ASSOCIAZIONE LAICI |
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Oggi faremo un viaggio per scoprire forse qualcosa che fino ad ora davamo per scontato, cercheremo di rispondere a delle domande che molte volte ci siamo posti: Cosa si intende per servizio cristiano? Perché Gesù ha voluto essere servo? Esiste una chiamata al servizio? Quali sono le caratteristiche del servizio cristiano? Domande che cercheremo di approfondire come sempre alla luce della Parola di Dio e precisamente dal brano di vangelo di Marco capitolo 10 vv. 35-45.
Prima di iniziare ad affrontare il tema sul servizio è necessario però, non solo una piccola premessa, ma anche chiarirsi su cosa si intende per servizio?
La parola “servizio” è una delle più abusate, e spesso è usata per dire proprio il contrario di ciò che essa significa e di ciò che vuole e deve essere.
Nella nostra cultura il termine servo è ormai logoro e disprezzato, non piace, perché servire è considerato umiliante e perché si è fatta molta retorica in proposito, si sa che nel nostro modo di parlare questa espressione risulta essere un vocabolo degradante, mortificante, offensivo, guai a rivolgersi a qualcuno chiamandolo “servo” o “schiavo”, eppure è una parola anzi è un modo di comportarsi molto comune e per niente umiliante.
Basti pensare, per esempio, al ruolo che ricoprono in famiglia le nostre mamme; chi è che si mette seduto per ultima alla tavola dopo aver “servito” tutti? Sicuramente la mamma umile serva della famiglia, ma è lei che nello stesso tempo è la persona più importante del nucleo famigliare, il punto di riferimento, il faro.
Forse allora il termine servo può essere una delle parole più belle, che va riscattata alla luce del Vangelo e della parola di Dio, è una parola che ha una grande dignità e ricopre un importanza fondamentale per la vita cristiana secondo l’esempio e l’insegnamento del Signore. Il servizio è una maniera diversa e provocatoria nei confronti del modo abituale di pensare, di considerare se stessi e di vivere il rapporto con gli altri e addirittura con Dio.
La parola Servizio, viene da servitium, opera del servo, dello schiavo; è un atto di obbedienza, una risposta a un imperium, a un comando del signore - padrone.
Ma stando a questa prima definizione capiamo subito che c’è qualcosa che non va, Gesù ci ha parlato di servizio, di amore, Lui stesso si è fatto servo, ma dall’analisi del significato della parola servizio emerge qualcosa di diverso, di strano: il servo è colui che dipende da un Signore-Padrone, che obbedisce ad un comando, insomma ne è il suo schiavo.
Per capire meglio dobbiamo necessariamente fare dei passi indietro e tornare ai popoli antichi dove la figura del servo era molto diffusa, (forse proprio per questo Gesù usa questa parola) anzi potremmo addirittura affermare che la potenza di molti regni ed imperi è stata possibile proprio grazie ai servi e agli schiavi.
La consuetudine di avere persone al proprio servizio risale a molti secoli fa, ed era considerata da quasi tutte le civiltà un elemento essenziale al sistema economico e sociale. Nel mondo antico gli schiavi venivano impiegati come aiuto domestico nelle costruzioni e nell’agricoltura, nell’antico Egitto venivano impiegati soprattutto per costruire palazzi e monumenti. In Grecia gli stessi filosofi, tranne Aristotele, consideravano la servitù un servizio dovuto alla loro superiorità razziale e, nell’antica Roma, le continue conquiste ed espansioni resero necessario un imponente numero di schiavi che venivano reclutati durante le guerre, addirittura intorno al I° secolo A.C. oltre un terzo della popolazione romana era composta da schiavi e da servi.
Secondo la legge non godevano di alcun diritto, nè avevano uno status sociale, il padrone ne aveva diritto di vita e di morte; i servi potevano essere venduti o dati in prestito.
Il servo, quindi, nell’antichità era colui che era privo della propria libertà, era soggetto ad altri, e dipendeva in tutto e per tutto da altri; era insomma uno schiavo termine, che indicava chi svolgeva servizi.
Ma se allora essere servo significa tutto questo perché Gesù si definisce in questo modo? Perché ci invita a seguire il suo esempio di farsi “il servo di tutti”?
