure continue soprattutto per quei sacerdoti che risultavano immersi nell’attività apostolica solitaria illudendosi di portare più frutti. Il suo forte desiderio consisteva nel favorire la loro santità e l’unione tra i sacerdoti stessi. E ai suoi sacerdoti Madre Speranza non chiedeva di fare da maestri a questi altri sacerdoti ma di essere per loro veri fratelli aiutandoli più con le opere che con le parole. E trova per lei assai giusto il ricorso alla vita comune e fraterna. Madre Speranza desiderava vedere i presbiteri "fare famiglia", vivendo cioè tra loro insieme e aiutandosi fraternamente nella propria santificazione e nel ministero pastorale.
E per i sacerdoti lei continuava a pregare tanto da sentirsi così piccola quando diceva di non saper corrispondere pienamente alla grazia che lei chiedeva in favore dei sacerdoti. Scriverà così, ancora una volta, nel suo diario il 25 marzo 1944: "Quanto poco ti ho imitato, Gesù mio, anche se affermo di volerti amare tanto, tanto! Dov’è il mio amore? Eppure tante volte ti dico di voler soffrire in riparazione delle offese che ricevi dai poveri sacerdoti del mondo intero, quando invece non sono capace di accettare con gioia le sofferenze che tu mi mandi!".
Ma soprattutto la troviamo pronta quando lei scrive, appena nove mesi dopo la fondazione della Congregazione dei Figli dell’Amore Misericordioso: "Oggi, 9 maggio 1952, ricevo l’ordine di sistemare le Costituzioni dei Figli dell’Amore Misericordioso inserendovi quanto si riferisce al clero secolare".
Sarà poi l’8 dicembre 1954 quando nella cappella dei Figli dell’Amore Misericordioso della casa di Fermo emettono i loro primi voti i primi due sacerdoti del clero diocesano: don Luigi Leonardi e don Lucio Marinozzi.
È anche interessante quanto ha riferito in una sua testimonianza Padre Arsenio Ambrogi ricordando anche i giorni che precedettero questo momento della professione. E si riferisce a qualche settimana prima dell’Immacolata di quell’anno: "La Madre Fondatrice che si trovava a Fermo si ammala gravemente al punto di credere che per lei è giunta l’ora della morte. Ci convoca attorno al suo letto e ci dice cose che si sono incise profondamente nel mio animo. Sono presenti i due sacerdoti che dovranno per primi emettere i santi voti nelle mani dell’arcivescovo Perini, il giorno dell’Immacolata. Essi sono di intesa con la Madre di andare a Loreto per un corso di esercizi spirituali in preparazione a questo evento. La Madre li esorta a prepararsi bene presso quella Santa Casa dove il Verbo di Dio si fece carne: E poi prosegue:‘Figlioli, dovevo dirvi una cosa molto importante. Secondo Nostro Signore non serviva una Congregazione di più. Ce ne sono già tante (e ne fa una enumerazione per le varie necessità della Chiesa). Ne mancava una per il suo amato Clero. Ricordate, presto verranno giorni che il Clero secolare, solo com’è non potrà più vivere. Tutti si uniscono: i comunisti, i socialisti… solo il Clero secolare e i Religiosi sono così divisi! E il Signore ha fatto sorgere questa Famiglia Religiosa perché il sacerdote secolare vi trovi la propria famiglia’. Ci fu una pausa carica di silenzio e poi con voce forte riprese:‘E Dio la disfaccia sul nascere se non dovesse servire per questo’".
Il richiamo della Madre è stato forte:" Verranno giorni che il clero secolare, solo com’è non potrà più vivere".
E noi abbiamo assistito come Dio porta a compimento la sua opera tanto che la Chiesa ha dato l’approvazione ecclesiastica a questo carisma in favore dei sacerdoti.
Il 26 maggio del 2005 c’è stata quindi l’approvazione definitiva del nuovo ramo per la Congregazione dei Figli dell’Amore Misericordioso: i sacerdoti diocesani con voti.
