ESPERIENZE
 

Joseph Card. Bernardin

Il dono della Pace

Pubblichiamo alcune pagine tratte dal volume JOSEPH BERNARDIN, Il dono della Pace, Ed. Queriniana 1998. Nella prefazione il Card. Martini scrive:
Si tratta di una delle più sconvolgenti testimonianze del nostro tempo; un guardare in faccia all’aggressione alla propria fama e poi all’aggressione della malattia mortale con dignità, con fede, con semplicità, non trascurando nessuno dei mezzi umani per difendersi legittimamente, ma rimettendosi alla fine con pace nelle mani di Dio e trovando la forza per perdonare l’accusatore e per consolare e confortare molti altri.
È un libro che tratta di temi commoventi con le parole più semplici, senza mai un’ombra di retorica; ogni parola ha il sigillo dell’onestà e della verità.
Mi ha dato la gioia di scrutare nelle profondità interiori di un uomo e di un vescovo che ho sempre molto stimato ed ammirato. La figura di Joseph Bernardin è un dono alla Chiesa e all’umanità.

Card. Carlo Maria Martini

Il libro comincia con una pagina autografa, scritta il 1° novembre 1996. Il Cardinale Bernardin morirà dopo qualche giorno, il 14 novembre. (N.d.R.)

 

Miei cari amici,

è la festa di Tutti i Santi e sono a casa perché il centro pastorale dell’arcidiocesi è chiuso. È molto più freddo di qualche giorno fa, ma il tempo è ancora bello per passeggiare, cosa che faccio normalmente.
Oggi, però, non farò nessuna passeggiata; una fatica diffusa, caratteristica degli ammalati di cancro, mi assale. Avverto inoltre un forte malessere nella parte bassa della schiena e alle gambe, a causa della stenosi spinale che mi è stata diagnosticata un anno fa.
Cosi, seduto alla mia scrivania, ho pensato di fare qualcosa d’altro. Ho deciso di scrivere questa lettera del tutto personale, per spiegare il perché di questo libretto, Il dono della pace. Non e un’autobiografia, ma semplicemente una riflessione sulla mia vita ed il mio ministero durante gli ultimi tre anni; anni che sono stati gioiosi nella stessa misura in cui sono stati difficili. Le mie riflessioni cominciano con l’infondata accusa di cattiva condotta sessuale lanciata contro di me nel novembre del 1993, e continuano nel presente, nel momento in cui mi sto preparando per l’ultimo stadio della mia vita, iniziato nel giugno del 1995 con la diagnosi di una forma aggressiva di cancro.
Parafrasando Charles Dickens in A Tale of Two Cities, «è stato il tempo migliore, è stato il tempo peggiore». Il peggiore per l’umiliazione, il dolore fisico, l’ansia e la paura. Il migliore per la riconciliazione, l’amore, la sensibilità pastorale e la pace generata dalla grazia di Dio e dal crescente sostegno di tanta gente. Senza negare il primo aspetto, questa riflessione si concentra sul secondo, dimostrando come, se Glielo permettiamo, Dio scrive diritto sulle righe storte. In altri termini, questa riflessione è intesa ad aiutare altri a comprendere come il bene e il male siano sempre presenti nella nostra condizione e che, se ci abbandoniamo al Signore, se ci mettiamo interamente nelle sue mani, il bene prevarrà.
In termini strettamente personali, invito coloro che leggono questo libro a percorrere con me le ultime miglia del viaggio della mia vita. Quando raggiungiamo la porta, io dovrò entrare per primo - questa sembra essere la regola: uno alla volta, come stabilito. Ma sappiate che porterò ognuno di voi nel mio cuore! Alla fine, saremo tutti assieme, intimamente uniti con il Signore Gesù, che amiamo cosi tanto.

Pace e amore, Joseph Card. Bernardin

Ecco altri brani del libro:

Poco prima dell’intervento, molte persone mi chiedevano di dire loro quello che pensavo di fronte a simile malattia. Dicevo: «Sono stato sacerdote per 43 anni, dei quali 29 come vescovo. Ho sempre detto agli altri di mettersi nelle mani del Signore. Ho consigliato molta gente che affrontava quello che ora affronto io. Ora è tempo per me di praticare quello che predico».
In quel periodo pregai Dio di darmi la grazia di affrontare l’intervento ed il trattamento postoperatorio con fede, senza amarezza od ansia eccessiva. Il dono speciale che Dio mi ha dato è stata la capacità di accettare difficili situazioni, specialmente la falsa accusa mossa contro di me, e poi il cancro. Il dono speciale che mi ha riservato è stato il dono della pace.
Per altro verso, il mio dono speciale per gli altri è quello di condividere con loro la pace di Dio, di aiutarli ad affrontare la malattia ed i momenti di pena.
Parlando della mia pace interiore, spero che la gente possa vedere che nelle preghiere e nella fede c’e molto di più che semplici parole. In realtà Dio ci aiuta a vivere pienamente perfino nei tempi peggiori. E la capacità di fare precisamente ciò, dipende dall’approfondimento della nostra relazione con Dio per mezzo della preghiera.
Molti anni fa imparai che l’unico modo per dedicare tempo di prima qualità alla preghiera era di alzarmi presto la mattina. (Debbo aggiungere, fra parentesi, che non avevo un grande desiderio di alzarmi così presto; di norma cercavo di rimanere a letto il più possibile). Le prime ore del mattino, prima che il telefono e il campanello della porta inizino a suonare, prima dell’arrivo della posta, mi sembrava che fossero le migliori da impiegare come tempo di prima qualità con il Signore. Promisi così a Dio ed a me stesso che avrei dedicato la prima ora di ogni giorno alla preghiera, pur non sapendo se avrei mantenuto questa promessa. Sono felice di dire che l’ho fatto per quasi venti anni. Questo non significa che io abbia imparato a pregare in modo perfetto. Non significa che io non abbia provato la stessa fatica affrontata da altre persone. Esattamente il contrario. Ma fin dai primi tempi presi un’altra decisione. Dissi: «Signore, so che impiego una certa quantità di quell’ora mattutina di preghiera in fantasticherie, a risolvere problemi, e non sono sicuro di riuscire ad evitarlo. Proverò, ma la cosa importante è che non dedico quel tempo ad altri. Così, anche se questo tempo non può unirmi a te proprio come vorrei, di certo quel tempo non se lo prende nessun altro».
Quello che ho visto con il passare degli anni che l’effetto di quella prima ora non termina quando finisce l’ora stessa. Quell’ora mi unisce certamente con il Signore nella prima parte della giornata, ma mi tiene pure unito a lui durante tutto il resto del giorno. Frequentemente, quando affronto dei problemi, siano essi positivi o negativi, penso alla mia relazione con Dio e chiedo il suo aiuto. Questi sono così dei punti importanti, almeno per me. Quel tempo, cioè, anche se non è impiegato correttamente, non lo si dovrebbe dedicare a nessun altro; si dovrebbe invece perseverare. E poi, se Gli si dedica del tempo, un po’ alla volta ci si unisce a Dio per tutta la vita, il che è molto importante.
Che cosa faccio durante la mia preghiera mattutina? Prego parte della Liturgia delle Ore. Per me quella è una preghiera molto importante. È una preghiera della Chiesa, e mi sento collegato con tutte le persone, specialmente il clero e i religiosi, che recitano o pregano la Liturgia delle Ore in tutto il mondo. Ciò mi da così non solo la sensazione, ma anche la convinzione che sono parte di qualcosa che è molto più grande. In secondo luogo, una consistente parte delle preghiere delle varie Ore sono prese dai Salmi. Ho trovato che i Salmi sono straordinari perché collegano in maniera alquanto diretta ed umana le gioie e le sofferenze della vita, le virtù ed i peccati. Essi offrono il messaggio che alla fine Dio è vincente. E vedere le persone menzionate nei Salmi che soffrono per essere unite a Dio, da una certa carica di coraggio, derivata dal fatto di sapere che perfino migliaia di anni fa stavano succedendo le stesse cose.
Prego pure il Rosario, perché esso illustra con vive immagini alcuni dei momenti più elevati della vita e del ministero del Signore come della Madre Santissima. È un vero aiuto. Taluno pensa che possa essere ripetitivo, ed in un certo senso lo è. Ma il Rosario ci mantiene concentrati sui misteri del Signore: Misteri Gaudiosi, Misteri Dolorosi e Misteri Gloriosi.
E poi impiego parte del mio tempo in preghiere mentali, riflessioni. Provo ad arricchirle il più possibile con riflessioni devote sulle Scritture ed altri buoni libri spirituali. Come già detto, fui un po’ sorpreso quando mi resi conto che nel periodo della mia convalescenza, immediatamente dopo l’intervento, non avevo in realtà il desiderio o la forza di pregare. Ed è stato allora che dissi a qualche amico: «Cerca di pregare quando stai bene, perché quando sarai ammalato, probabilmente non lo farai». Ma questo non ha fatto venire meno in nessun modo la mia fede nel Signore. Anzi, ho trovato questo molto valido per alcuni miei compagni ammalati di tumore. Talvolta essi pensano che la loro fede vacilli quando non riescono a pregare così intensamente come possono aver fatto prima. Ma ritorno ad una parola: collegati. Senza preghiera, non ci si può collegare o rimanere uniti al Signore. Essa è assolutamente essenziale.
Il 31 agosto 1996, il giorno dopo il mio annuncio che il cancro si era diffuso al fegato ed era inoperabile, presiedetti all’unzione comunitaria degli infermi nella chiesa di Santa Barbara, a Brookfield, nell’Illinois. Dissi ai miei compagni ammalati che quando ci confrontiamo con malattie gravi (o ogni difficoltà grave) dovremmo fare parecchie cose, cose che personalmente mi hanno dato pace nello spirito.
La prima è di metterci completamente nelle mani di Dio. Dobbiamo credere che il Signore ci ama, ci abbraccia e non ci abbandona mai (specialmente nei nostri momenti più difficili). Questo è quello che ci da speranza nel mezzo delle sofferenze della vita e nella confusione. È lo stesso Signore che ci invita: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e stanchi, ed io vi darò sollievo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime. Poiché il mio giogo è soave e leggero è il mio peso» (Mt 11,28-30).
Questo è un mio passo preferito e, forse, anche uno dei vostri. Esso è probabilmente così confortante e consolatorio da apparire troppo bello per essere vero. In realtà, più attente riflessioni dimostrano che il messaggio di Gesù è leggermente più complesso di quanto appaia a prima vista od al primo ascolto.
Per esempio, non c’e forse una contraddizione fra il ‘sostegno’ che Gesù ci offre e il ‘giogo’ che egli ci invita a portare? Che cosa intendeva Gesù con il suo ‘giogo’? Gli antichi rabbini usavano riferirsi alla legge di Mosè come a una specie di giogo, ma la metafora di Gesù è differente, perché centrale al suo ‘giogo’ o saggezza o legge è il Signore stesso. Egli praticava quello che predicava. Egli era gentile verso le persone che serviva ed umilmente obbediente alla volontà di suo Padre. Egli ci ha chiamati ad amarci l’un l’altro e diede la sua vita per noi. Il ‘sostegno’ che egli ci offre deriva dal far propri e praticare ogni giorno il suo insegnamento ed esempio, le sue attitudini, i suoi valori, la sua missione, il suo ministero, la sua buona volontà di dare la propria vita, in qualunque circostanza noi ci troviamo.
Che cosa rende ‘facile’ il giogo di Gesù? Un buon giogo è costruito riservando ogni attenzione a ridurre al minimo l’attrito.
Gesù promette che il suo giogo sarà soave e leggero sulle nostre spalle, rendendoci capaci di portarne il carico con più facilità. Questo è ciò che egli intende quando dice che il suo carico è ‘leggero’. In realtà, esso può essere alquanto pesante, ma ci sarà possibile far fronte alle nostre responsabilità. Perché? Perché Gesù ci aiuterà. Di solito un giogo univa un paio di buoi e ne faceva una coppia. È come se Gesù ci dicesse: «Cammina con me; impara a portare il carico seguendo il mio esempio. Se lasci che io ti aiuti, il lavoro pesante sembrerà più leggero».