Esiste sicuramente un passaggio tra l’essere servo nella definizione antica e l’essere servo secondo le indicazioni date da Gesù: e cioè nell’ottica cristiana chi si fa servo è colui che per amore risponde ad una chiamata, ad una missione; non è altro insomma che rispondere all’eterna vocazione che Dio fin dal principio ha dato all’uomo.
In Gen 2,8 si dice che Dio creò un “giardino”: tutta la terra era un immenso giardino. Poi “il Signore prese l’uomo e lo pose nel giardino affinché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2,15). In questo versetto ci sono alcuni verbi che esprimono una ricca teologia del significato del servizio per esempio il termine:
Coltivare in ebraico si dice abad, che letteralmente significa “servire”. Adamo ha ricevuto in dono il giardino con la finalità di servirlo. Abad indica il servizio alla terra e viene tradotto anche con il verbo “lavorare”: servendo - lavorando la terra, Adamo serve Dio che gli ha donato il giardino. Ogni uomo è chiamato a lavorare la sua parte di giardino: è questo il suo servizio, la sua liturgia; si è servi perché chiamati, si è servi perché graziati, si è servi per libera offerta, si è servi per amore, si è servi perché Gesù Cristo, il Signore, è servo.
Gesù è servo per nascita, il cristiano è servo per il battesimo, più che un atto, per il cristiano il servizio è una situazione di disponibilità permanente. Il servizio richiede attenzione continua al Signore, ascolto della sua parola-volontà, senza nessuna pretesa di ricompensa, di premio. Il servizio presuppone cioè un invito, un appello di Dio a una funzione, a un incarico, dire si liberamente (scelta) a questa chiamata dà inizio al servizio, che è una missione, un dono di Dio.
Se uno, pertanto, vuole essere discepolo di Cristo deve riprodurre l’esempio di Gesù, diventando come Lui “servo”. Nel pensiero di Gesù il servizio definisce l’identità della sua missione: è nel servizio che si rivela il volto autentico di Dio, che esce da se stesso, va in cerca dell’uomo e lo salva amandolo.
Dopo questa doverosa premessa porteremo allora la nostra attenzione al vangelo di Marco per considerare che cosa Gesù intendeva per sé e per la sua comunità quando parlava di servizio, prenderemo in esame il passo di Mc 10,35-45 in cui è riassunto il pensiero di Gesù su questo tema essenziale del comportamento cristiano.
[35]E gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: “Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo”. [36]Egli disse loro: “Cosa volete che io faccia per voi?”. Gli risposero: [37]“Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. [38]Gesù disse loro: “Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?”. Gli risposero: “Lo possiamo”. [39]E Gesù disse: “Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e il battesimo che io ricevo anche voi lo riceverete. [40]Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”. [41]All’udire questo, gli altri dieci si sdegnarono con Giacomo e Giovanni. [42]Allora Gesù, chiamatili a sé, disse loro: “Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. [43]Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, [44]e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. [45]Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
Gesù sta salendo con il gruppo dei Dodici a Gerusalemme e per la terza volta parla loro della passione, morte e risurrezione (10,32-34). Ma quest’annuncio, più dettagliato dei precedenti, suscita la domanda di Giacomo e di Giovanni. Si avvicinano a Gesù i figli di Zebedeo e gli dicono: “Maestro, noi vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo”. E Gesù: “Cosa volete che io faccia per voi?”. E quelli: “Concedici di sedere nella tua gloria uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”.
Una pretesa non da poco: essere i due più vicini a Gesù e nella gloria. Gesù ha parlato di passione... e loro pensano già alla gloria. Già al capitolo 9,33-37 Marco aveva annotato la disputa fra i discepoli, lungo la strada per Cafarnao, su chi di loro fosse il più grande, e Gesù, una volta saputolo, aveva detto: “Se uno vuol essere il più grande, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. Aveva quindi preso un bambino, lo aveva posto in mezzo a loro, lo aveva abbracciato e aveva detto: “Chi accoglie uno di questi piccoli nel mio nome accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”.
Adesso la cosa è molto più allarmante: chiaramente si tratta di un atto di arrivismo da parte dei due fratelli, che hanno tutta l’aria di essere degli arrampicatori sociali. Cercano di trattare direttamente con Gesù i posti migliori, facendo lo sgambetto ai compagni della comunità. Comportarsi così è pugnalare al cuore la comunità stessa, perché verosimilmente si creeranno rimostranze, rancori e gelosie, nasceranno delle rivalità e dei contrasti, si provocheranno divisioni. L’evangelista Matteo (20,20-23) introduceva il colloquio con Giacomo e Giovanni affidando alla loro madre il compito di portare avanti la causa. Dice, Matteo, che si avvicinò a Gesù la moglie di Zebedeo, con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. E’ a lei che Gesù chiede: “Che cosa vuoi?”, ed ella risponde: “Di’ che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno”.
