STUDI
 

Prof. Luigi Alici

SPERANZA CROCIFISSA?

 

Ventiquattro agosto 410: i Visigoti di Alarico, sfondate le ultime resistenze, entrano a Roma e in tre giorni di saccheggio la mettono a ferro e fuoco. 11 settembre 2001: aerei dirottati da terroristi si schiantano sulle Twin Towers, a New York, e colpiscono al cuore il Ministero della Difesa, a Washington.

Due episodi molto distanti, con profili di profonda diversità storica, eppure in qualche modo comparabili.

In entrambi i casi, anzitutto, la violenza sembra avere un alto prezzo, cruento e insieme simbolico, in quanto colpisce non solo la vita di migliaia di persone innocenti, aggredite per il solo fatto di occupare luoghi significativi, ma anche la dignità di alcune istituzioni con l’intento di screditare il modello di civiltà che presumevano di incarnare.

In secondo luogo, i due eventi sembrano scatenare un’aspra e allarmante conflittualità tra politica e religione.
Nel primo caso, il mondo pagano fu tentato di strumentalizzare il sacco di Roma in prospettiva anti-cristiana: il cristianesimo aveva snervato e fiaccato l’impero, perché annunciava dei principi “politicamente scorretti” e socialmente destabilizzanti, quali l’amore, il perdono, un’attenzione preferenziale agli ultimi e agli esclusi nella scala sociale.
Nel secondo caso, la condanna contro il fondamentalismo religioso rischia di contrapporre artificiosamente la civiltà della tolleranza alla violenza delle religiosi, dichiarando incompatibile con un modello di convivenza pluralistico e ideologicamente neutro ogni anacronistica rivendicazione di verità assolute in cui credere e per cui vivere e morire. La sfida non riguarda, in prima battuta, il cristianesimo, eppure contiene un inquietante sottinteso intimidatorio: i cristiani debbono saldare tutto il debito della secolarizzazione e sciogliere ogni grumo dogmatico nel solvente della razionalità occidentale, fino a tramutare la loro fede in una sorta di simbolico e indolore galateo spirituale.

Come Agostino, che raccolse la sfida e scrisse la Città di Dio, non accontentandosi di “giocare in difesa”, ma aprendo una riflessione sul senso della storia e sui fondamenti della civitas, così anche noi dobbiamo interrogarci sul futuro della convivenza e sui valori di socialità virtuosa che possono cementarla. A cominciare dalla pace. Ha scritto il Papa nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace: «Da oltre quindici secoli, nella Chiesa cattolica risuona l’insegnamento di Agostino di Ippona, il quale ci ha ricordato che la pace, a cui mirare con l’apporto di tutti, consiste nella tranquillitas ordinis, nella tranquillità dell’ordine (cf De civitate Dei, 19,13)» (Non c’è pace senza giustizia. Non c’è giustizia senza perdono, n. 3).


Non possiamo nasconderci che il difficile crinale tra forza e violenza, al quale si faceva cenno nell’ultimo editoriale, sta diventando sempre più impervio e scivoloso. La lotta al terrorismo conosce i primi successi e insieme una escalation preoccupante: secondo alcuni, resta fondamentalmente un’operazione di polizia internazionale, non soltanto lecita, ma doverosa e meritoria, assumendo il valore di una difesa della democrazia dinanzi ad un drammatico risveglio del virus totalitario; secondo altri, non si può firmare una cambiale in bianco a chi parla il linguaggio delle bombe, pronto a trasformare il consenso emotivo capitalizzato dopo l’attacco degli Usa in un mandato senza riserve. «Se rispondiamo con il criterio dell’occhio per occhio», hanno scritto gli studenti di Berkeley, «il mondo diventerà più cieco».

La complessità della questione sembra nascere dalla difficoltà, anche per il cristiano, di coniugare due istanze.
Da un lato, il valore della vita umana e il primato della pace s’impongono come un appello etico assolutamente non negoziabile, che non può rassegnarsi ad un cinico calcolo delle perdite umane in termini puramente quantitativi. Come ha detto qualcuno: «Mille morti sono una statistica, una morte è una tragedia».
Da un altro lato, però, la tutela e la promozione del bene comune esigono che si debba distinguere tra l’assolutezza del giudizio etico-teologico e la “laicità” del giudizio storico-politico, che deve offrire risposte concrete a situazioni concrete, evitando la tentazione “dell’anima bella”, che lascia sempre ad altri lo “sporco compito” di entrare nella casa che brucia.

