STUDI
 

    P. Aurelio del Prado fam

    Lectio divina di Luca 15, 11-32

 

Il Padre Misericordioso

 

 

Introduzione

Ci sono molte pagine bibliche, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, che ci presentano Dio come Padre Misericordioso, tuttavia la mia scelta è caduta sulla parabola che ci riporta il Vangelo di Luca al capitolo 15: la parabola del Padre Misericordioso.
Ogni giorno mi convinco sempre di più che per noi della Famiglia dell’Amore Misericordioso questo testo del Vangelo di Luca deve essere l’ICONA biblica su cui meditare, pregare e contemplare in continuazione per poter fare nostri(1), in modo particolare, gli atteggiamenti del Padre della parabola.

L’intervento che mi accingo a fare più che una relazione, più o meno riuscita, mi piacerebbe che fosse, per ognuno di noi, un momento di riflessione che sfoci poi in preghiera e contemplazione.
Per questo motivo ho pensato di accostarmi alla pagina evangelica con il metodo della lectio divina (ovvero pregare la parola) che comprende fondamentalmente quattro successivi momenti:
- La lectio (lettura), che ci fa leggere e rileggere il testo, evidenziandone gli elementi portanti, la struttura, per comprenderne il significato.
   => È Che cosa dice la Parola in sé?
- La meditatio (meditazione), nella quale ci chiediamo che cosa questa pagina del Vangelo dice a noi, a me oggi.
   => Che cosa dice la Parola a me?
- L’oratio (preghiera), dove ci rivolgiamo direttamente a Gesù partendo dal brano e dal suo messaggio;
   => Che cosa mi fa dire la Parola (o che cosa dico io alla Parola)?
- La contemplatio (contemplazione), in cui si entra nel silenzio adorante e nella lode.
   => Guardare e lasciarsi guardare da Gesù.

Il mio intervento si limiterà ai primi due momenti della Lectio divina, cioè alla lectio e alla meditatio.

Lo spirito con cui ci vogliamo porre di fronte al testo del Vangelo è quello di entrare nei personaggi che esso ci presenta dicendo a noi stessi (nel caso dei due fratelli della parabola): “Tu sei quell’uomo!” e (nel caso del padre della parabola): “Tu devi diventare quell’uomo!”.

 

1. LECTIO: spiegazione del brano evangelico

1.1. Il contesto

La parabola è inserita nel capitolo 15 del vangelo di Luca, che è il capitolo per eccellenza della misericordia.
È importante cogliere la struttura letteraria di tutto il capitolo. Esso si apre con un’introduzione narrativa (vv.1-3), cui fanno seguito tre parabole della misericordia. Le prime due della pecora smarrita (vv.4-7) e della dramma perduta (vv.8-10), la terza del padre misericordioso (vv.11-32).

L a parabola del padre misericordioso è, senz’altro, quella delle tre che appare sostanzialmente e stilisticamente più perfetta.
La concezione interna è identica in tutte e tre le parabole. Essa è strutturata in due parti:
   a) pecorella, dramma e figlio perduti;
   b) pecorella, dramma e figlio ritrovati.
Dei due quadri, quello fondamentale non è il quadro negativo (la perdita), ma il quadro positivo (il ritrovamento).
Il motivo conduttore è la gioia: la gioia del ritrovamento, la festa con gli amici e i vicini o con i servi, la gioia in cielo. E ciò che più interessa nell’insegnamento della parabola non è la storia della pecorella, della dracma e del figlio, ma la psicologia del pastore, della donna e del padre.

Tutte e tre le parabole costituiscono la risposta ad un’unica realtà umana e storica: le critiche e le mormorazioni dei farisei e degli scribi a Gesù perché accoglie ed evangelizza i pubblicani e i peccatori (vv.1-2).
Questo è senza dubbio uno dei punti di costante tensione fra Gesù e le autorità religiose giudaiche.
La tradizione sinottica è unanime nel ricordare che Gesù sedeva a mensa e mangiava con i peccatori, accettandone l’ospitalità (Mc 2,15; Mt 9,10; Lc 5,29). Era una prassi abituale, tanto che lo accusarono di essere “un mangione e un beone, amico di pubblicani e peccatori” (Lc 7,34).
Sedere alla stessa mensa era ritenuto un segno, forse il più profondo, di comunione. È lo stesso segno che Gesù sceglierà per esprimere la sua comunione con i discepoli e quella dei discepoli fra loro. Gesù lo stende ai peccatori.
All’epoca, si pensava di onorare Dio separandosi dai peccatori. Gesù, invece, fa il contrario, mostrando in tal modo una diversa concezione di Dio.
Gesù fu accusato di essere amico (philos) di pubblicani e peccatori: dunque la sua prossimità esprimeva amicizia e affetto.
Per esprimere, poi, il senso profondo della sua missione, Gesù afferma di essere venuto “a chiamare i peccatori”.
Chiamare” è più della semplice accoglienza di chi attende che l’altro si avvicini; esprime la solidarietà attiva, l’iniziativa e la ricerca, come appunto sottolineano le tre parabole della misericordia. Inoltre, “chiamare” nell’uso evangelico non è un invito soltanto al ravvedimento, ma anche a partecipare attivamente alla missione. Dunque, Gesù non solo accoglie i peccatori, li cerca e li perdona: li invita anche a condividere la sua responsabilità nell’annuncio del Regno. L’accoglienza di Gesù è totale.

