L’amministratore infedele

(ovvero come si diventa pescatori di uomini)

 

La parabola dell’Amministratore disonesto (Luca 16, 1-18) ha notoriamente costituito da sempre un autentico rompicapo interpretativo. Ciò dipende anzitutto dalla sua caratteristica "scioccante" sull’uditore specifica di alcune narrazioni esclusive dell’Evangelista S. Luca ma non riferite anche dagli altri Evangelisti "sinottici" (cfr p. es. la Parabola dell’Amico importuno, quella del Figliol prodigo, quella del Giudice iniquo e della vedova, quella del Fariseo e del pubblicano, tutte presenti solo nel Vangelo di S. Luca e non negli altri); ma principalmente è un rompicapo per l’esistenza di alcune contraddizioni interne che costellano questa Parabola dell’Amministratore disonesto e si mostrano irrisolvibili nella sua interpretazione tradizionale.

1) Quest’interpretazione "vede" in coloro che nella narrazione sono denominati "figli della luce" tipicamente coloro che hanno accolto la parola di Dio in contrapposizione a quegli altri che non l’hanno accolta e sono denominati "figli di questo mondo"; ma poi, inspiegabilmente sono questi ultimi ad essere chiamati "più accorti" dei primi (phrónimoi) più che non lo siano i primi, considerati "disavveduti" (moroi).

Ma se i figli della luce sono coloro che hanno accolto la parola di Dio che senso ha che Gesù abbia avuto interesse a proporre invece come modello i figli di questo mondo (che non l’hanno accolta) come se "accogliere la parola" corrispondesse o fosse sinonimo di non avvedutezza?

2) La ricchezza che l’Amministratore maneggia disonestamente è inizialmente considerata proprietà dell’uomo ricco nei cui confronti l’Amministratore è infedele. Tipicamente l’"uomo ricco" rappresenta Dio e l’Amministratore ciascun uomo, ciascuno di noi, nei rapporti con Dio.

Ma la ricchezza, che dunque appartiene a Dio (versetto 1 di Luca 16), è subito dopo (versetto 9) qualificata "disonesta" (od ingiusta); si crea così un jato: può essere infatti ingiusto ciò che appartiene a Dio? L’interpretazione tradizionale non risolve questo dilemma e suole saltarlo a piè pari.

3) Tipicamente l’Amministratore (dunque ciascun uomo, nell’interpretazione tradizionale) è mostrato poi nell’atto di conseguire, di assicurarsi vantaggi personali frodando ancor più il già frodato Padrone. Egli infatti consegue vantaggi per sé medesimo alterando i certificati dei debiti dovuti all’uomo ricco dai debitori di quest’ultimo.

Siccome la sua azione è interamente determinata da un "calcolo egoistico" e non da un moto di misericordia verso il debitore, ne risulta una sorta di baratto, o mercimonio, a proprio vantaggio, fra beni classificati ingiusti (iniqui) [tipicamente la ricchezza materiale] e che non appartengono neppure all’Amministratore e beni d’ordine superiore (la ricchezza vera, cioè spirituale) che gli apparterranno o di cui fruirà post-mortem (cioè quando quelli materiali verranno a mancare).

Ma è proprio un tal baratto egoistico che Gesù intendeva proporre, sia pur per assurdo, al proprio uditore? E poi come conciliare ciò col fatto che i beni barattati non appartengono all’Amministratore, e non sono neppure in suo uso, ma in un uso altrui, i debitori dell’uomo ricco?

Per risolvere queste due contraddizioni (o difficoltà) qualcuno (cfr. p. es. il commento alla Bibbia di Gerusalemme, Ed 1973) ha suggerito che la quotaparte dei debiti che veniva cancellata dalle ricevute corrisponderebbe, tutto o in parte, ad una supposta aliquota di spettanza dell’Amministratore, una sorta di "competenza personale" (iniqua) sui debiti contratti dai terzi verso l’uomo ricco, secondo un (supposto) uso del tempo che imponeva un tal supplemento a carico del debitore che, tramite l’Amministratore, otteneva un prestito dall’uomo ricco.

(Un equivalente di una tale (supposta) usanza sarebbe oggi in qualche modo il "caporalato" ossia l’esazione di una parte del salario dei lavoratori a vantaggio di colui che ne cura l’ingaggio).

Secondo tali commentatori la quotaparte di debito cancellata sulle ricevute corrisponderebbe dunque all’iniqua competenza dell’Amministratore che vi rinuncia per accattivarsi la futura benevolenza del debitore.