Tra questi due estremi occorre tenere desto l’appello profetico e “impolitico” alla pace come orizzonte di partenza e insieme di arrivo per ogni forma di lotta al terrorismo, condotta nel modo responsabilmente più mirato; essa infatti trae la sua legittimità dal dovere di ristabilire la pace che c’era e di creare le condizioni perché questa non venga più ferita. La forza può rivendicare una giusta superiorità rispetto alla violenza, solo quando è fedele al mandato affidatole e insieme si affretta a restituirlo, appena possibile, nelle stesse mani dalle quali l’aveva ricevuto.

In questo spazio la politica non può essere abbandonata a se stessa, soprattutto nei momenti strategici in cui la difesa della democrazia impone scelte difficili e straordinarie. La tentazione del disimpegno può diventare particolarmente pericolosa e irresponsabile quando invoca le attenuanti del terrorismo e insieme enfatizza le magagne della democrazia, ricavandone il pretesto per una inaccettabile neutralità e dimenticando che esiste anche la “pace dell’antro di Polifemo”, nel quale ognuno attende soltanto di essere divorato.


«Quest’anno la Giornata Mondiale della Pace», scrive Giovanni Paolo II nel suo messaggio, «viene celebrata sullo sfondo dei drammatici eventi dell’11 settembre scorso. In quel giorno, fu perpetrato un crimine di terribile gravità: nel giro di pochi minuti migliaia di persone innocenti, di varie provenienze etniche, furono orrendamente massacrate. Da allora, la gente in tutto il mondo ha sperimentato con intensità nuova la consapevolezza della vulnerabilità personale ed ha cominciato a guardare al futuro con un senso fino ad allora ignoto di intima paura. Di fronte a questi stati d’animo la Chiesa desidera testimoniare la sua speranza, basata sulla convinzione che il male, il mysterium iniquitatis, non ha l’ultima parola nelle vicende umane» (n. 1).

In questo difficile passaggio dalla disperazione alla speranza Giovanni Paolo II ci accompagna con un documento di straordinaria attualità e tensione spirituale. Tale passaggio esige una conversione personale e culturale, che non invalida lo spazio di responsabilità politica, ma può offrirle una preziosa apertura d’orizzonti. Soprattutto in presenza di un ordine barbaramente violato: «La convinzione, a cui sono giunto ragionando e confrontandomi con la Rivelazione biblica», continua il Papa, «è che non si ristabilisce appieno l’ordine infranto, se non coniugando fra loro giustizia e perdono. I pilastri della vera pace sono la giustizia e quella particolare forma dell’amore che è il perdono» (n. 2).

L’attacco terroristico è rivolto proprio contro una pace fondata sulla giustizia e sul perdono. «Esiste perciò un diritto a difendersi dal terrorismo» (n. 5), si afferma in modo inequivocabile. Esso infatti «si fonda sul disprezzo della vita dell’uomo» e sul «ricorso al terrore come strategia politica ed economica», che costituisce in sé «un vero crimine contro l’umanità» (n. 4).; quando poi arriva ad uccidere in nome di Dio, «strumentalizza non solo l’uomo, ma anche Dio, finendo per farne un idolo di cui si serve per i propri scopi» (n. 6). Non solo: «Occorre (...) affermare con chiarezza che le ingiustizie esistenti nel mondo non possono mai essere usate come scusa per giustificare gli attentati terroristici», e che «la pretesa del terrorismo di agire in nome dei poveri è una palese falsità» (n. 5).

In tale prospettiva, il perdono appare come «una opzione del cuore che va contro l’istinto spontaneo di ripagare il male col male». Per questo, esso ha «una radice e una misura divine», benché se ne possa cogliere il valore profondamente umano: «Ogni essere umano coltiva in sé la speranza di poter ricominciare un percorso di vita e di non rimanere prigioniero per sempre dei propri errori e delle proprie colpe» (n. 8).

Pur essendo «innanzitutto un’iniziativa del singolo soggetto nel suo rapporto con gli altri suoi simili», aggiunge il Papa, «il perdono si rende necessario anche a livello sociale (...) La capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura più giusta e solidale» (n. 9). In questo senso, la «strada maestra» del perdono non è affatto una scommessa perdente: «Il perdono infatti comporta sempre un’apparente perdita a breve termine, mentre assicura un guadagno reale a lungo termine. La violenza», ammonisce Giovanni Paolo II, «è l’esatto opposto: opta per un guadagno a scadenza ravvicinata ma prepara a distanza una perdita reale e permanente» (n. 10).

Il messaggio si conclude con l’invito ad un’intensa preghiera per la pace, che culminerà nell’incontro del 24 gennaio, ad Assisi, fra i rappresentanti delle religioni del mondo, chiamati a testimoniare, con un gesto di altissimo valore spirituale e profetico, che «l’umana famiglia ha bisogno di sentirsi ricordare le sicure ragioni della nostra speranza» (n. 14). (Da “Dialoghi”, n.4/2001)

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ultimo aggionamento 11 ottobre, 2002