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l. La tenerezza della misericordia
1.1. Una logora ricca parola
Come tante parole antiche di giorni, misericordia è termine assai usato e a volte abusato, al punto da rischiare di essere archiviato nella cartella dei caduti... di senso. Ma “quanto più la coscienza umana, soccombendo alla secolarizzazione, perde il senso del significato stesso della parola “misericordia”, quanto più, allontanandosi da Dio, si distanzia dal mistero della misericordia, tanto più la Chiesa ha il diritto e il dovere di far appello al Dio della misericordia “con forti grida””; è necessario pertanto che “la Chiesa pronunci questa parola, non soltanto in nome proprio, ma anche in nome di tutti gli uomini contemporanei” (Dives in misericordia, n.15).
Il termine misericordia, in ebraico rahamim, deriva da rehem che significa “grembo materno” e indicherebbe il legame di amore e di tenerezza che c’è fra Dio e l’umanità da lui generata. È la passione d’amore, che spinge Dio a chinarsi con affetto e tenerezza materna sulle sue creature: “Si dimentica forse una donna del suo bambino così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,15).
In greco éleos, nell’accezione originaria, indicherebbe la commozione alla vista di un dolore innocente o per la situazione di bisogno del prossimo: “Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione... Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?... Chi ha avuto compassione di lui... Va’ e anche tu fa’ lo stesso” (Lc 10,33-37).
1.2. Il Volto della misericordia
La misericordia è Dio nella sua stessa intimità. È il Dio cordiale! La misericordia è la sensibilità di Dio che ci raggiunge nella parte più profonda di noi stessi, attraverso il cuore di Dio che diventa cuore di uomo in Cristo, il quale “doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (Eb 2,17-18). La misericordia di Cristo è radicata nella sua propria esperienza di sofferenza e di prova e si mostra nell’aiuto effettivo agli uomini che vengono provati: “Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno” (Eb 4,16).
Gesù è il volto della misericordia del Padre, e questa sua carta di identità trova resistenza e opposizione da parte dei farisei, i quali si scandalizzano per il fatto che egli mangia con i pubblicani e i peccatori. Gesù li rimanda al testo di Osea 6,6 affermando: “Andate dunque e imparate che cosa significhi: misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mt 9,13). Poi, nel suo rimprovero finale, Gesù dice loro: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti che ... trasgredite la giustizia, la misericordia e la fedeltà...” (Mt 23,23).
Sia i pubblicani che i peccatori sono in una situazione di debolezza e di infermità. Gesù chiede che non si respinga e condanni questa gente, ma che si vada incontro ad essa e la si aiuti. E di questo egli stesso è il miglior testimone. Si pensi al suo andare incontro ai lebbrosi, ai ciechi, agli storpi, alla vedova che piange il suo figlio morto, a Zaccheo, alle peccatrici... Si pensi alla parabola del “figliol prodigo”, della pecorella smarrita...
Misericordia è la “simpatia di Dio in mezzo alle nostre sopraffazioni, compassione dentro alle nostre passioni, pietà dentro le nostre pietose carognate” (P. Talec).
1.3. Avere cuore per tutti
Elementi essenziali della misericordia sono la necessità dell’altro e del farsi a lui prossimo, la compassione e l’aiuto efficace. Misericordia indica il giusto comportamento dell’uomo nei confronti dell’altro che versa in una situazione di necessità e sofferenza e chiede un aiuto che si è in grado di offrire. Per Gc 3,17 la misericordia appare come elemento essenziale della vera sapienza e si mostra nelle opere buone: “La sapienza che viene dall’alto è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia”.
In Mt 18,33 troviamo un forte collegamento fra la misericordia divina e la misericordia umana. Dopo aver risposto a Pietro che è necessario perdonare settanta volte sette, Gesù fonda e conferma questo insegnamento raccontando la parabola del servitore spietato: “Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. La misericordia del padrone consiste nel fatto che egli, in risposta alla preghiera del servitore, si impietosisce di lui, gli condona il debito e lo lascia andare in libertà. Gesù fa presente che, nella relazione uomo-creditore e uomo-debitore, entra sempre la relazione Dio-creditore e uomo-debitore. La relazione fra gli uomini determina la loro relazione con Dio. II perdono ricevuto da Dio diventa definitivo solo dopo che abbiamo concesso il perdono ai nostri fratelli debitori. Infatti, una dimensione essenziale della misericordia è il perdono dei torti subiti: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12).