A parte l’artificiosità di quest’interpretazione, inattendibile anche per l’entità sproporzionata dalle somme cancellate, essa comporta la scomparsa della caratteristica "scioccante" che caratterizza invece il racconto lucano, e che si fonda sulla lode conferita dal Padrone all’Amministratore per un’azione che, per essere scioccante, doveva risultare, se mai, ancor più infedele e non già legale o giustificabile.

L’interpretazione così proposta è quindi inattendibile, oltre a marcare vi è più il mercimonio fra la ricchezza disonesta e la ricchezza "vera" (i beni spirituali) acquisita con l’astuto uso di quella disonesta (la ricchezza materiale).

Ma perché poi la ricchezza materiale è, per forza, disonesta?! Nell’Antico Testamento, dopotutto, essa accompagna spesso come premio di Dio l’uomo giusto, che prospera, nei beni e nella discendenza, proprio perché giusto.

Non è quindi plausibile che Gesù indicasse ai suoi uditori indiscriminatamente come disonesta o ingiusta la ricchezza o peggio i beni materiali.

4) Vi è poi l’insanabile questione del sito ove l’Amministratore infedele si attende di essere accolto, un sito definito "casa" (o dimora) dei debitori (Luca 16,4) ma anche "dimore eterne" (Luca 16,9) e cioè, tipicamente la "casa del Padre" (=Dio).

Dove dunque sarà accolto l’Amministratore infedele quale premio per la sua azione astuta, presso le "case" dei figli di questo mondo di cui egli allevia il debito, o presso Dio per aver alleviato i loro debiti? L’interpretazione tradizionale non risolve il dilemma del sito.

5) Vi è infine l’inquietante interrogativo: a che cosa incita l’intero racconto? ad un sapiente utilizzo dei beni materiali (in elargizioni, elemosine, ecc.) in vista di acquisirne altri (spirituali)? Incita cioè davvero al "baratto" fra beni materiali e beni spirituali? Ma come si concilia una tale esortazione con la dichiarazione successiva dell’affidamento dell’altrui "vera" ricchezza (ricchezza spirituale) solo a chi sia stato trovato affidabile nel maneggiare quella sempre altrui "non vera", ricchezza materiale?

Dopo tutto l’Amministratore è classificato infedele e la sua azione è un aggiungere infedeltà ad infedeltà: come è che lo si può allora considerare "affidabile" nel maneggio delle altrui ricchezze? Chi gli affiderà quella vera se già non è affidabile in quella non vera?

Di fronte a tutte queste difficoltà è stato proposto da alcuni studiosi che il racconto di Luca, così come ci è pervenuto, sia la giustapposizione di più "detti" (o concetti) di Cristo redazionalmente mal accostati, con conseguente insorgenza delle confusioni di senso e di logica (contraddizioni) che si sono menzionate, così come poi sembra apparire ancor più dalle tre interpolazioni dei versetti 16, 17, 18 che non sembrano aver nulla a che fare con il racconto che riguarda l’Amministratore infedele. Il citato commento della "Bibbia di Gerusalemme" Ed. 1973 si affretta puntualmente a rimarcare quest’incongruità del loro accostamento, come se l’immutabilità della Legge Mosaica (versetto 16), la sua limitazione al passato fino a Giovanni Battista e non oltre (versetto 17), e la condanna del divorzio (versetto 18) nulla abbiano a che fare con la Parabola dell’Amministratore.

Ma un siffatto chiarimento "redazionale", che è una rinuncia a comprendere la Parabola, non soddisfa affatto, proprio perché è una rinuncia a comprendere.

Per fortuna esso non è vero.

Nella Parabola e nei versetti successivi non si è di fronte né ad una malaccorta giustaposizione di detti di Cristo non ben collegati tra loro dall’Evangelista S. Luca, né di fronte ad immagini fuorvianti, banali o contraddittorie, ma, come vedremo, si è di fronte a ben altra struttura e sostanza, di altissimo livello.

-----------------------

L’Evangelista S. Luca introduce nel racconto due "termini tecnici": la dizione "figli della luce" e quello di "mammona (o ricchezza) dell’iniquità". Di essi il primo non si trova in nessun altro "passo" di Luca né presso nessuno degli altri Evangelisti, ma è specifico solo della parabola dell’Amministratore infedele.

Quanto all’altro termine, esso appare, talora, anche altrove (p. es. in Matteo) ma in modi e forme estremamente sporadici e radi.

Ora il termine "figli della luce" è una locuzione che compare sistematicamente nei celebri manoscritti di Qumran risalenti ad epoca anteriore a Cristo ed accidentalmente scoperti nel 1947 (esattamente solo 51 anni or sono) da un giovane arabo, pastore di armenti, nelle grotte dell’omonima località ad oriente del Mar Morto.