Gesù tratta con molta comprensione i due, ma anche con molta chiarezza: “Voi non sapete ciò che domandate!”, ed interviene prendendo un esempio dalla politica, cosa che faceva assai raramente, invita i dodici a verificare che cosa succede nel governo dei popoli, come i capi delle nazioni spesso le dominano, spadroneggiando su di esse, e aggiunge: “Fra di voi non sia così” (v. 43). Qui non dà soltanto una legge fra le altre, ma definisce la costituzione stessa della comunità dei suoi discepoli: in essa, “ognuno è il servo di tutti”.
Una comunità, quella proposta da Gesù, dove “chi vuol essere grande tra voi si faccia vostro servitore e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo (dulos, schiavo) di tutti” L’insistenza non potrebbe essere più rigorosa: all’immagine del servo si aggiunge quella dello schiavo, immagine che accentua ancor più la dipendenza nel confronto di colui al quale si presta servizio.
Qualcosa di impossibile? Qualcosa di utopico? forse sì, ma nel senso che sta davanti a noi come un progetto cui dobbiamo sempre riferirci, sforzandoci di realizzarlo anche se sappiamo che l’egoismo, la scarsa generosità, il peccato in genere renderanno estremamente difficile la vera fraternità, perché di questo poi in realtà si tratta.
Nella chiesa nessuno deve ritenersi superiore agli altri, perché su tutti c’è un solo Signore, Gesù Cristo, e insieme con lui, noi tutti costituiamo un unico corpo nella grazia dello Spirito. Ciascuno di noi ha dei doni, delle qualità, delle capacità da mettere a disposizione della comunità, sull’esempio di Cristo: “Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi con tutta umiltà consideri gli altri superiori a se stesso, senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri” (Fil 2,3-4).
La comunità cristiana è così, o non è una comunità cristiana. Perché un simile radicalismo? Perché in quanto cristiana ha in Gesù il suo modello, il Gesù di Marco lo dice espressamente: fra voi, chi vuol essere grande o il primo deve essere a servizio di tutti. “Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (10,45).
Scomparire, imboscarsi non è umiltà; è mancanza di responsabilità, è sciogliersi nella massa. Bisogna esercitare il proprio servizio ed esercitarlo umilmente. Il Gesù del discorso della montagna, che aveva raccomandato la segretezza dell’elemosina, della preghiera e del digiuno, è lo stesso che ci ricorda che l’albero si riconosce dai frutti (Mt 7,20) e che la luce del discepolo deve risplendere davanti agli uomini, “perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5,16). Il testo di Marco che stiamo esaminando è collocato dopo il terzo annuncio della passione: un avvertimento importante! Il servizio è un cammino di croce cioè di responsabilità, di fatica esteriore ed interiore, ma non perché sia bello soffrire, bensì perché è doveroso e bello “servire”.
Noi oggi concepiamo l’autorità come potere, quasi sinonimo di dominazione, e in questo senso essa è il contrario del servizio. Gesù ha goduto di profonda autorità e ha agito con autorità: è proprio Marco che ci riferisce come Gesù sin dall’inizio insegnava con autorità (1,27).
Eppure Gesù è stato anche colui che il Nuovo Testamento ha presentato soprattutto ricorrendo all’inno del servo sofferente (Is 52,13-53,12), come uno che ha dato la sua vita per gli altri, esprimendo al massimo grado la verità che non c’è miglior amico di colui che dona la sua vita per gli altri.
Isaia 42:1 Ecco il mio servo che io sostengo,
il mio eletto di cui mi compiaccio.
È Dio che parla e presenta il “suo” servo; è Lui che lo ha “scelto”, è Lui che lo sostiene. Ogni elezione nella Scrittura è sempre in vista di una missione per affrontare la quale c’è bisogno della grazia. Dio dice che il suo servo è “cosa buona” e che ha posto in lui il suo Spirito.
Isaia 49:1 Ascoltatemi, o isole,
udite attentamente, nazioni lontane;
il Signore dal seno materno mi ha chiamato,
fino dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome.