La misericordia è il riflesso di Dio nel credente: l’essere misericordiosi ci fa come Dio! La misericordia è la passione di Dio per l’uomo, e la stessa passione d’amore viene richiesta da Dio all’uomo nei confronti dell’altro, chiunque egli sia.
2. La fermezza della fedeltà
Fedeltà in ebraico si dice ‘emunah (dalla radice ‘aman = amen) e in greco pistis (fede). `Aman vuol dire “appoggiarsi su”, “essere stabili”, “essere fermi”, e quindi fedeltà è stabilità, fermezza, coraggio di appoggiarsi su Dio. In greco come in italiano fedeltà viene da fede. La fedeltà è lealtà, la qualità di chi mantiene i propri impegni e la parola data ad un altro, è anche esattezza nella esecuzione di un’opera. Ciò che produce fedeltà è la stabilità e la fermezza (amen) nelle convinzioni e nei sentimenti. Il greco usa il passivo del verbo peito, che significa “lasciarsi convincere” e quindi obbedire, avere fiducia. In greco perciò fedeltà non indica tanto la causa di un atteggiamento quanto le conseguenze della fermezza.
2.1. La sfida della fedeltà
Nella Bibbia fedeltà è innanzitutto un attributo divino: il grande fedele è Dio, che è leale a se stesso, alla parola data, al patto e all’alleanza stabiliti con il proprio popolo; la sua parola e la sua legge partecipano della stessa qualità di immutabilità e quindi meritano la fiducia dell’uomo credente, che sa benissimo che esse non potranno ingannarlo (Sal 19,8; 93,5; Is 55,3).
Fedeltà è anche qualità degli uomini nel senso di lealtà ai propri impegni e obblighi religiosi derivati dal Patto e dalla Legge di Dio e, in modo più personale, dalla propria missione in seno alla comunità (Cfr. Mosè il fedele). La fedeltà è difficile: “Un uomo fedele chi lo troverà?” (Prov 20,6).
Nel NT la fedeltà di Dio si rivela in Cristo: Egli è il sì e l’amen di Dio all’umanità; in Lui trovano compimento le Scritture e la bontà di Dio.
La fedeltà, oggi soprattutto, rappresenta una sfida, un’esperienza difficile da vivere. La fedeltà è difficile. Accade, infatti, che quando si presentano delle difficoltà, alcune persone impegnate rimettano in discussione l’opzione iniziale. Arriva il “dubbio” e la tentazione di lasciar perdere tutto... o di vivere nella totale apatia come se si aspettasse la morte non trovando più la forza di essere quello che un giorno ci si è impegnati ad essere.
2.2. Una opzione di continuità
La fedeltà si può definire una opzione di continuità. “Continuità” in primo luogo. La fedeltà si comprende infatti soltanto in funzione di una opzione iniziale: fedeltà ad una promessa, una risoluzione, un progetto, un impegno, una parola data.
La fedeltà appare dunque, da una parte come la costanza, la permanenza in una opzione già presa. La fedeltà implica la durata, ma non può essere ridotta soltanto ad essa.
Anche gli alberi o gli oggetti possono durare, ma non si tratta di fedeltà. Per essere umana, la durata che la fedeltà comporta deve portare l’impronta della coscienza e della libertà. La fedeltà, per essere umana, non può ridursi a una realtà statica e ripetitiva, fatta semplicemente di durata materiale e consistente unicamente nel “resistere”, qualunque cosa accada. Ma, al contrario, essa consiste nel rifare propria e rinnovare continuamente un’opzione già presa, nel cercare le vie della continuità nelle situazioni nuove e sempre mutevoli del presente. La fedeltà implica sempre un’opzione personale che parta dal cuore, dalla coscienza e dalla intelligenza. La fedeltà esteriore è un inganno, innanzitutto per se stessi.