Segno di vitalità
Un nuovo modo di appartenenza non solo alla medesima Congregazione FAM ma nuova nella sua forma giuridica per la vita religiosa stessa. Anche nuova perché, credo, non ci sono state altre forme simili di approvazione da parte dell’autorità ecclesiastica. Ne stanno sorgendo però di altre con le difficoltà e le perplessità che ne derivano; queste potranno venire superate con la prova del tempo ma soprattutto quando si avrà la certezza che sono state suscitate dallo Spirito Santo, e sarà la Chiesa stessa, come nel caso dei sacerdoti diocesani con voti, a darne l’approvazione.
Lo Statuto dei sacerdoti diocesani con voti riporta sei articoli sulla vita di comunità (Artt. 24-29). Costituiscono una sfida spirituale ed ecclesiale. C’è una consapevolezza: motivazioni teologiche, ecclesiologiche, pastorali ed umane suggeriscono al presbitero di oggi la pratica della vita comune. E Madre Speranza ha intuito tutto ciò facendosene apostola in questo senso. Lei sa che la comunità è un luogo di crescita radicato nella dinamica dei gruppi ed è una testimonianza concreta in un luogo concreto nello spazio e nel tempo. Sa che la vita comunitaria ci apre all’accoglienza della diversità e all’approfondimento paziente del dialogo e dell’incontro. Che costituisce per noi un invito a superare l’individualismo e a rompere il cerchio della paura dell’altro e delle differenze. Sa anche che i sacerdoti diocesani FAM hanno un obiettivo che accomuna.
Lo sappiamo anche noi con l’approvazione dello Statuto. Secondo modalità proprie e in maniera compatibile con gli impegni diocesani questi sacerdoti diocesani con voti " sono chiamati a perseguire le stesse finalità della Congregazione, ... sono chiamati innanzitutto ad annunciare la pienezza di bontà di Dio Padre, il quale ama tutti i suoi figli e li vuole rendere felici, … debbono tendere con rinnovato impegno alla propria santificazione, così da conseguire una maggiore armonia tra vita interiore ed azione apostolica, al fine di operare più efficacemente per il bene delle persone loro affidate e per l’edificazione della Chiesa, … a perseguire con particolare interesse il fine primario della Congregazione, a norma delle Costituzioni, operando per l’unità del clero diocesano e la sua santificazione, … ad incarnare nel proprio ministero la particolare sollecitudine dell’Amore Misericordioso" (Statuto, artt.2-6).
E vorrei concludere con una famosa affermazione del teologo Karl Rahner, secondo cui il cristiano di domani o sarà un mistico o non sarà. L’esperienza mistica di Dio alla quale allude è quella che può fare solo chi ama l’altro, il suo prossimo. "Penso – afferma Rahner – che in una spiritualità del futuro l’elemento della comunione fraterna, d’una spiritualità vissuta insieme, possa giocare un ruolo più determinante, e che lentamente ma decisamente si debba proseguire lungo questa strada" (Elementi di una spiritualità nella Chiesa del futuro, in: AA.VV., Problemi e prospettive di spiritualità, Ed. Queriniana, Brescia 1983, 440-441).
Una vita di comunione, interamente originaria e alimentata dall’amore reciproco, costituisce di certo la via alla santità per noi presbiteri del nuovo millennio, capaci di testimoniare Cristo ad un mondo ormai divenuto non religioso.
È il richiamo alla santità di comunione che noi sacerdoti diocesani Figli dell’Amore Misericordioso siamo chiamati ad incarnare coerenti con il nostro carisma.
Tutto questo, a norma dell’articolo 24 dello stesso Statuto che dice: " I sacerdoti diocesani Figli dell’Amore Misericordioso, per quanto è possibile, debbono fare vita di comunità".
Madre Speranza fa risuonare con forza e chiarezza questa chiamata per i sacerdoti diocesani con voti. È l’esortazione alla Koinonìa, che non può che essere il riflesso della koinonìa intra-trinitaria.
È l’augurio, ancora una volta, alla santità come profezia del vivere insieme.