STUDI

   Don Alfonso Cammarata     

"Da vasi di ira a vasi di misericordia"

(Rm 9, 22-23)

 

Estratto dalla Tesina

di Licenza presso la Pontificia Università Gregoriana

Istituto di spiritualità

Roma 2006/2007

 

III CAPITOLO

 

 

La misericordia di Dio sperimentata e proclamata da san Paolo

"Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,

Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione,

il quale ci consola in ogni nostra tribolazione" (2Cor 1,3-4)

(seguito)

 

3.4 - Paolo, vaso di elezione del Dio delle misericordie

Saulo perseguita i discepoli di Gesù ed è proprio un discepolo a salvarlo sia dalla cecità sia dalla situazione di morte in cui è venuto a trovarsi. Anania diventa per Saulo il mediatore del Vangelo della Grazia31: non solo va a cercare Saulo per imporgli le mani, ma mette in pratica il Vangelo chiamando "fratello" il persecutore. E così l’incontro con Gesù trasforma Saulo da persecutore a discepolo; l’incontro con Anania lo trasforma da nemico a fratello.

Scrive S. Agostino:

"È inutile illuderti: hai senz’altro anche tu qualche nemico. E sai cosa farebbe un nemico? Ti aggredirebbe. Ma come potresti vivere in pace, sapendo di avere un nemico? Se vuoi vivere in pace, l’unica cosa da fare è quella di trasformare il nemico in amico. Sai che chi incontra un amico incontra un tesoro. Allora, ecco cosa ti dico. La presenza di un nemico è l’occasione propizia per farti un amico. Infatti, se sei riuscito a perdonarlo, hai acquistato un amico, e perciò un tesoro che ti garantirà una profonda serenità. Se invece non avrai il coraggio di perdonare, il nemico resterà nemico, e tu rimarrai preda della tua angoscia".

Nel racconto di Atti, il perdono ha trasformato il nemico in amico, e lo ha fatto progredire fino al punto di renderlo fratello e anche "un vaso di elezione per portare il nome di Dio dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele" ( cfr. At 9,15b). Colui che portava la morte porterà la vita e la salvezza; colui che perseguitava diventerà il testimone; colui che provocava sofferenza a coloro che seguivano la via di Gesù subirà sofferenza a causa del Nome che porterà sulle proprie spalle. Tutto viene capovolto. La vocazione è una vera conversione!32

La vocazione di Saulo lo impegna ad essere un vaso di elezione: l’argilla dell’umanità di Saulo viene riplasmata dal dito creatore del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo in vaso di elezione che porta un dono immenso, la Bellezza della Trinità, come un vaso di creta, un vaso fragile che contiene la potenza della Grazia trasformante della Trinità.

L’elezione non è privilegio ma compito, testimonianza e missione; è strumento di elezione per "portare il Nome" di Gesù dinanzi ai popoli e per questo Nome dovrà soffrire33. Di Saulo sottolinea Gesù "egli è per me un vaso di elezione". Per Gesù e non per lui stesso, tutto è relativo al Signore. C’è un primato che appartiene unicamente a Gesù, Se "Saulo è per me e deve portare il mio Nome", necessariamente dovrà calcare le orme di Gesù anche nella sofferenza; e così il portare diviene patire che associa al patire di Cristo e a lui conforma ogni discepolo34.

3.5 - Da vasi d’ira a vasi di misericordia

"C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente! Egli infatti dice a Mosè:

Userò misericordia con chi vorrò,

e avrò pietà di chi vorrò averla.

Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia. Dice infatti la Scrittura al faraone: Ti ho fatto sorgere per manifestare in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato in tutta la terra. Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole.

Mi potrai però dire: "Ma allora perché ancora rimprovera? Chi può infatti resistere al suo volere? ". O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: "Perché mi hai fatto così? ". Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? (Rm 9,14-21)

Dio, nel piano di salvezza, si riserva sempre e in modo esclusivo l’iniziativa e l’azione, trascendendo ogni aspettativa umana. È Dio, con la più assoluta indipendenza da ogni elemento umano, che salva, mantenendo le sue promesse35. A conferma che davanti a Dio non c’è posto per l’ingiustizia, Paolo cita l’autorevolezza dell’oracolo rivolto a Mosè durante la teofania dell’Esodo, incentrato sulla scelta libera della misericordia e della compassione divina (cfr. Es 33,19). Non soltanto Dio sceglie chi vuole ma usa misericordia con chi vuole e in questa libertà non deve rendere conto a nessuno. Per questo davanti a Lui non c’è ingiustizia: l’orizzonte finale sul quale si gioca la giustizia di Dio non è quello di dare a ciascuno il suo ma di riversare la sua misericordia su chi vuole.

La misericordia divina non dipende dalla volontà umana né dal suo impegno, espresso con la metafora del correre, ma da Dio stesso che, per definizione, è misericordioso. Con questa priorità della misericordia divina rispetto alla volontà o all’impegno umano, Paolo richiama il disegno elettivo e rimarca il versante positivo dell’elezione, che gli sta particolarmente a cuore: non l’elezione per la condanna o per il peccato, bensì in vista della misericordia divina.

Dal punto di vista storico, Paolo compie una sorta di flash-back: dall’oracolo di Es 33,9 a quello di Es 9,16, spostando l’attenzione da Mosè al faraone il quale, conservato in vita dopo la settima piaga della grandine, è stato scelto da Dio per manifestare la sua potenza e perché il suo nome fosse diffuso dovunque36. Il cuore indurito del faraone non è dovuto alla sua libertà e alla sua responsabilità, ma alla volontà divina: Dio è libero di usare misericordia e di indurire il cuore. Il faraone è uno strumento nelle mani di Jhwh e la sua opposizione ha esaltato la potente manifestazione di Dio a favore di Israele schiavo, rivelandolo al mondo come salvatore.