Fedeltà, opzione di continuità: queste due componenti si ritrovano nella presentazione biblica del Dio fedele: “Il Dio fedele, che mantiene la sua alleanza e benevolenza per mille generazioni con coloro che l’amano e osservano i suoi comandamenti” (Dt 7,9). Dio mantiene la sua alleanza: è la continuità riguardo all’opzione già presa. Mantiene la sua alleanza per mille generazioni: è l’elemento di durata e di permanenza inerente all’opzione di fedeltà.
Nella misura in cui è autentica, la fedeltà implica dunque consapevolezza e libertà; nella misura in cui implica consapevolezza e libertà, senza dubbio la fedeltà rappresenta una sfida.
La fedeltà è chiamata ad essere creatrice, è un impegno controcorrente. È una dimensione che vede il credente come quercia ben salda e radicata nel terreno della fede, e non canna sbattuta dal vento. Pensiamo alla fedeltà di Abramo nell’esperienza di una promessa che non si realizzava e nella terribile prova del sacrificio di Isacco. Pensiamo alla fedeltà di Maria, soprattutto nel dramma del Calvario, dove stava radicata ai piedi della Croce nel lento spegnersi del Figlio. Pensiamo alla fedeltà di Gesù, dall’esperienza delle tentazioni nel deserto al coraggioso andare incontro ai tradimenti, ai rinnegamenti, alla passione e alla crocifissione.
3. Gesù e l’accesso al sacerdozio
Focalizziamo ora la nostra riflessione sul sacerdozio di Gesù nella teologia della Lettera agli Ebrei, cogliendone alcuni aspetti particolari, per giungere al tema della nostra conversazione. In Eb 2,16 si definisce il compito di Cristo: “Non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo”. Per essere perciò in grado di svolgere questo compito sempre attuale (epilambanetai al presente), Cristo doveva diventare sommo sacerdote, e per diventare sommo sacerdote, doveva essere reso simile ai suoi fratelli in tutto (questa è la conditio sine qua non del sacerdozio).
La condizione che si imponeva a Cristo perché diventasse sommo sacerdote, secondo Eb 2,17, è farsi simile in tutto ai fratelli. Questa assimilazione (homoiothenai) deve essere totale (kata panta). Dal contesto si vede che con questo “in tutto” l’autore si riferisce agli aspetti più penosi e drammatici dell’esistenza umana: le prove dolorose, le tentazioni, la sofferenza, la morte. Questa assimilazione completa è condizione d’accesso al sacerdozio.
Per l’accesso al sommo sacerdozio, il contesto storico di allora presenta la via dell’ambizione personale e della separazione dagli uomini. Leggiamo per esempio in 2Mac 4,7-8 che “Giasone, fratello di Onia, volle procurarsi con la corruzione il sommo sacerdozio e, in un incontro con il re, gli promise trecentosessanta talenti d’argento e altri ottanta talenti riscossi con un’altra entrata”. Così diventò sommo sacerdote. L’autore poi racconta che un certo Menelao soppiantò Giasone: “Tre anni dopo, Giasone mandò Menelao, fratello del già menzionato Simone, a portare al re denaro e a presentargli un memoriale su alcuni affari importanti. Ma quello, fattosi presentare al re e avendolo ossequiato con un portamento da persona autorevole, si accaparrò il sommo sacerdozio, superando l’offerta di Giasone di trecento talenti d’argento. Munito delle disposizioni del re, si presentò di ritorno, non avendo con sé nulla che fosse degno del sommo sacerdozio, ma avendo le manie di un tiranno unite alla ferocia di una belva. Così Giasone, che aveva tradito il proprio fratello, fu tradito a sua volta da un altro e fu costretto a fuggire nel paese dell’Ammanìtide” (2Mac 4,23-26).
I documenti di Qumran fanno allusione ad altri eventi più recenti, parlando del sacerdote empio: “Il suo cuore, dicono, si innalzò... egli accumulò le ricchezze... rubò i beni dei poveri” (Pesher di Habacuc).
Per l’accesso al sommo sacerdozio, il contesto storico ci mostra quindi la via dell’ambizione. L’epistola agli Ebrei invece indica la via opposta: Cristo dovette rinunciare ad ogni privilegio, e mettersi allo stesso livello di tutti, accettare l’assimilazione totale ai fratelli, fino all’umiltà estrema della passione e della morte.