Ritornando alla nota che introduce le tre parabole della misericordia, si osservi che anche i peccatori hanno simpatia per Gesù: “Si facevano vicini”. Si instaura così un duplice movimento: Gesù cerca i peccatori e i peccatori cercano lui.
Luca precisa che si tratta di un movimento vasto (tutti) e abituale: i verbi, infatti, sono all’imperfetto, il tempo che esprime la continuità e la ripetizione.
Per descrivere la disapprovazione che Gesù incontra, Luca usa il verbo “mormorare”. Nel suo vangelo esso ricorre tre volte, e sempre a proposito di scribi e farisei che criticano il comportamento di Gesù nei confronti dei peccatori: la prima volta quando accetta l’invito del pubblicano Levi (Matteo) e banchetta con i pubblicani (5,30), la seconda nel nostro passo, e la terza quando va a casa di Zaccheo (19,7). “Mormorare” è un verbo che indica la disapprovazione scandalizzata di chi si imbatte in una prassi contraria agli usi codificati.
Tenendo sullo sfondo questo contesto, prendiamo in considerazione il testo evangelico nella consapevolezza che ci troviamo di fronte alla parabola più singolare del Vangelo. Si tratta di un racconto di rara bellezza letteraria e di ancor più rara densità teologica. È anche la parabola più articolata e ricca di tratti descrittivi; tuttavia, non c’è un solo particolare superfluo: nessun singolo elemento può essere eliminato senza pregiudicare l’intera struttura narrativa della parabola.

 

Il Titolo della parabola
Il titolo corrente che si dà a questo testo evangelico, la parabola del figlio prodigo, fa cadere l’attenzione sul comportamento del figlio più giovane: sulla sua arroganza, fuga da casa, dissipazione, frustrazione e infine sul suo pentimento e ritorno. È un’”esperienza” ammonitrice che viene, senz’altro, proposta agli uditori o lettori evangelici, ma l’intento principale della parabola è segnalare il comportamento del tutto insolito del padre, messo meglio in rilievo dalla condotta spregiudicata dei due figli, dalla scellerataggine dell’uno come dalla grettezza e dall’egoismo dell’altro.
Il centro della parabola è “il Padre” (nominato 14 volte): lui davanti ai suoi figli e i due figli davanti a lui.
Il padre è la figura che dà unità all’intera narrazione. Le due vicende – quella del figlio minore e quella del figlio maggiore – si scontrano con l’originalità della sua paternità.
Pertanto la parabola invece di essere definita “Il ritorno del figlio prodigo” potrebbe meglio definirsi L’accoglienza del padre misericordioso”.

 

1.2. Le tre parti o fasi del brano evangelico

Il brano è facilmente divisibile in tre fasi: la degradazione (vv. 11-16), la reintegrazione (vv. 17-24), la contestazione (vv. 25-32).

 

Prima parte o fase: la degradazione (vv. 11-16)

v. 11

   - “Un uomo”: dal contesto si ricava che è un ricco (ha campi e braccianti). Su di lui, ai fini della parabola, non importa sapere di più.
   - “Aveva due figli”: l’espressione mira unicamente a presentare i due figli che compariranno nella narrazione in posizioni tra loro contrastanti. Non implica necessariamente che ne avesse due soli.

 

v. 12

   - “Il più giovane”: è il peccatore, che è stato personificato nel minore dei due perché è nelle intenzioni della parabola di scusarlo tenuto conto della sua mancanza di esperienza.

   - “Dammi la parte dei beni (o del patrimonio) che mi spetta”: tale forma verbale, sulle labbra del figlio, rivela un atteggiamento pretenzioso. Questo rimane anche nell’ipotesi che egli avesse diritto, per una qualsiasi ragione, alla sua parte(2).
Un giudizio sul comportamento del padre nei suoi confronti, se fece bene o male a soddisfare la sua richiesta, esula dal contesto.

   - “E il Padre divise tra loro le sostanze” che letteralmente va tradotto: egli poi divise tra loro la vita (i beni).

