STUDI

L. S.

Per cristianizzare l'umano bisogna umanizzare lo stile cristiano

 

L'esperienza comune ci insegna che non basta fare il bene, bisogna farlo bene: non vi è pastorale efficace senza un’efficace metodologia. Tante iniziative pastorali si affidano a improvvisazioni e ad entusiasmi: non sono sorrette da adeguata preparazione e dalla conoscenza del modo migliore di fare. Purtroppo si risponde ad esigenze nuove con metodi e contenuti vecchi; mentre la società moderna, sviluppatasi al di fuori del modello evangelico, va convertita prima alle idee, ai modelli cristiani.
Ora, il programma attuale dei cattolici è di umanizzare il Cristianesimo per cristianizzare la modernità. La Chiesa, vivendo e parlando in un mondo di opinioni, deve approfondire il suo messaggio, curarne e adattarne l’espressione a spiriti non più disposti alla passività.
Per cui bisogna anzitutto reagire contro la legge del minimo sforzo e la tentazione del press’a poco. L’importante non è di far molto, ma bene. Già Pio XII – l’11 marzo 1955 ai parroci e ai quaresimalisti di Roma – diceva: “Per il lavoro diretto al rinnovamento dei singoli, siate discreti nel cominciare, costanti nel continuare, coraggiosi nel portare a termine. Saper rinunziare alla fretta, saper attendere il momento propizio, saper dosare ciò che si dice e ciò che si chiede: ecco un primo requisito indispensabile all’azione apostolica individuale”.
La fretta è la nemica capitale di tutto quello che facciamo; ed è frequente la tentazione di non aspettare che tutto venga lievitato dalla mano di Dio. Il Signore ci fa l’onore di aiutarci, quando ci abbandoniamo nelle sue braccia; ed è così bello rischiare, quando ci si affida a mani onnipotenti!
Un altro punto importante è essere rispettoso dei diritti di Dio sulle anime: la gente non deve attaccarsi a noi, ma a Dio; essa è affamata di Dio, ed ha bisogno di Gesù non di noi. Diceva Giovanni Paolo II: “Sa amare veramente e pienamente soltanto colui che è capace di possedere la sua anima (Luc 21, 19), di possedere se stesso per diventare dono agli altri” (il 24 febbraio 1981 a Tokyo nel dialogo coi giovani). Per cui occorre vigilare attentamente su certe personali tendenze cariche di umanità, per evitare che la confidenza e l’amicizia stimolino a soffermarsi alle qualità naturali.
Poi, per attirare la benedizione del Signore sul proprio apostolato, contano molto l’orazione, le pratiche di mortificazione, lo spirito evangelico. Il progresso delle anime è un’opera intrinsecamente soprannaturale, che si consegue coltivando la propria vita interiore. Allora si possono fare in modo santo le più svariate cose non sante.
Inoltre gli altri vanno rispettati seriamente, trattandoli con fede e amore. Il Vangelo ci prescrive un apostolato fraterno, aperto; e quel che conta è di farsi accettare come un vero amico, che vuole trasmettere la propria esperienza di fede. Cristo è venuto per radunare i figli di Dio dispersi; e il nostro compito è di riunirli e di far sì che riconoscano la loro fraternità e la proclamino in una eucaristia. Gesù con l’umiltà, con la debolezza ha compiuto opere grandi; così, per iniziare il dialogo con la samaritana, si è messo nella condizione d’inferiorità iniziale: si è umiliato, ha chiesto da bere. E chiedere è l’arte di Dio e dei santi.