Questo modo di fare non si oppone soltanto agli abusi raccontati negli scritti contemporanei, ma va anche contro la prospettiva tradizionale fondata sulla S. Scrittura. Lungi dal parlare di assimilazione, i testi dell’AT insistono al contrario sulla necessità di una separazione.
Per diventare sommo sacerdote, la condizione consisteva nell’adempimento di riti di separazione ed elevazione (cfr. Es 28-29; 39; 40,13-15; Lev 8-9; cfr. anche parabola del buon Samaritano: l’infermità fisica e la morte non sembravano conciliabili con la santità del Dio vivo).
Il nostro testo non evoca nessun rito, ma soltanto l’assimilarsi ai fratelli. Non esclude le ferite fisiche né il contatto con la morte; anzi li richiede: per diventare sommo sacerdote Gesù dovette soffrire e morire. Cristo è morto non perché era solidale con gli uomini, ma per rendersi solidale con gli uomini e introdurli nella comunione con Dio. Nel mistero di Cristo l’accettazione della solidarietà umana realizza effettivamente ciò che i riti antichi si sforzavano invano di ottenere: cioè la comunione perfetta dell’uomo con Dio. Per mezzo della passione e della morte Cristo attua le due relazioni costitutive del sacerdozio: con Dio e con l’umanità. E questo grazie all’obbedienza totale al Padre e all’amore incondizionato e gratuito per l’umanità.
4. Le qualità di Cristo Sacerdote
In Eb 2,17 al titolo archiereus (sommo sacerdote) vengono aggiunti due aggettivi: eleemon e pistor, i quali definiscono le qualità di Cristo Sacerdote.
Eleemon (misericordioso) esprime una compassione fraterna, fondata sull’esperienza delle stesse difficoltà e tribolazioni. Per comprendere veramente, è necessario aver patito. E questa necessità è presentata come un motivo della passione di Gesù.
Pistos significa “credibile” (si dice di una persona, di una parola). Dal senso di “credibile” si passa facilmente al senso di “fedele”. Il contesto anteriore favorirebbe quest’ultimo senso: la fedeltà di Cristo verso di noi attraverso tutte le sofferenze (cfr. Sir 6,1-6 che parla dell’amico fedele). Subito dopo però viene una determinazione nel nostro testo: ta pros ton Theon: “per le relazioni con Dio”. Questa specificazione suggerisce allora il senso di “credibile” in quanto “degno di fede”, cioè “accreditato”.
I due aggettivi esprimono le due relazioni che sono necessarie al sacerdote, perché possa esercitare una mediazione efficace. Perciò misericordioso riguarda la relazione con gli uomini; degno di fede riguarda la relazione con Dio. Un sacerdote pieno di compassione per gli uomini, ma non accreditato presso Dio non può intervenire in modo efficace. La sua misericordia è sterile. D’altra parte, un sacerdote accreditato presso Dio, ma a cui manca la compassione, non si preoccuperà di soccorrere i bisognosi (peccatori e “malati”). La sua posizione non sarà utile ad essi. La cosa importante è dunque l’unione delle due qualità. E questa unione è assicurata in Cristo dal fatto che è pervenuto alla gloria per mezzo della Passione, cioè per un atto di solidarietà fraterna. La sua gloria non è per nulla la gloria dell’ambizione soddisfatta, ma la gloria della totale generosità: è la gloria del Crocifisso Risorto con le “braccia allargate”.
5. Scopo del Sacerdozio
Il sacerdozio è stato da Dio istituito “allo scopo di espiare i peccati del popolo: eis to hilaskesthai tas hamartias tou laou ” (Eb 2,17). Notiamo subito l’ultima parola popolo, la quale mostra bene che il sacerdozio non è un affare privato e individuale, ma una funzione sociale e comunitaria, una vocazione al servizio della comunità.
Il compito del sacerdote è togliere via i peccati. Hamartia è la parola greca più spesso adoperata per parlare del peccato. Nella LXX essa traduce l’ebraico hatta’t, che significa “fallire il bersaglio”.. Nel senso religioso s’intende di un atto col quale l’uomo si scosta dalla volontà di Dio e quindi gli dispiace.