 

v. 13

Incontriamo in questo versetto due tratti molto interessanti. “Partì per una regione (paese) lontana”: va fuori casa, lontano dal volto del Padre e dal proprio; rigettando così ogni intimità. Una tale espressione, alle orecchie di un ebreo, avrebbe potuto suonare “una regione pagana”. La presenza in essa di “porci” (animali vietati agli ebrei), ci conforta a formulare quest’ipotesi.
   - “Sperperò le sue sostanze”: il figlio allontanandosi dal padre è come un albero che taglia le sue radici oscurando così ogni dignità.
   - “Vivendo prodigalmente (da dissoluto): questa frase ha fruttato al personaggio in questione l’appellativo di “figlio prodigo” nel senso di colui che ha sperperato tutti i suoi beni nei vizi. In effetti, come apprendiamo dal suo fratello maggiore, egli “ha divorato il … patrimonio con le prostitute” (v. 30).

 

vv. 14-16

Questi versetti preparano nel loro complesso la riflessione che porta il figlio perduto alla conversione, la quale evidenzia che, alle volte, certe “disgrazie” sono provvidenziali.
   - “Cominciò a trovarsi nel bisogno”: ha perso tutto (intimità, dignità, amabilità, autonomia…), non ha proprio niente da dare, né meriti da vantare.
   - “Si mise a servizio”: chi si sottrae all’autorità amorevole del Padre cede la propria libertà ad un padrone straniero; chi rigetta l’Assoluto sposa gli idoli. Il figlio ha così smarrito ogni autonomia.
   - “Lo mandò a pascolare i porci”: questa circostanza, se si considera quanto gli ebrei aborrivano tali animali legalmente impuri, suggerisce l’intenzione nella parabola di presentare il peccatore nel suo stato di massima degradazione.
   - “Per la fame avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava”: è un tratto in sé e per sé inverosimile, che ha qui la funzione di sottolineare tutto l’avvilimento che accompagna il peccato; anzi la schiavitù con cui è legato ad esso colui che lo commette.

 

Seconda parte o fase: la reintegrazione (vv. 17-24) o conversione.

vv. 17-24

Il processo di conversione del figlio perduto consiste:

  1. nel rientrare si sé (“Allora rientrò in se stesso”): la scoperta dell’interiorità e nel riflettere sulle proprie disgrazie: “Io qui muoio di fame” (v.17). Noi viviamo perché riceviamo la vita da Dio, se interrompiamo il rapporto con Lui troviamo morte e autodistruzione. Tutti gli umanesimi che si pongono in antagonismo con Dio, portano alla distruzione della persona umana. L’inferno è una realtà: è la recisione che io compio dalla fonte della vita, come un ruscello che vuole fare a meno della sua sorgente.

  2. nel ricordarsi di suo padre (la custodia della memoria): “Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza…”, confrontando il modo in cui il padre tratta i lavoratori giornalieri e il modo in cui ora è trattato lui.

  3. nel decidere di tornare da suo padre: “Mi leverò e andrò da mio Padre”(v.18). La volontà di ritorno si esprime in una decisione, nella determinazione di ritornare all’intimità dal Padre.

  4. nel confessare umilmente e sinceramente il suo peccato: “Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te” (v. 21). C’è una dimensione cosmica nel peccato, non è un fatto privato, riguarda anche gli altri. Come esiste una solidarietà nel bene, esiste una solidarietà nel male. Rigettare l’amore incondizionato del Padre, è guastare il capolavoro della creazione.

  5. nell’essere disposto ad accettare ciò che gli si offrirà, a vivere come un lavoratore giornaliero, perché non merita più di essere trattato come un figlio: “non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni”.

Scorrendo tale ritratto del peccatore pentito, viene da pensare a quanto esso contrasta con quello dei farisei e degli scribi, orgogliosi, ipocriti e sempre pronti ad accusare i pubblicani e i “peccatori”.

In che cosa consiste il peccato del figlio prodigo?
Per alcuni nel fatto che ha dilapidato i beni di suo padre (Schlatter); per altri nella sua vita immorale (Bornhäuser); per altri nel fatto che egli vuole essere indipendente da suo padre, come Adamo nei confronti di Dio (Lyonnet).