Isaia 49:2 Ha reso la mia bocca come spada affilata,
mi ha nascosto all’ombra della sua mano,
mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra.In sintesi: il servo è un uomo, scelto tra gli uomini; non è migliore degli altri né più capace; è Dio che gli va incontro, che lo purifica e lo rende capace di dirgli di sì; la chiamata ad essere santo si concretizza nella missione agli altri, quale inviato di Dio; questa missione consiste soprattutto nell’annunziare la Parola, nel prestare la voce a Dio, nell’essere suo testimone.
L’autorità secondo il vangelo quindi è “una qualifica che Dio dà per un servizio”. Se volessimo esprimerci con una pagina di Giovanni, potremmo rifarci alla lavanda dei piedi, la sera dell’ultima cena, con la quale il quarto evangelista intende probabilmente rendere il significato stesso della Eucarestia: “Signore, tu lavi i piedi a me?”, esclama Pietro. E Gesù: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo”... (Gv 13,1-20).
Non c’è da stupirsi che Giovanni abbia introdotto la scena della lavanda dei piedi e dei fatti della passione con le parole: “Prima della festa di pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1).
E più avanti ancora Gesù dirà: “ Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” parole che possiamo completare con quelle degli Atti degli Apostoli: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35).
Giovanni ci rimanda così al vangelo di Marco, dove Gesù è preoccupato di non assimilarsi ai grandi della terra: non vuole essere servito, ma servire. Donando la sua vita vuol dimostrare che sa portare sino alle estreme conseguenze la verità in cui crede e la missione che sente affidatagli dal Padre; non solo ma ci vuole far capire che la vita cristiana è vita nella gioia, servire Dio, servire gli altri, servire la Chiesa, dà gioia.
Allora quale è il nuovo fondamento teologico del servizio?
Nella sua vita ogni cristiano deve avere come punto di riferimento Dio, uno e trino; guardiamo quindi la vita trinitaria. L’essenza di essa è la “relazione”. Nella nostra esperienza umana, la relazione nasce dalle persone: prima esistono queste, poi, tra di loro vengono stabilite delle relazioni. Nella Trinità invece se vogliamo assistiamo ad un paradosso. In Dio non esistono prima le persone e poi le relazioni, Dio è Padre in quanto vive ed esiste nella relazione col Figlio, lo stesso va detto del Figlio e dello Spirito Santo. Dio esiste, esiste per l’altro: si attua così “il circolo trinitario”; pertanto, “ esistere per l’altro”, non è un’eventualità cara ad anime generose e disponibili, ma deve essere anche l’elemento di fondo della nostra esistenza. Non basta: Dio esiste per l’altro, esiste nell’altro: il Padre è nel Figlio e il Figlio esiste nel Padre, il Padre e il Figlio sono nello Spirito Santo e lo Spirito Santo esiste in loro; credo che a questo punto si capisca perché questo discorso sia importante per la nostra visione della vita come servizio.
Madre Speranza diceva: “Siamo stati creati gli uni per gli altri e viviamo gli uni negli altri, dato che in noi c’è qualcosa degli altri e negli altri qualcosa di nostro. Questa parte degli altri che c’è in noi è la loro vita e quella parte di noi che c’è in loro è la nostra vita.
L’incarnazione e la crocifissione di Cristo è una conseguenza del suo essere: il farsi servo nella storia umana, deriva dal fatto che egli è “ esistente-per” nell’ambito della Trinità, il portare l’altro in sé , lo conduce a questo atto estremo, spietato e sublime allo stesso tempo.
Anche Maria ha risposto Si a questa proposta di “essere per l’altro”, anzi nel suo caso potremmo dire “essere per l’umanità”, lei è l’esempio per eccellenza di questo atteggiamento, non solo ha capito la portata e la grandezza della chiamata di Dio ma nelle sue parole: “Eccomi sono la serva del Signore” ha interpretato in modo esemplare il vero atteggiamento al servizio chiesto da Dio.
Un servizio operoso, silenzioso, che sotto la croce si è fatto cooperante della volontà del Padre, e forse mai come in quel momento sono ancora risuonate nel suo cuore quelle parole: “Eccomi sono l’ancella del mio Signore”, anche adesso? Si! “Sarò sempre al servizio della volontà di Dio e del suo progetto sull’umanità”.