Il perdono dei peccati è l’azione che meglio manifesta le due qualità del sacerdote: perdonando i peccati Cristo si dimostra veramente “degno di fede per le relazioni con Dio”, nonché “misericordioso” verso gli uomini peccatori.
“Infatti proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova.” (Eb 2,18). La prima parte della frase precisa in che maniera Cristo si è fatto simile in tutto ai fratelli: accettando le prove, le tentazioni, le sofferenze. Gesù ha sopportato la sofferenza fino alla fine ed è pervenuto così allo stato di chi ha veramente superato la prova. Perciò ha acquisito la capacità di aiutare quelli che stanno sotto la prova.
La seconda parte della frase offre un’altra presentazione della posizione di Cristo sacerdote. Il verbo dynatai (è in grado; è capace di) conferma pistos: Cristo è degno di fede perché ne ha la capacità. Il verbo boethesai (venire in aiuto) precisa la misericordia: non si tratta di un puro sentimento, ma di una misericordia attiva, “soccorrere” i fratelli nella prova. D’altra parte, questa espressione finale dà un’idea più larga del compito del sacerdote: non soltanto perdonare i peccati, ma portare un aiuto efficace per superare le difficoltà del cammino umano.
6. Identità del Sacerdote
Il secondo testo su cui siamo chiamati a meditare (Eb 5,1-10) definisce l’identità del sommo sacerdote e applica a Cristo la definizione data.
L’autore insiste sulla solidarietà tra il sacerdote e gli uomini. Ma c’è ora un elemento nuovo: il vocabolario sacrificale. Per la prima volta in questa Lettera, infatti, troviamo il verbo prospherein (offrire) e lo troviamo per ben tre volte nel nostro testo. L’autore mette così in relazione sacrificio e solidarietà.
Eb 5,1-4 definisce l’identità del Sacerdote, mentre 5,5-10 ne fa l’applicazione a Cristo. La definizione comincia con una formula generale che descrive il Sacerdote quale mediatore tra gli uomini e Dio: “Ogni sommo sacerdote, infatti, preso tra gli uomini in favore degli uomini, viene costituito per le relazioni con Dio...” (5,1). Notiamo un doppio legame di solidarietà tra il Sacerdote e gli uomini: legame di origine (ex), legame di finalità (hyper). Il Sacerdote è un uomo, e sta al servizio dell’uomo “affinché offra doni e sacrifici per i peccati” (5,1 b).
Tra le diverse funzioni del Sacerdote, il testo sottolinea il ministero sacrificale, specificandolo nel senso dell’espiazione. La cosa più necessaria per i rapporti con Dio poi è l’eliminazione del peccato, che ostacola ogni tentativo di relazione col divino. Il compito più importante del Sacerdote è dunque il sacrificio per i peccati. Dal buon esito di questo dipendono tutti gli altri aspetti.
Spiegando la relazione con gli uomini, il testo precisa in che cosa consiste la solidarietà: “sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza” (5,2). Il sommo sacerdote è capace di un atteggiamento adattato agli uomini peccatori, perché condivide la loro condizione (“preso di tra gli uomini”), la quale è una condizione di miseria o, più esattamente, di debolezza, di mancanze di forze (astheneia).
La debolezza è diventata il volto di Dio; non si può entrare in relazione con Cristo se non facendo i conti realmente con essa; se il Signore ha assunto su di sé ogni debolezza, è per dare dignità ad essa e per additare ad ogni discepolo la strada lungo la quale lui cammina. È proprio la debolezza di Dio ciò che abbiamo più di ogni altra cosa estromesso dal nostro pensare cristiano; un Dio debole ci è troppo vicino, e ci mette in difficoltà; la croce, vertice della debolezza di Dio, è assunta più come motivo di consolazione che come chiave di interpretazione della vita, come “norma”, come criterio per riorganizzare dentro la nostra coscienza le cose che valgono. Ma con questo stile di “debolezza” Dio si è fatto contemporaneo, si è immerso cioè nelle questioni del suo tempo, si è lasciato coinvolgere ma non travolgere dalle questioni del suo tempo...