 

vv. 20-24

Ciò che in questi versetti interessa è la condotta del padre, la quale vi è descritta con mano maestra. Tutto manifesta in essa il suo grande cuore, l’amore immenso verso il figlio:

  1. lo vede quando ancora è lontano, segno che in tutti questi giorni non aveva fatto che pensare a lui, uscire ad attenderlo, tendere gli occhi all’orizzonte; l’iniziativa è del Padre, del tutto gratuita;

  2. si commuove (“commosso”). Ma questo termine fa perdere al testo il suo “spessore”. Bisognerebbe dire che il padre fu “sconvolto fin nelle sue viscere”. Infatti il verbo greco usato dall’evangelista deriva da una radice che significa “le viscere” di una madre(3). Il padre è sconvolto, in qualche maniera, fin nelle sue “viscere materne”.
    Abbiamo qui un completamento di quanto già era stato detto dal profeta Osea: “come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Os 11,8; cfr. Is 49,14-16; Ger 31,20).
    Il padre non ha mai abbandonato il figlio. Al contrario, ha continuato a portarselo nel cuore, nelle profondità del suo essere, nelle sue “viscere materne”. E come una madre, sente crescere e muoversi il figlio nel proprio grembo. Nulla succedeva nella vita del figlio che non avesse una ripercussione nell’intimo del padre.

  3. corre ad abbracciarlo, prima ancora che egli gli riveli il suo pentimento;
    “Gli si gettò al collo e lo baciò” (v.20).
    Anche il bacio del Padre è carico di senso: è contatto della bocca, organo del respiro (in ebraico c’è un’unica parola – nefesh – per designare la bocca, la gola, il respiro, la vita…). Il bacio indica comunicazione del respiro, partecipazione di vita; richiama l’effusione dello Spirito Santo (= la vita di Dio) (Rm 8,14-17).

  4. quando il figlio inizia il suo discorso per rivelarglielo, non lo lascia finire;

  5. si volge subito ai servi, ordinando che lo vestano come si conviene alla sua progenie: “Presto, portate qui il vestito più bello… Mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi!”. Il padre ridà al figlio la sua dignità di essere umano (il vestito), la sua dignità di figlio (l’anello), la sua dignità di persona libera (i calzari, perché gli schiavi andavano scalzi). Il prodigo s’era detto di non meritare di essere figlio di un tale padre e tornava disposto a rientrare nella sua casa come un lavoratore giornaliero, ma il padre…

  6. comanda che si celebri un banchetto di festa, senza attendere che torni a casa l’altro figlio;

  7. la ragione che dà del proprio comportamento è tipica di un grande padre: perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.

Si noti come la psicologia del padre e la sua condotta seguano le norme del cuore e non le norme dell’intelletto e della giustizia: non rimprovera il figlio, non vuole udire la sua confessione, non vede in lui che suo figlio un giorno scomparso e dato per morto e ora ritrovato vivo.

  1. E cominciarono a far festa: sono parole che indicano chiaramente come la gioia si è impossessata del padre e non ammette indugi a manifestarsi all’esterno.

 

Terza parte o fase: la contestazione (vv. 25-32).

La scena del figlio maggiore rientra pienamente nello spirito della parabola e s’inquadra perfettamente nell’ambiente storico di Gesù.
L’inverosimiglianza – nel suo complesso e in qualche suo tratto singolo – della scena comprova che essa è stata inserita intenzionalmente dall’autore della parabola allo scopo di mettere in risalto la psicologia del padre nei confronti di quella del figlio maggiore.
Il figlio maggiore parla il linguaggio della ragione naturale, il padre parla e opera con il cuore.
Nella realtà delle cose umane è inverosimile che il padre dia inizio al banchetto di festa prima del ritorno dal campo del figlio maggiore. È credibile invece che questi si trovasse in quel momento nel campo come pure la domanda che egli fa di ritorno da esso al servo, il suo sdegno alla risposta di questi e la sua decisione di non entrare. Ma non è la credibilità di questi tratti che qui conta, bensì la loro funzione: essi sono stati scelti, infatti, unicamente per presentare, ancora una volta, il comportamento del padre.

La lamentela del figlio maggiore: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici (v. 29) serve a fare risaltare l’eccezionalità del banchetto di festa celebrato per il ritorno del figlio prodigo.
Il padre risponde con una giustificazione del proprio operato, che appare decisiva: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo (v. 31). Trova una spiegazione così il fatto che egli non gli avesse dato mai niente: il figlio maggiore disponeva già di tutti i suoi beni. Sarebbe fraintendere gravemente lo spirito della parabola affermare che il padre ama il figlio minore più del figlio maggiore: egli ama entrambi di un amore uguale. L’amore per il maggiore si manifesta nel mettere tutti i suoi beni in comune con lui, l’amore per il minore nel gioire per il suo ritorno.