Bisogna pure premurarsi di fare il bene elegantemente. Maria Sticco nel suo libro “Il dovere e il sogno” ha scritto: “Il bene, forte della sua bellezza intrinseca, trascura qualche volta la veste esteriore. Eppure dal non saper tracciare nelle opere pie, nella dedizione agli altri una linea di bellezza, deriva che il bene sia poco apprezzato, mentre il male che si veste di eleganza, abbaglia di colpo”. Purtroppo l’apostolato si appesantisce nell’abitudine, la quale è tiepidezza dello spirito, ma si alimenta di quello speciale stato d’animo che si chiama entusiasmo. Per commuovere le anime è necessaria la convinzione divenuta entusiasmo: senza una carica entusiasmante non si fa nulla di vivo.
Ancora c’è da sottolineare l’opportunità, prima di assediare un’anima, di studiarla bene per scoprirne i lati deboli e farvi entrare di lì l’amore di Dio, con uno zelo discreto. La verità è un prezioso liquore che si serve col contagocce. E, più che le opere, quello che attira la gente è l’attenzione alle persone, l’interessarsi alla loro vita, il lasciarle parlare e l’ascoltarle con pazienza senza guardare l’orologio.
La nostra influenza su gli altri arriva fin dove arriva la nostra cordialità. Lo sguardo caldo di simpatia, la semplicità dei modi, l’affabilità nel contatto, disarmano ogni resistenza: bisogna essere buoni nell’accento, nei modi, nel volto per ottenere effetti meravigliosi. Influisce molto sull’altro la pazienza o mitezza come contegno normale, il brillìo gioioso degli occhi, la voce suadente di chi è convinto di quanto dice.
Nei contatti umani prima bisogna ascoltare e cercar di comprendere la persona con cui si parla, poi amarla e farle sentire il nostro amore. Pertanto noi, se guardiamo agli altri con un po’ più di simpatia, scopriamo in essi dei ponti capaci di condurci fino alla loro anima.
Lontano è colui dal quale ci teniamo lontani; mentre il dare e accettare consigli unisce tutti e crea una mentalità e un’azione comune. Spesso basta una parola gentile per vincere le persone più ostili: essa può ridare fiducia a chi l’ha perduta, fargli sentire che non è solo al mondo.
Paolo VI ha scritto: “Questo è il genio dell’apostolato: saper amare”. Da parte sua il Curato d’Ars affermava che “il mondo apparterrà a chi l’ama di più e glielo dimostrerà meglio”.
Allora evitiamo quella aberrazione del cristianesimo attuale che è la logomachia, con discussioni a non finire, interviste, tavole rotonde. E pensiamo seriamente ad impollinare le strutture sociali di cristianesimo sminuzzato in più diretti contatti umani. In tal modo realizziamo quanto scriveva Carlo Carretto: “Al mondo tutto è problema, meno la carità, l’amore. Ebbene: vivete l’amore, cercate la carità. Essa vi darà la risposta volta per volta a ciò che dovete fare… Non preoccuparti, fratello, di che cosa fare; preoccupati di amare. Amando ascolterai la Voce; amando, troverai la pace” (nel libro “Lettere dal deserto”).

