STUDI
a cura di Ermes M. Ronchi
Dal Vangelo di Matteo (20, 1-16)
Gesù disse ai discepoli questa parabola: “Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna (...).
Colui che cerca, anche se si è fatto tardi
Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero un denaro per ciascuno”.
Ancora una volta il Dio di Gesù ci sconcerta: le sue vie non sono le nostre vie, le sovrastano quanto la croce e il dono sovrasta la logica.
Istintivamente, mi sento solidale con gli operai della prima ora: non è giusto dare la medesima paga a chi lavora molto e a chi poco. Non è giusto, se al centro di tutto metto il denaro e le leggi dell’economia. Ma se mi lascio provocare da questa parabola, se, come Dio, al centro metto non il denaro, ma l’uomo; non la produttività, ma la persona; se metto al centro quell’uomo concreto, un bracciante senza terra, disoccupato, con i suoi figli che hanno fame, che aspettano la sua paga per far tacere il gemito del ventre affamato, allora non posso mormorare contro chi intende assicurare la vita d’altri oltre alla mia.
La parabola c’invita a conquistare lo sguardo di Dio: se l’operaio dell’ultima ora lo guarda con bontà, se lo vedo cioè come un amico, non come un rivale, se lo guardo come mio fratello, non come un avversario, allora gioisco con lui della paga piena, non mi sento defraudato, mi rallegro con il mio amico, faccio festa con mio fratello e ci sentiamo entrambi più ricchi. Questione di bontà. Che, impietosamente, svela la grettezza del nostro cuore. Che si sente impoverito se altri ricevono quanto me, umiliato se altri sono resi uguali a me; che vuole essere sempre uno della prima ora, superiore agli altri, che non gode del bene che si diffonde, che non sa gioire della fortuna toccata ad altri.Eppure, se Dio è andato oltre il contratto con gli ultimi, non poteva farlo anche con i primi, che meritavano di più? Lo sconcerto verso l’agire di Dio dipende dal posto che ci attribuiamo in questa parabola. Se ci stimiamo lavoratori instancabili della prima ora, cristiani esemplari, che danno a Dio impegno e fatica, che pretendono perché, pensano, Dio e la sua benevolenza si devono meritare, allora possiamo essere urtati dalla larghezza di Dio. Così fecero i farisei. Se invece con umiltà, con verità, mi metto tra gli ultimi operai, tra i servi inutili, accanto ai peccatori, a Maddalena e al buon ladrone, se conto non sui miei meriti ma sulla bontà di Dio, allora la parabola mi rivela il segreto della speranza: Dio è buono.
Ti dispiace che io sia buono? No, non mi dispiace, perché quell’operaio dell’ultima ora sono io Signore, un po’ ozioso, un po’ bisognoso. No, non mi dispiace, perché spesso non ho la forza di portare il peso della giornata e del caldo. Vieni a cercarmi anche se si è fatto tardi. Non mi dispiace che tu sia buono. Anzi, sono felice di avere un Dio così, che urge così contro le pareti meschine del mio cuore fariseo, contro il povero dialetto dell’anima perchè diventi, finalmente, la lingua di Dio.
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ultimo aggiornamento
30 marzo, 2005