Chi è il figlio maggiore?
   - Non “peccatore”, ma “giusto”; non “perduto”, ma nemmeno “ritrovato”; vive in casa, ma non nell’intimità, infatti non dice mai “Padre”.
   - È “nei campi” (v. 25): sta lavorando sodo per guadagnarsi il diritto all’amore del Padre, pensa che per averlo bisogna fare gli schiavi. È il male di tanti, se non di tutti, è la bestemmia più grande: ridurre il Padre a padrone.
   - “Non ho mai trasgredito un tuo comando” (v. 29): vuole autosalvarsi con una scrupolosa osservanza, pensa che l’amore di Dio sia da comprare con la moneta dei propri meriti, dimenticando che è gratuito, è dono accolto da chi si riconosce incapace di salvarsi da solo.
Il figlio maggiore non è scappato da casa, ma la sua lontananza dal Padre è abissale, infatti:
   - La gioia dell’intimità col Padre (la musica e le danze) è per lui una realtà sconosciuta e sospetta, tanto che s’informa di che cosa si tratti.
   - “Si arrabbiò” e “non voleva entrare” (v. 28): la gratuità dell’amore del Padre per il figlio minore fa crollare il suo “castello” di autoperfezione; rimane più ostinato.
La conversione del “giusto” è difficilissima perché la sua lontananza dalla gratuità è enorme.
   - Ha un idolo costruito da mani d’uomo: se stesso.
   - Non pronuncia la parola “fratello”: chi non conosce la paternità/maternità di Dio difficilmente vede negli altri dei fratelli e delle sorelle.

Il Cardinale Carlo Maria Martini scrive: il “figlio maggiore, quello restato a casa che, dopo tanti anni di convivenza col padre, è incapace di comprenderne la logica di amore e di perdono. Prigioniero della sua solitudine e schiavo dei suoi interessi (“non mi hai dato mai un capretto!” (v. 29), il figlio maggiore non è meno lontano dal padre del figlio andato via di casa: la vicinanza fisica non è vicinanza del cuore. Si può abitare nella casa del padre e ignorarlo coi fatti. Si può ritornare a parlare di Dio, ma non incontrarLo e non farne alcuna esperienza profonda e vivificante”(4)

L’amore del Padre si riversa anche su di lui:
   - “Uscì per consolarlo (uscì a pregarlo)” (v. 28): lo invita a convertirsi alla gioia di Dio; di quanta ne ha bisogno il “giusto”!
   - “Il tuo fratello”: lo educa alla fraternità.
   - “Figlio”: lo riporta alla sua verità più profonda; tutto gli è donato, non deve conquistarlo.

Chi rappresenta il personaggio del figlio maggiore? I farisei e gli scribi o semplicemente i giusti in generale?
Il contesto immediato (v. 2) farebbe pensare che rappresenti i farisei e gli scribi. Il fatto che egli si rifiuti di riconoscere il prodigo come suo fratello e lo accusi di licenziosità (v. 30), quadra molto bene con lo spirito di costoro. La frase enfatica del padre: questo tuo fratello (v. 32) suona in favore di questa ipotesi.
Ciò nonostante, propendiamo a credere che nella mente di Luca il personaggio del figlio maggiore possieda una sua forza di proiezione universale e simbolizzi tutti gli uomini, abituati a scorgere la pagliuzza nell’occhio del fratello e a non vedere la trave nel proprio; sono tutti i benpensanti, gli uomini “religiosi”, quelli che si reputano “giusti”, sulla “retta via”, nella “verità”. Come il figlio adulto, essi non hanno nulla da rimproverarsi: “Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando!” Siamo perfettamente in linea con la pura giustizia, con il do ut des.

 

2. MEDITATIO sulla figura del Padre

Il padre del figlio prodigo è una figura veramente straordinaria. Raramente, se mai ciò sia avvenuto, l’immenso amore misericordioso di un padre è stato espresso in maniera così intensa.

Egli lascia andare il figlio per la sua strada, senza fargli osservazioni, tanto meno rimproveri. Dalla sua bocca non escono mai parole di biasimo. È forse questa sua bontà che aprirà alla fine l’animo del figlio alla fiducia, al pentimento, fino al desiderio del ritorno.

Davanti ad un genitore intransigente, irascibile, non gli sarebbe stato facile far immediato ritorno a lui, dopo la triste, deludente esperienza.

La richiesta del figlio minore è messa in tono risoluto, categorico, come di chi rivendica un diritto e non attende piuttosto un favore, una grazia da parte del padre (v. 12). La spartizione dei beni patrimoniali decorreva alla morte del genitore, ma egli la esige (“dammi”) immediatamente. Il padre poteva rifiutargliela, fargliela attendere, o accordargliela parzialmente, in più riprese, invece accondiscende subito. Mette da parte i suoi diritti, la sua dignità e fa prevalere il bene del figlio.

Il suo comportamento rischia di essere tacciato di debolezza, è invece frutto di un grande amore. Un amore che è esistito prima ancora che fosse possibile qualsiasi rifiuto e starà ancora lì dopo che tutti i rifiuti si saranno consumati.