Quivi 150 anni a.C. si era insediata una comunità "separatista" di Ebrei, distaccatasi per motivi religiosi e politici, dal resto di Israele.

Era la comunità degli Esseni (distrutta poi dalla Xª Legio fretense romana nel 68 o 69 d.C.), comunità, questa degli Esseni, che riteneva se stessa depositaria della vera Parola di Dio, (= della ricchezza vera), e di essere quindi "nella luce" (d’onde la locuzione "figli della luce" da essa coniato); e riteneva settariamente gli altri Ebrei "figli delle tenebre" e depositari di "ricchezza (mammona) iniqua", in quanto allontanatisi progressivamente dalla sostanza vera della Legge mosaica.

[Tutto ciò che è lontano da Dio è non giusto, cioè iniquo; iniqui quindi gli uomini "figli delle tenebre" ed inique le loro sostanze terrene (= mammona dell’iniquità)].

Ora se questi sono termini coniati ed applicati a se stessi dagli Esseni più di 100 anni prima di Cristo e li si ritrova tali e quali nella dizione della parabola dell’Amministratore infedele, è da ritenere che in quest’ultima Cristo stesse riferendosi non ai propri seguaci, ma proprio agli Esseni ed alle loro usanze, da Lui criticate come "non accorte".

Quest’osservazione, dovuta a David Flusser, uno dei maggiori studiosi dei manoscritti di Qumran, fa completamente "saltare" l’interpretazione tradizionale della parabola, escogitata sia pur in modo pio e zelante ma quando nulla si sapeva di Qumran e dei suoi manoscritti, e si era, nei secoli, perduto il ricordo stesso degli Esseni, distrutti interamente dai Romani.

Si arriva così alla conclusione che nella sua Parabola Cristo non proponeva niente di complicato, di allegorico, ecc. ma stava semplicemente parlando degli Esseni (o ad un gruppo di Esseni) per trasmettere all’uditorio un messaggio nuovo.

Qual’è questo messaggio?

Gli Esseni erano "Ebrei separati", che si erano distaccati dal resto di Israele per contrasti dottrinali (e politici) originati dal lassismo crescente che si era insinuato frammezzo ai ranghi sacerdotali.

In effetti il "movimento" essenico risaliva a molto prima, forse già al tempo della dominazione persiana su Israele; ma circa 150 anni prima di Cristo era prevalso quel che può denominarsi "il partito" dei progressisti, e ciò si concluse con l’estromissione dal Tempio di un rappresentante Sacerdotale "conservatore" di altissimo livello, (il così detto Maestro di Giustizia), costretto a riparare con pochi seguaci nel Deserto Orientale, sopravvivendo precariamente in volontaria solitudine, con la sola occupazione della dedizione più assoluta all’originaria Legge mosaica.

Gli Esseni divennero poi nel tempo una collettività più e più consistente, diffusa anche tra i villaggi e le campagne di Israele, mantenendosi però ai margini della vita sociale degli Ebrei "non separati".

Si stima che al tempo di Gesù essi raggiungessero in tutto oltre 4000 o 5000 fra uomini e donne, di cui a Qumran ne vivevano sì e no al più solo duecento.

Gli Esseni credevano nella venuta reale, fisica, di un Messia, che doveva essere inviato da Dio nel futuro per riscattare Israele. Credevano nella risurrezione dai morti, che si sarebbe verificata al tempo dell’apò-calisse (= giorno del disvelamento delle cose occulte). Ma principalmente erano strettamente osservanti fedeli della Legge e credevano nella purità che essa conferisce a coloro che l’osservano.

L’isolamento o la marginalità della loro sopravvivenza li indusse ad estendere tutto ciò, settariamente, fino alla conseguenza estrema di considerare "iniquo" (od ingiusto), perché lontano da Dio, tutto ciò che non vi si conformava, ed a rifuggire in conseguenza da ogni contatto dottrinario, commerciale e sociale con i non confederati nel loro patto e cioè tutti gli altri, da essi classificati "figli delle Tenebre" e possessori di "mammona di iniquità", od iniqua ricchezza), in contrapposizione a se stessi, che si riguardavano invece quali depositari dello Spirito di Dio, (la ricchezza vera), e perciò "figli della luce".