Quali gli ostacoli al servizio.
Durante la nostra vita spesso ci capita di dover far fronte a delle grosse delusioni al riguardo del nostro servizio:
A motivo del comportamento di altre persone;
Perché pensiamo che il frutto del nostro servizio sia scarso e poco efficace;
A queste delusioni spesso si reagisce chiudendosi in se stessi o lasciando il servizio di cui ci stiamo occupando; anche Gesù durante la sua vita su questa terra ebbe diverse delusioni e considerare la Sua esperienza sarà certamente di aiuto e di incoraggiamento per noi.
1. A motivo del comportamento di altre persone.
Gesù fu tradito da Giuda, da Pietro, da Tommaso, apostoli che lui stesso aveva scelto ed amato come tutti gli altri, persone con cui aveva condiviso esperienze, che avevano assistito a miracoli, che lo avevano ascoltato predicare, e che però alla fine lo hanno abbandonato e tradito.
Quale delusione fu per Gesù vedere che i suoi discepoli nonostante tutto ciò che avevano visto ed udito mancavano ancora di fede, di saggezza, di carità. Quante volte smettiamo il nostro servizio perché veniamo traditi da chi collabora con noi? Penso alle invidie, alle gelosie, alle critiche che ci rivolgono gli altri fratelli che guardano le nostre azioni, penso a chi non viene capito o compreso nel svolgere un incarico, a chi viene continuamente giudicato.
2. Pensiamo che il frutto del servizio sia scarso.
Ricordiamo l’episodio dei dieci lebbrosi (Luca 17: 11-19), solo uno tornò da Gesù per lodare Dio della guarigione, e gli altri nove? Non fu forse deluso Gesù dal fatto che, pur avendo guarito dieci lebbrosi tutti allo stesso modo, solo uno tornò a ringraziarlo? Quanti fallimenti hanno i nostri servizi? Per noi è più importante raccogliere o seminare? Il servizio deve per forza avere un riconoscimento, un ringraziamento? I risultati del nostro servizio contano sempre? Chi deve raccogliere i frutti del nostro servizio?
Molte furono le delusioni che colpirono Gesù, eppure Egli con zelo e ardore compì su questa terra il compito per cui era stato mandato, un compito duro, ingrato, un compito che assolse per amore del Padre e per amore nostro. Non c’è niente che giustifichi il fatto che tutti noi abbiamo perso amore e zelo per l’opera di Dio o per il prossimo. Non possiamo permetterci di svolgere il compito che Dio ci ha affidato con stanchezza o freddezza: è troppo importante l’opera di Dio, al di sopra della nostra delusione.
Sarai stupito forse nel sapere che una delle delusioni di Gesù sei proprio tu, siamo proprio noi! Chissà quante volte abbiamo deluso il Signore con il nostro comportamento, quante volte Dio ha aspettato che tu lo invocassi e non è successo, quante volte ti ha chiamato e neanche te ne sei accorto.
Qualsiasi sia il motivo della nostra delusione e dei nostri scoraggiamenti di fronte al servizio, nulla ci giustifica a perdere lo zelo per l’opera di Dio. Sta scritto: “Lo zelo per la tua casa mi consuma”. (Giovanni 2:17) “Quanto allo zelo, non siate pigri; siate ferventi nello spirito, servite il Signore” (Romani 12:11). Più il compito che hai nella tua chiesa è importante meno ti puoi permettere di non avere zelo!
Essere servi a volte è una cosa meravigliosa vuol dire mettersi al servizio di qualcuno colmare i suoi vuoti affettivi, portare luce in occhi dove la luce è coperta da nebbie, mettere totalmente a disposizione il tuo tempo verso persone fragili quando vorresti dedicare del tempo per te magari facendo cose a te più piacevoli, sapere ascoltare qualcuno quando invece i tuoi pensieri la tua vita ti porterebbe a fare altro, rinunciare a qualcosa che più di ogni altra vorresti per te per donarla a chi ha più bisogno di te! Insomma essere servi vuol dire esattamente quello che vuol dire: servire gli altri diventare ultimo e mettere al primo posto il tuo amore, il tuo tempo, la tua voce, la tua disponibilità, laddove serve.
È difficile fare tutto questo di questi tempi dove tutto scorre cosi velocemente dove è impossibile soffermarsi a pensare agli altri, viviamo ormai in una società di gente sola, persa nei propri problemi, economici e non, e siamo talmente presi da noi che gli altri che ci sono accanto a volte sembrano dei fantasmi, delle ombre… non esistono!