Il padre della parabola non è il patriarca che se ne sta a casa, non si muove e aspetta che i suoi figli vadano a lui, si scusino per il loro comportamento, chiedano perdono e promettano di essere migliori. Al contrario, lascia la casa, corre verso di loro incurante della propria dignità, non bada a scuse e a promesse di cambiamento, e li porta alla tavola riccamente imbandita per loro.

 

2.1. Due atteggiamenti fondamentali del Padre

a) Il padre accogliente

Il padre non corre fuori solo per abbracciare il giovane figlio ribelle, ma esce anche per accogliere il figlio maggiore obbediente, che ritorna dai campi chiedendosi il perché della musica e delle danze, e per pregarlo di entrare.
Il padre mentre è colmo di gioia per il ritorno del figlio più giovane, non ha dimenticato il maggiore. Non dà per scontato la sua presenza. La sua gioia è così grande che non può aspettare per dar inizio ai festeggiamenti, ma appena si rende conto dell’arrivo del figlio maggiore, lascia la festa, esce, gli va incontro e lo supplica di unirsi a loro(5).
Henri Nouwen in una pagina del suo interessantissimo libro “Labbraccio benedicente” così si esprime: “Non riesco a spiegarmi che tutti i figli di Dio possono essere prediletti. E tuttavia lo sono. Quando guardo al regno di Dio dal mio posto nel mondo, subito mi viene da pensare a Dio come a qualcuno che segna i punti su un qualche grande tabellone celeste: personalmente avrò sempre paura di non fare punti. Ma non appena guardo dalla casa accogliente di Dio verso il mondo, scopro che Dio ama con un amore divino, un amore che riconosce a tutte le donne e a tutti gli uomini la loro unicità senza mai fare paragoni.
Il fratello maggiore si confronta con il fratello più giovane e diventa geloso. Ma il padre li ama entrambi così tanto che non ha sentito il bisogno di rinviare la festa perché il figlio maggiore non si sentisse rifiutato. Sono convinto che molti dei miei problemi psicologici si scioglierebbero come neve al sole se lasciassi che la verità dell’amore materno di Dio, che non fa confronti, permeasse il mio cuore”(6).

Non c’è dunque alcun motivo per dubitare dell’amore del padre. Il suo cuore va incontro ai due figli; li ama entrambi; spera di vederli insieme come fratelli intorno alla stessa tavola; vuole che sentano che, per quanto diversi, appartengono alla stessa casa e sono figli dello stesso padre.

 

b) Il padre esige che si faccia festa

In tutte e tre le parabole che Gesù racconta per spiegare perché egli mangi con i peccatori, Dio gioisce e invita gli altri a gioire con lui. “Rallegratevi con me”, dice il pastore, “perché ho trovato la mia pecora che era perduta” (v. 6). “Rallegratevi con me” dice la donna, “perché ho ritrovato la dramma che avevo perduto” (v. 9). “Facciamo festa”, dice il padre, “perché questo mio figlio era perduto ed è stato ritrovato” (v. 24).
Dio si rallegra. Non perché i problemi del mondo sono stati risolti, non perché tutto il dolore e la sofferenza umana sono giunti alla fine, e nemmeno perché migliaia di persone si sono convertite e ora lo stanno lodando per la sua bontà. No, Dio si rallegra perché uno dei suoi figli che era perduto è stato ritrovato.
Ciò a cui sono chiamato è partecipare a quella gioia. È la gioia di Dio, non la gioia che offre il mondo. È la gioia di vedere un figlio che cammina verso casa in mezzo a tutte le distrazioni, le devastazioni e l’angoscia del mondo(7).
La gioia di Dio può essere nostra anche in mezzo a mille difficoltà. È la gioia di appartenere alla famiglia di Dio, il cui amore è più forte della morte e che ci permette di essere nel mondo quando già apparteniamo al regno della gioia.

 