Questa "apertura" settaria si traduceva presso gli Esseni nella pratica della comunione dei beni fra di loro, e nel separatismo più assoluto rispetto agli altri (i figli delle Tenebre) con il divieto di ogni contatto che non fosse strettamente indispensabile e che, se non tale, era sottoposto a pene severe, fin anche all’espulsione dal gruppo ed alla pena di morte.

Si hanno notizie delle abitudini comunitarie degli Esseni non solo dai testi rinvenuti a Qumran ma anche dalla testimonianza dello storico giudeo-romano Giuseppe Flavio che, all’epoca, nella sua "Antichità" scrive che gli Esseni "vivono conformemente al precetto di Pitagora che aveva insegnato ai propri discepoli la comunione dei beni nei riguardi degli amici perché l’amicizia è benevola e pone tutto in comune".

Gli Esseni si imponevano in conseguenza la pratica dell’aiuto scambievole, tanto da non portare nulla con sé, quando si mettevano in viaggio, sicuri di trovare accoglienza ed appoggio dagli altri Esseni, nei villaggi e città. Portavano con sé solo le armi per difendersi dal brigantaggio durante la strada.

Nei riguardi altrui covavano invece un odio sacro, teologico, e l’attesa della vendetta, che sarebbe esplosa nel "giorno del Messia", con l’annientamento dei "figli delle tenebre" e della loro "ricchezza iniqua".

Gli Esseni erano dunque gente fiera, semplice, rigorosamente religiosa, onesta nella propria vita, aliena da lussuria e dal divorzio, dedita alla preghiera, contadini e pastori seminomadi, aperti fra di loro, ma chiusi ed inaccessibili nei riguardi di ogni altro.

L’insegnamento di Gesù si adattava abbastanza bene con la prima parte di un cotal comportamento: ecco allora, nel parlare di Esseni (o con Esseni) il significato dei versetti di S. Luca che seguono la parabola dell’Amministratore e concernono la non cancellabilità della Legge, neppure in un jota, come pensavano e praticavano dunque gli Esseni, e la disapprovazione (condanna di Gesù) del divorzio (atteggiamento questo comune a Cristo ed agli Esseni).

Non si tratta quindi di pericopi malaccortamente interpolate da S. Luca, ma dell’indicazione dell’approvazione data da Gesù ad alcuni precetti e prassi degli Esseni.

Frammezzo v’è anche la traccia, però, di una prima "rottura" con essi, quella dovuta a Giovanni Battista. Questi quasi sicuramente era esseno o proveniva da circoli simpatizzanti con gli esseni, come, tra l’altro, potrebbe essere indicato dal suo vivere nel deserto come facevano gli Esseni e dal suo cibarsi di locuste e di miele selvatico. Egli però spezza il fiero isolamento esseno, che si proibivano rapporti, anche quelli dottrinali, con gli altri, e grida invece a tutti, nel deserto, l’imminenza del Regno di Dio, suscitando perplessità e disorientamento: "che dunque dobbiamo fare?", dicono gli astanti.

S. Luca annota al riguardo il pensiero di Gesù: la Legge ed i Profeti valgono fino a Giovanni e non oltre. Questo versetto sta a rappresentare la "rottura" del nuovo messaggio con quello vecchio, la cui validità è, d’ora in poi, sospesa, sorpassata.

I tre versetti interpolati da S. Luca dopo la parabola dell’Amministratore non sono dunque malaccortamente introdotti, ma chiariscono fin dove Gesù approvava e dove iniziava la sua disapprovazione della "posizione" degli Esseni.

Questa è sconfessata più ampiamente ed in toto nella Parabola, ove viene classificato "non accorto" quanto è messo in pratica dagli Esseni (i figli della Luce) nei loro rapporti materiali con gli altri, i figli delle Tenebre o cioè di questo mondo.

L’insegnamento di Gesù è stato sempre quello dell’"apertura" verso tutti, anzi più nei confronti dei peccatori e dei lontani da Dio, che non dei giusti, e ciò per amore, per misericordia, ed in vista dell’attirarli tutti e ricondurli ad un solo ovile e ad un solo pastore; l’opposto cioè dell’odio sacro e della vendetta teologica covata dagli Esseni.

La Parabola è l’indicazione di come fare per accostarsi allo scopo: "utilizzare i beni materiali (la ricchezza non vera) altrui in modo vantaggioso per gli altri, per essere accettati da costoro (essere accolti nelle "loro case") per averci trovati affidabili nei loro confronti e vedersi porre in comune la loro vera ricchezza (le loro dimore eterne, cioè i loro beni spirituali), divenendo con ciò anche essi ascoltatori della Parola (ci affidino la loro ricchezza vera).