 

È veramente efficace l’apostolo
che testimonia con la propria vita

Ci sono nella vita sociale presenze che rovinano, perché hanno il potere di rimestare il fondo della propria anima intorbidandola, e presenze che salvano, perché hanno il potere di risvegliare la parte migliore di sé. Ora, chi dedica la propria vita al bene, deve fare della sua presenza un apostolato, accettare di essere semplicemente il buon concime, una presenza di pazienza e bontà: senza tentare – come diceva S. Vincenzo de’ Paoli – di andare più in fretta di Dio. Egli ha bisogno di essere saggio, prudente, rispettoso, e di mantenersi nella pace.
S’intende che solo chi ha trasformato l’anima propria può trasformare l’anima dei fratelli: è capace di vivere nell’amore di Dio e del prossimo chi si è liberato dalla schiavitù della sua natura decaduta. Perciò l’“Imitazione di Cristo” racomanda: “Devi attentamente mirare che in qualunque azione tu rimanga interiormente libero e padrone di te. I figli di Dio tengono gli occhi fissi all’eterno; non sono attratti dalle cose così da attaccarvisi, ma traggono le cose a sé perché servano al bene” (libro III, 38°). Poi ancora: “Se prima di tutto manterrai te stesso nella pace, potrai dare pace agli altri. Sii dunque zelante innanzi tutto con te stesso; solo così potrai essere giustamente zelante con il tuo prossimo” (libro II, 3°).
Arnold Voung esortava: “Fate che gli altri vi vedano come desiderereste che vi vedessero”. Elisabetta Leseur aveva come motto: “Elevare se stesso per elevare gli altri”. Il problema di fondo dell’apostolato non sta nel sapere che cosa si debba o si voglia fare, ma come si debba essere nel fare l’apostolato. La prima azione va rivolta a consolidare l’interno: perché la macchina dell’apostolato va messa in moto dalla vita interiore, senza la quale l’azione diventa agitazione.
L’uomo produce frutti nella misura in cui resta unito alla sua causa principale (Giov. 15,5). Perciò l’apostolo non dev’essere persona di azione lunga e di orazione corta. Pio XII diceva: “Questo vi chiede la Chiesa con insistente preghiera: che la vostra attività esterna progredisca in proporzione con la vostra vita interiore” (l’8 dic. 1950).
Un’anima di luce diffonde la luce, un’anima abitata da Cristo irradia Cristo. Il testimone diventa “sacramento” per l’altro: è presenza che s’impone, perché non dimostra ma “mostra”, non parla di verità ma “fa” la verità e la rende credibile con la propria vita. Sono le opere di verità che convincono il mondo, è la testimonianza della vita ad essere più eloquente ed efficace di tutte le parole.
Paolo VI – nella Esortazione apostolica sulla evangelizzazione, l’8 dic. 1975 – affermava: “La testimonianza di una vita autenticamente cristiana è il primo mezzo di evangelizzazione. L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”.
Sertillanges, poi, diceva: “Solo la vita conquista la vita. Una forte coscienza diffonde più luce nelle menti e nei cuori che tutte le dimostrazioni; un silenzio vivente è più fecondo di una parola morta”. E Tolstoi osservava che “l’uomo può essere convinto soltanto dalla vita e non dalle idee astratte; e soprattutto dalle sventure. Come una candela accende un’altra candela e così si trovano accese migliaia di candele, così un cuore ne accende un altro e così si accendono migliaia di cuori”.
Infine c’è da riflettere che si conquistano gli altri con l’esempio. Nulla è più determinante e fascinoso del vedere con i propri occhi che cosa sia il cristianesimo impersonato e vissuto: lo sguardo ottimistico e benevolo dell’apostolo ha quasi un effetto di seduzione, esercita un’attrattiva sulle persone con le quali entra in contatto. Ma non basta l’illuminazione del volto, né il dire le cose giuste; bisogna decidersi a fare le cose giuste, a mettere in pratica le proprie parole. Per cui occorrono persone che “facciano vedere” il bene.
Seneca scriveva che “il miglior oratore è chi lascia parlare i fatti”. Le azioni hanno una voce più alta di quella delle parole; e non si può essere evangelizzatore se l’esempio della vita non precede la parola, come la folgore il tuono. In ogni ambiente per illuminare un ideale basta una sola torcia umana, col volto raggiante la fedeltà gioiosa a quell’ideale vivo.
Ora, dopo tutte queste affermazioni, esaminiamo noi stessi. È certamente una meraviglia che Dio si serva di me, di te o di lui, come suoi messaggeri. Ci riconosciamo misere creature; ma Dio, malgrado tutto, ha scelto di impiegare noi, che siamo semplici strumenti sproporzionati: proprio perché si veda che “l’opera” è sua. A noi il Signore chiede solo docilità, che ci “abbandoniamo” in Lui: operante in noi con la stessa grazia usata verso Pietro rinnegatore e verso Paolo persecutore.
A ciascuno di noi Dio ha rivelato il suo amore nella debolezza, nella povertà, nell’umiltà: queste sono beatitudini, senza le quali l’apostolo consegue scarsa efficacia. Ciò che salva il mondo non è la nostra sapienza o il nostro agire, ma la potenza dell’amore di Dio vissuto in ciascuno di noi. Nel suo libro “Il dovere e il sogno” Maria Sticco scriveva: “Che l’anima divampi, e poi un gaudente diventerà Francesco d’Assisi, ed una popolana Caterina da Siena, un soldataccio Ignazio di Loyla, ed un avvocatuccio Bartolo Longo”.
Allora chi – come me, come te o lui – ha ancora l’ardimento di voler essere un donchisciotte spirituale, un aiutante del Signore nell’affermazione del suo Regno, s’impegni ad accogliere la luce di Dio che viene a noi nel Cristo suo Figlio. E nel buonumore proceda avanti, testimoniando con la propria vita che Gesù è veramente risorto. In tal modo egli sarà – con la grazia di Dio e con la sua buona volontà – uno strumento di beatitudine, valido a rispecchiare il pensiero amorevole di Dio sul mondo.