2.2. Diventare il Padre

La parabola evangelica ci chiama a diventare il Padre che accoglie a casa e chiede che si faccia festa.
La mia vocazione ultima – scrive il Nouwen – consiste, in realtà, nel diventare simile a lui e vivere la sua divina compassione nella mia vita quotidiana. Sebbene io sia entrambi, tanto il figlio minore che quello maggiore, non devo rimanere come loro, ma diventare il Padre. Nessun padre o madre sono mai diventati padre o madre senza essere stati figlio o figlia, ma ogni figlio e figlia deve scegliere consapevolmente di compiere un passo più in là della propria infanzia e diventare padre e madre per altri. È un passo difficile e solitario, – specialmente in un’epoca della storia in cui la condizione di genitore è così difficile da vivere -, ma è un passo essenziale per il completamento del percorso spirituale”(8).
Perché prestare tanta attenzione ai figli quando è il padre ad essere al centro (della parabola) e quando è con il padre che mi devo identificare? Perché parlare tanto di essere come i figli quando la vera domanda è: Ti interessa essere come il padre?
Voglio essere non solo colui che è perdonato, ma anche colui che perdona; non solo colui che è accolto festosamente a casa, ma anche colui che accoglie; non solo colui che ottiene compassione, ma anche colui che la offre?(9).
Scrive ancora Henri Nouwen:
Forse l’affermazione più radicale che Gesù abbia mai fatto è questa: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36). La misericordia di Dio viene descritta da Gesù non solo per mostrarmi quanto Dio sia pronto ad avere compassione di me o a perdonare i miei peccati e offrirmi una vita nuova e la felicità, ma per invitarmi a diventare come lui e a mostrare la stessa compassione agli altri come lui la mostra a me.
Se l’unico significato del racconto fosse che la gente pecca ma Dio perdona, potrei benissimo cominciare a pensare ai miei peccati come a una bella occasione per Dio di mostrarmi il suo perdono. Non ci sarebbe alcuna provocazione in una interpretazione del genere. Mi abbandonerei alle mie debolezze e continuerei a sperare che Dio magari chiuderà gli occhi di fronte ad esse, e mi lascerà sempre tornare a casa, qualunque cosa abbia fatto. Questo tipo di romanticismo sentimentale non è il messaggio dei Vangeli.
Ciò che sono chiamato a realizzare è che, sia come figlio più giovane che come figlio maggiore, sono il figlio del Padre mio misericordioso. Sono un erede.
Nessuno lo dice in modo più chiaro di Paolo quando scrive: “Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria” (Rm 8,16-17).
Per la verità, come figlio ed erede devo diventare successore. Sono destinato ad occupare il posto di mio Padre e offrire agli altri la stessa compassione che lui ha offerto a me. Il ritorno al Padre è in definitiva la sfida a diventare il Padre
”(10).
Diventare il Padre misericordioso è lo scopo ultimo della vita spirituale, com’è espresso dalla parabola.
La paternità spirituale non ha niente a che fare con il potere o l’autorità. È una paternità di misericordia.

 

2.3. Le vie che portano ad una vera paternità di misericordia

a) Il dolore

“Può sembrare strano considerare il dolore come una via alla misericordia. Ma lo è. Il dolore mi chiede di consentire che i peccati del mondo – i miei compresi – strazino il mio cuore e mi facciano versare lacrime, molte lacrime, per essi. Non c’è compassione senza lacrime. Se non possono essere lacrime che scorrono dagli occhi, devono essere almeno lacrime che sgorgano dal cuore” (11).
Questo dolore è così profondo non tanto perché il peccato è grande, ma anche – e soprattutto – perché l’amore divino è sconfinato. Per diventare come il Padre la cui unica autorità è la misericordia, devo versare lacrime infinite e preparare così il mio cuore a ricevere chiunque, qualunque itinerario abbia percorso, e perdonarlo con quel cuore.

 

b) Il perdono

La seconda via che conduce alla paternità spirituale è il perdono.
“È attraverso il perdono costante che diventiamo come il Padre. Il perdono che viene dal cuore è molto difficile. È quasi impossibile. Gesù ha detto ai suoi discepoli: “Se un tuo fratello… pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai” (Lc 17,4)… Il perdono di Dio non pone condizioni; proviene da un cuore che non chiede niente per sé, un cuore completamente libero dall’egoismo. È questo perdono divino che devo praticare nella mia vita quotidiana. Mi chiede di superare tutte le mie argomentazioni che sostengono che il perdono è stupido, dannoso e impraticabile. Mi sfida a superare tutti i miei bisogni di gratitudine e di complimenti. Infine, mi chiede di superare quella parte ferita del mio cuore, che si sente offesa e maltrattata e che vuole “mantenere il controllo” e porre un po’ di condizioni tra me e colui che mi si chiede di perdonare… Solo quando ricordo di essere il figlio prediletto, posso accogliere quelli che vogliono tornare con la stessa misericordia con cui il Padre accoglie me”(12).