La Parabola è in breve l’indicazione di come fare per divenire "pescatori di uomini" (cfr. S. Matteo 4,19).

Ricordo, (a proposito ed a sproposito), la raccomandazione analoga che Edith Stein esprimeva negli anni ’30 di questo secolo dalla cattedra di filosofia dell’Università di Gottinga ai suoi allievi: "siate credibili in tutto, nella v/s professione, nei v/s costumi, nelle vostre azioni, per poter essere creduti quando parlerete di Cristo".

La Parabola dell’Amministratore disonesto non è dunque un incitamento ad usare i propri beni materiali come merce di scambio per conseguire beni soprannaturali, spirituali, od un premio. E’ l’indicazione invece di non agire come gli Esseni (i figli della Luce) che credono nella Parola ma si chiudono nel settarismo. E’ l’indicazione di utilizzare i beni terreni, il contatto con gli altri e l’"apertura" indiscriminata verso di loro, a che anche questi altri ascoltino la Parola e credano in essa. Insomma non si tratta di acquisire vantaggi sia pur spirituali in proprio ma di dare agli altri la ricchezza vera, quella della loro spiritualità.

Con tale interpretazione, diversissima da quella tradizionale, cadono tutte le contraddizioni logiche altrimenti inspiegabili nel contesto della Parabola:

- i "figli della Luce" non sono i seguaci di Cristo, ma sono gli Esseni ed essi sono realmente meno accorti, nel loro settarismo, di quanto non sia la loro controparte, i figli di questo mondo, che non sono settari;

- la "ricchezza iniqua" è quella concessa da Dio (l’uomo ricco) a questa controparte, sotto forma di beni terreni, ed è chiamata iniqua da S. Luca non perché è iniqua in sé ma perché questa è la denominazione con cui gli Esseni l’indicavano;

- l’Amministratore è disonesto nel senso di essere in senso lato, ogni uomo che debba rendere conto a Dio delle proprie azioni:

Non è fuor di luogo osservare però (considerazione questa di C. A. Evans) che sotto al profilo storico Gesù, nella Parabola, forse intendeva alludere semplicemente, con la figura dell’Amministratore disonesto, ai (od a qualcuno dei) Sacerdoti del Tempio di Gerusalemme suoi contemporanei, da Lui non approvati (anzi apertamente criticati) per via della cattiva (pessima, fraudolente, scorretta) cura e gestione delle cose di Dio nel Tempio (Amministrazione disonesta delle cose di Dio; cfr al riguardo la diatriba che concerne i mercanti che Gesù caccia via dal Tempio). Cionostante questi Sacerdoti (o quel singolo di essi) sono indicati nella Parabola più avveduti degli Esseni (i figli della luce) poiché questi ultimi, con il loro settarismo, precludevano di fatto agli altri l’ascolto della Parola "vera" (la vera ricchezza), e non allieviavano quindi il debito di costoro nei confronti di Dio.

- L’Amministratore disonesto invece, usa la ricchezza iniqua altrui a vantaggio di questi altri e consegue con ciò la lode del Padrone perché questi altri vengano posti nella condizione di accettare l’Amministratore nella loro interiorità (le loro case) mettendo in comune la ricchezza vera (quella spirituale) avendolo trovato affidabile, nei loro confronti, nel maneggio della ricchezza terrena (i beni, i contatti, il commercio, ecc. che invece gli Esseni si proibivano nei riguardi altrui).

- l’asserzione dell’affidamento della vera ricchezza lega quindi perfettamente con l’azione dell’Amministratore descritta dalla Parabola, a favore dei terzi.

- ed anche i versetti successivi, 16 - 17 - 18, cessano di essere slegati, ma sono la demarcazione di ciò che Cristo approvava e del limite fin dove approvava (e non oltre) gli Esseni.

Con queste osservazioni la Parabola diviene non solo completa ma addirittura trasparente. L’intero quadro diviene grandioso, sensato, coerente, e di straordinaria profondità e bellezza.

Ing. Calogero Benedetti

------------------------------

p.s. In questo scritto ho parafrasato per i lettori della Rivista lo studio di D. Flusser, pubblicato dall’Editore Piemme nella raccolta, mai sufficientemente raccomandata, intitolata "Gesù ed i manoscritti di Qumran" che raccoglie gli studi dei primi undici (quanto a primato a livello mondiale) studiosi di tali manoscritti, da cui emerge una figura stupenda e straordinaria, e ad altissimo livello "scientifico", di Gesù storico, vero Dio e vero Uomo.

[Home page]


realizzazione webmaster@collevalenza.it
ultimo aggionamento 05 maggio, 2005