Ma purtroppo questa è la vita, la vita che ti riporta a pensare più alle cose materiali che a quelle spirituali, dove non si riesce ad avere un giusto equilibrio tra le due cose, dove a volte e difficile sopravvivere, ma questo non fa altro che renderci tutti estremamente degli infelici, degli insoddisfatti, delle persone vuote.
Non si può vivere da soli e solo per soddisfare le nostre esigenze, oggi abbiamo tutto, ogni cosa è possibile, ma non abbiamo più l’umiltà di essere servo di qualcuno… quel sorriso, quell’abbraccio che ti viene dato dopo avere dedicato a chi ha bisogno qualche cosa di te riempie il tuo cuore di amore, le tue tasche più di una lotteria, la tua anima di sorrisi perché donarsi agli altri non è umiliante è la linfa del nostro vivere vuol dire esistere vuol dire avvicinarsi a Dio; ed è lì che anche se con estrema difficoltà cerchiamo tutti i giorni di andare, ma bisogna ammettere che non è facile, non è per niente facile, ma è proprio in questa difficoltà che riconosciamo i nostri limiti, ci mettiamo in discussione; ed è grazie a questi limiti che riconosciamo la grandezza di Dio del Suo essere stato nostro servo, ed è da qui che nasce la domanda e la risposta… se Dio ha fatto questo per me chi sono io che non posso fare altrettanto per uno come me?
Così vive il cristiano: sa che non riuscirà mai a risolvere tutti i problemi: la storia lo supera, ma ha bisogno di lui, perché ogni giorno sia annuncio di speranza, annuncio di quel futuro che è certezza, a causa della vittoria di Cristo sulla morte. La Chiesa pertanto dovrebbe diventare nella nostra ottica, una “comunità col grembiule” poiché è chiamata a servire per portare il ‘sale della vita di Dio’ e illuminare il mondo; essa deve essere la presenza attiva nel mondo, specialmente nel mondo dei sofferenti. Chi ama serve tutti e va in cerca, come Cristo, particolarmente degli esclusi, dei diseredati, dei peccatori, per proclamare ad essi, con i gesti che Dio li guarda, li ama, li salva. Il cristianesimo consiste infatti proprio in questo: nel portare la speranza di salvezza a coloro che ne erano considerati esclusi. Gli ultimi vengono quindi considerati i primi, i disprezzati sono onorati, i dimenticati sono eletti. La comunità cristiana ha bisogno di aprirsi a questo amore fraterno e al servizio attraverso dei gesti visibili, dei “segni diaconali” permanenti con i quali esprimere la propria fede mediante le opere di carità .
La loro importanza non è misurata da ciò che essi producono, in termini di efficienza, ma dallo spirito e dallo stile che li anima e dal coinvolgimento comunitario che sanno sviluppare. “Chi da qualcosa agli altri lo faccia con semplicità, chi aiuta i poveri lo faccia con gioia!” (Rm 12, 7-8 )
Lo Spirito di Dio rende capaci di questo le nostre comunità suscitando continuamente in esse “vocazioni al servizio”, sia laicale che di speciale consacrazione. Per una risposta responsabile è necessaria però una formazione adeguata dal punto di vista spirituale, formazione cioè alla fede, alla preghiera, allo spirito di servizio.
In conclusione è perciò importante che alla scuola della parola di Dio e della preghiera vada affiancata, nelle nostre comunità, la “scuola del servizio”. In ogni comunità, come c’è il luogo della preghiera e il luogo della catechesi, deve anche esserci un luogo dove imparare a conoscere e a servire i poveri, come ripeteva la nostra Venerabile Madre:
“Sappiamo che ogni servizio che rendiamo al nostro prossimo lo facciamo a Gesù stesso, il quale prende per sé ogni bene e ogni male reso al nostro prossimo; e su questo saremo giudicati.
Come si fa ad amare il prossimo come se stessi? Sembra una cosa troppo difficile!
A me non sembra tanto difficile dato che basta amare Gesù, perché si sa che chi ama davvero vuol bene anche a coloro che l’Amato ama.
Dobbiamo amare tutti con carità facendo agli altri ciò che vorremmo facessero a noi.
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ultimo aggiornamento
27 luglio, 2005