c) La generosità

La terza via per diventare come il Padre è la generosità.
“Nella parabola, il padre, al figlio che se ne va, non solo dà tutto ciò che questi chiede, ma lo colma anche di regali al suo ritorno. E al figlio maggiore dice: “Tutto ciò che è mio è tuo”. Il padre niente tiene per sé. Offre tutto se stesso ai figli.
Egli non offre soltanto di più di quanto ci si possa ragionevolmente aspettare da chi è stato offeso; no, si dà completamente, senza riserve. Entrambi i figli per lui sono “tutto”. In essi vuole riversare la sua stessa vita. Il modo in cui al figlio più giovane viene dato il vestito, l’anello e i calzari, il modo in cui è accolto a casa con una festa sontuosa, come pure il modo in cui al figlio maggiore viene chiesto con insistenza di accettare il posto unico che ha nel cuore di suo padre e di unirsi al fratello più giovane intorno alla mensa, fa capire molto chiaramente che vengono oltrepassati tutti i limiti di chi avesse voluto comportarsi come un patriarca. Non è l’immagine di un padre straordinario. È il ritratto di Dio, la cui bontà, il cui amore e perdono, la cui sollecitudine, gioia e misericordia sono senza confini”(13)
Per diventare come il Padre, devo essere generoso com’è generoso il Padre. Proprio come il Padre dà tutto se stesso ai propri figli, così devo dare me stesso ai miei fratelli e sorelle. Gesù fa capire molto chiaramente che proprio questo darsi è il segno del vero discepolo. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).
Il dolore, il perdono e la generosità sono quindi le tre vie attraverso cui l’immagine del padre può crescere in me. Sono tre aspetti della chiamata del Padre ad essere in casa. In quanto Padre, non sono più chiamato a tornare a casa come il figlio minore o quello maggiore, ma ad essere lì come colui dal quale i figli ribelli possono tornare ad essere accolti con gioia.
È molto difficile essere in casa e aspettare. È un’attesa nel dolore per coloro che sono partiti, e un’attesa con la speranza di offrire perdono e vita nuova a coloro che torneranno.
Entrambi i figli in me possono allora essere trasformati gradualmente nel Padre misericordioso.


Riferimenti bibliografici

- AAVV., Il mistero del Padre, Edizioni “L’Amore Misericordioso”, Collevalenza 1983

- AAVV, Una comunità legge il Vangelo di Luca, EDB, Bologna 1991, Vol. II, pp. 197-222

- BASILIO DI IVIRON, La parabola del figlio prodigo, Interlogos, Schio (VI) 1993.

- CIVELLI J., Infinita è la sua tenerezza, Edizioni Paoline, Milano 1998

- GHIDELLI C., Luca, Edizioni Paoline, Milano 1992.

- LEAL J. Nuovo Testamento: Vangelo secondo Luca, Città Nuova Editrice, Roma 1972.

- MAGGIONI B., Le parabole evangeliche, Vita e Pensiero, Milano 1992.

- MARTINI C. M., Ritorno al Padre di tutti, Centro Ambrosiano, Milano 1998.

- NOUWEN H. J. M., L’abbraccio benedicente, Editrice Queriniana, Brescia 1995.

- ORTENSIO da SPINETOLI, Luca: il Vangelo dei poveri, Cittadella Editrice, Assisi 1982.

 


1 Per assimilare i contenuti occorrono tre passaggi: 1° Comprensione: afferrare, portare dentro; 2° Interiorizzazione: i contenuti lentamente vengono associati alle comunicazioni che ho dentro; 3° Introiezione: un sistema di assimilazione delle informazioni.

2 Gli ascoltatori della parabola sapevano bene che un figlio poteva chiedere, anche prima della morte del padre, la sua parte di eredità: al figlio minore spettava un terzo dei beni, al figlio maggiore il doppio. Molti giovani lasciavano la Palestina ed emigravano. Al tempo di Gesù gran parte degli ebrei viveva nella diaspora. Molti ascoltatori sicuramente avevano sperimentato il dramma di quel padre che vedeva il figlio partire. Ma nella parabola si racconta qualcosa di ancora più doloroso: il figlio giovane parte non perché ha bisogno di lavoro, ma perché desidera una vita indipendente: stare in casa gli pesa come una schiavitù.

3 Questo verbo è spesso usato nel Nuovo Testamento, anche nei riguardi di Gesù: Mt 9,36; 14,14; 15,32; 20,34; Mc 1,41; 6,34; 8,2; Lc 7,13. Viene usato per esprimere i sentimenti del “buon samaritano” (lc 7,13) e del re davanti al debitore che non riesce a saldare il proprio debito. In definitiva, è Dio stesso che si sente commuovere nel nucleo più intimo del suo essere di fronte alle miserie degli uomini.

4 MARTINI C. M., Ritorno al Padre di tutti, Centro Ambrosiano, Milano 1998, p.23.

5 NOUWEN H., L’abbraccio benedicente, Queriniana, Brescia 1995, p. 156.

6 Ibidem, pp. 149-150.

7 Ibidem, pp. 167-168.

8 Ibidem, p. 179.

9 Ibidem, p. 180.

10 Ibidem, pp. 181-182.

11 Ibidem, p. 191

12 Ibidem, pp. 192-193.

13 Ibidem, pp. 194-195.

Articolo precedente

Articolo successivo

[Home page | Sommario Rivista]


realizzazione webmaster@collevalenza.it
ultimo aggionamento 01 maggio, 2004