Solo se siamo consapevoli di questa nostra comune e radicata “debolezza” possiamo comprendere i nostri fratelli e maturare in noi l’umiltà necessaria per entrare nella relazione con gli uomini e, ancor più, con Dio. Questa umiltà costituisce il tratto di solidarietà tra il sacerdote e tutti gli uomini. Allora nella identità del nostro sacerdozio, come nell’esercizio del ministero, tutto dipende da Dio: il Sacerdote è preso di tra gli uomini, non si autoelegge; è nominato da Dio, non si autonomina. Per questo il sacerdozio non è una conquista dell’uomo per innalzarsi al di sopra degli altri. È un dono di Dio che ci pone al servizio di tutti (hyper anthropon 5,1).
7. La via sacerdotale di Gesù
L’assunzione della debolezza, e quindi la via dell’umiltà e della umiliazione volontaria, è la strada verso il sacerdozio seguita da Gesù. Soffermiamoci allora a contemplare l’episodio del Getsemani raccontato da Marco, rileggendolo con il nostro testo della Lettera agli Ebrei.
7.1. La morte del cuore
Marco in 14,3 3 dice che Gesù “cominciò a sentire paura ed angoscia e disse: “La mia anima è triste fino alla morte””: se nella Trasfigurazione Gesù aveva rivelato la gloria della sua divinità, al Getsemani rivela la debolezza della sua umanità: ha paura! Il Cristo potente in opere e parole, l’Uomo-Dio ha paura! È uno scandalo per Pietro e gli altri. Lo stato d’animo di Gesù in quell’ora della prova viene descritto da Marco con due verbi molto significativi: ektambeistai e ademonein.
Ektambeistai indica uno spavento grande che si riflette anche all’esterno con indizi ben chiari fatti di sussulti e soprassalti: alla mente di Gesù si presenta la Passione con tutti i suoi tormenti. Ma non solo questo. Gesù invece di reagire sembra soggiacere; infatti ademonein suggerisce uno stato d’animo confuso, inquieto, atono, che è prodotto da un disturbo fisico o da sofferenza morale come dolore, vergogna, delusione. I due verbi insieme descrivono bene un grado estremo di orrore e di sofferenza senza limiti. Il Getsemani rappresenta per Gesù la “morte del cuore”, la depressione massima nel “passaggio di Gesù da questo mondo al Padre”.
7.2. La morte come preghiera
Il nostro testo della Lettera agli Ebrei così descrive questo momento di prova e di sofferenza estrema di Gesù: “Proprio per questo nei giorni della sua carne egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì” (5,7-8).
Il testo ci presenta la Passione come una preghiera. L’evento drammatico, che mette in questione tutta la persona di Gesù, viene affrontato in una preghiera intensa che costituisce un’offerta: offrì preghiere. Gesù nel Getsemani ha sostenuto un combattimento di preghiera (3 volte): pregare tre volte comporta una supplica a Dio particolarmente pressante: “Mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed Egli mi ha risposto: Ti basta la mia grazia, la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2Cor 12,7-8).
7.3. L’angoscia di Gesù
L’angoscia di Gesù non fu causata dalla semplice previsione dei tormenti imminenti. Gesù, infatti, non chiede al Padre di essere liberato dal dolore o dalla morte ma dice: “allontana da me questo calice”. Per comprendere questa preghiera di Gesù è necessario capire cos’è il “calice”. Il calice che lo sgomenta è sì la Passione, ma non in se stessa, bensì in quanto castigo per il peccato, flutto del peccato. Ricorriamo a tre testi, fra i tanti, dell’AT per cogliere il significato simbolico del “calice”: “Poiché nella mano del Signore è un calice ricolmo di vino drogato. Egli ne versa: fino alla feccia ne dovranno sorbire, ne berranno tutti gli empi della terra” (Sal 75,9); “Svegliati, svegliati, alzati, Gerusalemme, che hai bevuto dalla mano del Signore il calice della sua ira... Ecco io ti tolgo di mano il calice della vertigine, la coppa della mia ira; tu non la berrai più” (Is 51,17.22). Il calice, dunque è simbolo dell’ira e del castigo di Dio per i peccati; un castigo che pesantemente si abbatte sugli empi e sulla stessa Gerusalemme per la sua infedeltà.