 

"Non c'è cosa migliore
dello stare allegri"
(Eccl. III, 12)

Siamo nel mese trionfale delle messi mature e dei gigli fioriti: siamo nel giugno inondato di sole, pieno di vita e fecondo di frutta. La sinfonia del verde ha raggiunto ovunque la sua maturità festosa ed esuberante, e nell’aria c’è la gioia della raccolta, per quel mareggiar biondo di spighe, per quell’invitante fioritura di ciliegie e di rose, per quel rigoglio di gigli in sembianze di candore.
Nella Chiesa, poi, splende una straordinaria luminosità di feste: che iniziano con l’adorazione della Trinità e la fiammeggiante devozione al Sacro Cuore, per continuare con le solenni processioni del Corpus Domini e le fragranti intimità delle Prime Comunioni e delle Ordinazioni sacerdotali.
Così – in queste giornate fruttuose e solari – è tutta una specie di inebriamento, è un ritmo di vigore primaverile a favorire in noi un’anima vasta e allegra.
Ma ogni accensione o commozione entusiastica ha un limite, una durata quasi da stelle filanti. Inoltre quanto s’irraggia fuori di noi ha valore solo per l’uomo che vale, e che sa conferire nobiltà e bellezza al particolare: più ricco d’anima, egli maggiormente guadagna in visione e illumina della sua luce interiore quanto gli si prospetta. Per cui chi ha uno spirito aperto alla vita e “costruito” su solidi principi è legato alla gioia più intima e durevole.
Tutti, però, siamo assetati di gioia senza limiti e sentiamo che la felicità è la meta ideale della nostra esistenza. Venuti a “gemere” su una terra che non è la nostra, cerchiamo il possesso di una felicità duratura, in cui l’anima riposi senza crepuscoli di noia e di stanchezza.
Purtroppo molti di noi ne hanno tanto poca, perché spesso si intestardiscono a ridurla a briciole, a istanti frammentari di gioia, prolungati con eccitamenti spumeggianti o tutt’al più con un bicchiere di vino buono bevuto in buona compagnia. Così si sperimentano bocconi di gioie escandescenti, che moltiplicano le emotività e danno l’illusione di essere felici. Ma non si possiede l’interiore incandescenza, quella pacata letizia che moltiplica la vitalità dell’esistenza e dispone a conoscere il vero valore delle cose.
E allora dove attingere la pace profonda, la letizia durevole, che dona alla vita la giusta tonalità e colma la cerchia crescente del desiderio? Ecco: guardiamo i santi, questi “furbacchioni” che hanno capito dove “sta” la perfetta letizia e, dopo averla assaggiata in terra, se ne fanno una paradisiaca riserva. Altro che “le scorpacciate” dei furbi insipienti!… che incominciano l’inferno di qua, e poi lo continuano di là. In tal modo la vita non ha due fasi opposte, ma consecutive: essa conosce non una diversione, ma una evoluzione progressiva.
Ed ora, sulla scia dei santi, qual è il segreto della letizia che trascende ogni dolore e di tutto gode e si avvantaggia? Le Beatitudini per noi cominciano qui, sulla terra, quando siamo posseduti da un amore redimente ed elevante, capace di slanciare la nostra vita al dono di se stessa e ai suoi valori più alti. Così chi è arrivato all’elettrizzante scoperta di Dio quale Padre amorevole, sente che la felicità non è qualcosa di musicale, (riducibile, poi, a una deludente stonatura), ma è Qualcuno dal volto beatificante e che dona significazione alle cose, perché è Dio in persona.
Perciò “i redenti” che hanno abbastanza fede, amore e speranza, vivono in Dio e già sulla terra ne richiamano la lieta presenza in ogni loro azione. E allora la vita vissuta nell’amore di Dio riflette già nell’anima la luce paradisiaca, è un inizio di vita eterna; e le minime azioni diventano letificanti e preziose per lo spirito, perché è l’amore che le anima.

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ultimo aggionamento 15 luglio, 2002