ESPERIENZE

Gianfranco Ravasi

 

 

Il dovere della speranza
Guardiamoci negli occhi.
E osiamo

 

 

Il tempo della vita degli antichi era quieto, lungo e bello. Ora, invece, il tempo della nostra vita è abbreviato dalle malattie, dalle guerre ed è molto cattivo”. Così si lamentava già 2200 anni fa un anonimo autore ebreo. Corredato da bilanci, statistiche e sondaggi, il lamento riecheggia ancora oggi. Ci si è dimenticati che solo sessant’anni fa una guerra mondiale generava un’ecatombe, devastava l’Europa, faceva fiorire il lugubre fungo atomico.

Ironicamente lo scrittore inglese Chesterton raccomandava questa definizione escogitata da una bambina: “Un ottimista è chi ti guarda negli occhi, il pessimista ti guarda i piedi”. Proviamo, allora a riproporre questa parola sbeffeggiata e quasi impronunziabile, “ottimismo”; andando controcorrente, guardiamo negli occhi le persone che ci stanno attorno.

Certo,

televisione e giornali fanno passare solo i mastodontici preparativi della “macchina bellica” che sta per mettersi in movimento. Ma chi mai registra il desiderio e l’impegno di pace di milioni e milioni di persone che non si rassegnano alla devastazione terroristica e alla morte bellica?

Certo,

impressionano e mettono i brividi le dichiarazioni lapidarie di capi di Stato, di generali, ed esperti di strategia. Eppure quanto più emozionano le parole tenui e affaticate di un vecchio Papa che, senza sosta, fa balenare un altro orizzonte possibile, in cui giustizia e pace possono abbracciarsi!

Certo,

irrompono continuamente davanti a noi immagini di pietre insanguinate, di palazzi sventrati, di corpi squarciati e coperti da teli. Eppure ogni giorno nel mondo milioni di volontari sono pronti a curare le piaghe, a sfamare i disperati, ad accogliere i profughi, a vivere accanto agli ultimi della terra.

Certo,

anche questo Natale ha riproposto la greve liturgia del consumo, dello spreco, dell’ostentazione. Ma chi mai ha tenuto conto, se non Dio, di tutti gli atti di solidarietà che si sono ripetuti davanti ai cancelli delle fabbriche in crisi, tra le mura delle chiese, nel segreto delle case?

Certo,

fanno più notizia politici e attori, uomini potenti e di successo. Ma sono molti di più i bambini e gli adulti dai volti spontanei, che continuano a mettersi in gioco, a credere e ad amare, a commuoversi ascoltando Dante, a cantare e a sperare. Ecco, è proprio quest’ultima l’altra parola - così profondamente cristiana e umana - che si ha quasi pudore di pronunziare in questi giorni, la “speranza”.

Sì, aveva ragione un altro scrittore, il francese Péguy, quando osservava che “è sperare la cosa difficile, a voce bassa e quasi con vergogna. La cosa facile è disperare ed è la grande tentazione”. Alle soglie del nuovo anno proviamo a respingere questa tentazione, soprattutto come credenti, certi che l’estuario del fiume della storia non è nel baratro del nulla e dell’assurdo.
Consapevoli di quest’ultima parola divina, conservata in un libro che pure è striato di sangue, e segnato dalle tragedie della storia, l’Apocalisse: “Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né il lutto, né il lamento, né l’affanno, perché le cose di prima sono passate...”.

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ultimo aggionamento 04 febbraio, 2003