Il tormento di Gesù appare causato da due fatti tra loro interdipendenti: vicinanza del peccatolontananza di Dio. Gesù sentì vicino, anzi “addosso” il peccato, e non uno o più peccati, ma tutto il peccato del mondo. Non faceva differenza il fatto che non li aveva commessi Lui, erano suoi perché se li era liberamente assunti: “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce” (1Pt 2,24); “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore” (2Cor 5,21); “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi” (Gal 3,13).
Tale vicinanza del peccato provoca, come conseguenza, la lontananza di Dio, l’allontanarsi di Dio. Il grido “Dio mio, Dio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46) con quello che segue nel Sal 22: “Tu sei lontano dalla mia salvezza...”, Gesù lo portava nel cuore fin dal Getsemani. La prova più lacerante per Gesù non fu la flagellazione, né la crocifissione, ma il silenzio di Dio! Entrato nel tunnel del peccato e della morte sa di doverlo attraversare... senza Dio! Lui che era Dio! In Gesù si realizzò la parola del Sal 88,17: “Sopra di me è passata la tua ira, i tuoi spaventi mi hanno annientato ... Hai allontanato da me amici e conoscenti, mi sono compagne solo le tenebre”.
Se il semplice contrasto, nell’atmosfera, tra una corrente d’aria fredda e una corrente d’aria calda è capace di sconvolgere il cielo con tuoni, lampi, fulmini da far paura, che sarà stato nell’animo di Gesù dove la somma santità di Dio venne in contrasto con la sommità del peccato? Tuttavia Gesù sa che “il Signore è vicino a quanti lo invocano, a quanti lo cercano con cuore sincero. Appaga il desiderio di quelli che lo temono, ascolta il loro grido e li salva” (Sal 145,18-19).
7.4. Ciò che vuoi tu
Gesù nell’angoscia della morte minacciosa prova il desiderio di scappare dalla morte. Assume questo desiderio e lo presenta a Dio in una preghiera supplichevole aprendo la propria anima all’azione di Dio e dice: “Abbà, Padre, non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi Tu”. Figlio e Padre sono uno di fronte all’altro, ma vengono riuniti nella sottomissione della obbedienza e nella certezza che ciò che vuole il Padre è solo un progetto d’amore!
Gesù non rinuncia a chiedere la vittoria sulla morte, ma lo fa in piena conformità alla volontà di Dio, lasciando a Dio la scelta della via: “Ciò che vuoi Tu”. Tale preghiera va certissimamente esaudita: “fu esaudito per la sua pietà (apo tes eulabeias)” (Eb 5,7). Eulabeia indica il rispetto per Dio. E’ proprio l’atteggiamento di rispetto che permette l’esaudimento della preghiera, perché apre la preghiera all’azione di Dio. Gesù non rinunzia a chiedere la vittoria sulla morte, ma lo fa in piena conformità alla volontà di Dio, lasciando a Dio la scelta della via.
L’esaudimento però non consistette nel preservare Gesù dalla Passione, ma in una trasformazione operata per mezzo della Passione attraverso la quale “imparò l’obbedienza dalle cose che patì”. Gesù non fu mai personalmente indocile a Dio, ma la nostra natura di carne e di sangue che Egli assunse era deformata dalla disobbedienza, ed Egli per noi si sottomise alla correzione necessaria.
Se il peccato è consistito all’inizio in un atto libero con cui la volontà dell’uomo disubbidisce a Dio, la Redenzione non può essere altro che un ritorno dell’uomo alla perfetta obbedienza e sottomissione a Dio: “Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi Tu”. “Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti” (Rom 5,19).
È stato necessario il sì umano pronunciato da un Dio nel buio dello spirito della sua umanità, per riscattare la ribellione accumulata dagli uomini da Adamo in poi. “Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi Tu”: nel passaggio misterioso da quell’io a quel Tu è racchiuso il vero, definitivo e universale esodo pasquale dell’umanità.
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31 gennaio, 2005