Probabilmente il peso finale è la stessa morte. Essa è spesso preceduta da dolore e sofferenza, talvolta da avversità estreme. Nel mio caso è primariamente una questione di fatica diffusa che sembra aumentare giorno dopo giorno, costringendomi a passare molta parte del giorno e della notte coricato. Ma badate che Gesù non promise di toglierci il nostro peso. Egli ci promise di aiutarci a portarlo. E se ci lasciamo andare - noi e le nostre risorse - e permettiamo al Signore di aiutarci, saremo capaci di vedere la morte non come un nemico e una minaccia, ma come un amico.
Mentre concludo questo libro, sono al tempo stesso esausto e contento. Esausto per la stanchezza causata dal cancro che mi sta opprimendo. Contento perché ho finito un libro molto importante per me.
Mentre scrivo queste parole finali, il mio cuore è pieno di gioia. sono in pace.
È il primo giorno di novembre e l’autunno sta lasciando il passo all’inverno. Gli alberi perderanno presto il vivace colore delle loro foglie e la neve coprirà il suolo. La terra si fermerà e la gente correrà avanti e indietro imbottita, per stare al caldo. L’inverno di Chicago è rigido. È un tempo in cui tutt’attorno la natura sta morendo.
Ma noi sappiamo che presto verrà la primavera con le sue meraviglie e la nuova vita.
È alquanto chiaro che in primavera io non sarò più vivo. Ma sperimenterò una nuova vita in modo differente. Benché non sappia che cosa m’aspetta nell’aldilà, so che come Dio mi ha chiamato a servirlo al meglio delle mie capacità in tutta la mia vita in terra, egli mi sta ora chiamando a casa.
Molti mi hanno chiesto di parlare del paradiso e della vita ultraterrena. Talvolta sorrido a tale richiesta, perché ne so tanto quanto loro. Eppure, quando un giovane mi chiese se aspettavo con ansia di essere unito a Dio e a tutti coloro che se ne sono andati prima, feci un collegamento con qualcosa di cui ho parlato prima in questo libro. La prima volta che andai con mia madre e mia sorella nella terra natale dei miei genitori, a Tonadico di Primiero, nell’Italia del Nord, mi sembrava di esserci già stato prima. Dopo anni che sfogliavo l’album di fotografie di mia madre, riconobbi le montagne, il paese, le case e la gente. Appena entrammo nella valle, dissi: «Dio mio, questo posto lo conosco. Sono a casa». In qualche modo, penso che passando da questa vita alla vita eterna sia una cosa simile. Sarò a casa.

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ultimo aggionamento 20 agosto, 2002