Paolo avverte nei vv. 19 e 20 che il suo modo di dire potrebbe essere frainteso. Se Dio è autore di tutto e vuole tutto, se è Lui che indurisce, come può poi lamentarsi, minacciare, biasimare: come può rimproverare l’uomo del suo comportamento peccaminoso, se è Dio che, irresistibilmente, vuole tutto questo? Il problema è posto in termini chiari, ma Paolo avverte subito la difficoltà di una risposta adeguata: quindi, mentre implicitamente afferma che l’uomo è libero e responsabile, e che quindi Dio ha tutti i diritti di rimproverare, situa il problema nel suo contesto naturale, ovvero la trascendenza di Dio. Fa questo anzitutto con una interrogazione retorica: come può l’uomo mettersi a discutere, quasi da pari a pari, con Dio fino a contraddirlo? È la posizione assurda con cui l’uomo pone dei problemi che toccano la trascendenza divina, posizione che Dio rimprovera, ad esempio, a Giobbe (cfr. Gb 38-39).

Paolo porta poi l’esempio del vasaio37: il vasaio è padrone assoluto, può costruire i vasi che vuole e come vuole, ha sempre lui l’iniziativa: è assurdo che il vaso d’argilla si metta a discutere col vasaio. L’applicazione a Dio ribadisce la piena libertà di iniziativa e di azione, assoluta e senza alcun limite, che Dio ha nella salvezza. Per quanto l’essere umano possa indagare sulle proprie origini, non può mai esaurire il disegno creativo di Dio; qui tutte le sue domande e le sue contese con Dio sono destinate a fermarsi, come dimostra soprattutto il dramma di Giobbe: "Che cosa ti posso rispondere?" (Gb 40,4). Per Paolo la persona umana, non soltanto la sua carne, è un vaso di creta chiamato a contenere il tesoro inestimabile del vangelo (cfr. 2Cor 4,7).

Paolo continua con l’esempio del vasaio e dei vasi e afferma:

Se pertanto Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande pazienza vasi di collera, già pronti per la perdizione, e questo per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla gloria, cioè verso di noi, che egli ha chiamati non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani, che potremmo dire?" (Rm 9,22-23).

La prima parte della frase comincia con una causale, più che con una concessiva: non giacchè o per il fatto che, ma a causa della dimostrazione della sua collera e della sua potenza, Dio ha sopportato con grande pazienza i vasi d’ira. La presenza di vasi d’ira è considerata come dimostrazione dell’ira divina che, in Rm 1,18-3,20, Paolo ha descritto in termini di incompatibilità con il male commesso dagli esseri umani. Per questo la manifestazione dell’ira divina non è che un modo per far conoscere la sua potenza; e questa non si esprime con la distruzione, per quanto le creature umane siano come alcuni vasi destinati al macero, bensì con la grande longanimità di Dio.

Non solo, dire che la pazienza di Dio vale anche per i vasi di collera significa, per via positiva, dimostrare la ricchezza della gloria divina per i vasi di misericordia. In pratica, Paolo si sofferma sui vasi d’ira per sottolineare che la gloria di Dio, ossia la sua presenza o la sua potenza si manifestano nei vasi di misericordia.

I vasi d’ira sarebbero in concreto degli uomini che, per i loro peccati e la non accettazione del messaggio evangelico, sono oggetto dell’ira divina, sono cioè in assoluta antitesi con Dio che salva. Essi sono stati e permangono approntati per la rovina eterna38, ma Dio li sopporta con molta longanimità e la longanimità di Dio attende un possibile cambiamento. Infatti Dio manifesta, nella situazione attuale in cui essi si trovano, la sua ira, e se essi vi permangono la manifesterà ancora di più nel giorno dell’ira; ma Dio nel sopportare ha anche un altro scopo: mostra ciò di cui è capace, la sua potenza giustificante: potrà cambiare i vasi d’ira in vasi di Misericordia.

I vasi di misericordia sarebbero gli uomini che, aderendo a Dio e accettando la salvezza del vangelo, sono oggetto attualmente dell’azione salvifica di Dio. In essi Dio manifesta la ricchezza della sua gloria39.

Paolo, inoltre, riporta una serie di citazioni tratte dall’ A.T. e in particolare dalla letteratura profetica. In tal modo il percorso storico-salvifico dell’ A.T. perviene al suo compimento: dalle vicende dei patriarchi (vv. 6-13) a quelle esodali (vv. 14-18) e agli oracoli profetici (vv. 24-29).

"Esattamente come dice Osea:

Chiamerò mio popolo quello che non era mio popolo

e mia diletta quella che non era la diletta.

E avverrà che nel luogo stesso dove fu detto loro:

"Voi non siete mio popolo",

là saranno chiamati figli del Dio vivente" (Rm 9,25-26).

In questo oracolo Osea annuncia il ritorno nella grazia di Israele colpevole. Respinto un tempo da Dio a causa dei suoi peccati, il popolo eletto diverrà di nuovo, nel giorno della conversione e del perdono, il popolo di Jhwh, il suo popolo. Con tranquilla audacia, Paolo applica questo testo ai pagani: essi che non erano il popolo di Dio divengono, in Gesù Cristo, suo popolo40.

Paolo non si dimentica di Israele. Cita Isaia, riprendendo un tema caratteristico della predicazione profetica dell’A.T. e applicandolo alla situazione presente:

E quanto a Israele, Isaia esclama:

Se anche il numero dei figli d’Israele

fosse come la sabbia del mare,

sarà salvato solo il resto;

perché con pienezza e rapidità

il Signore compirà la sua parola sopra la terra.

E ancora secondo ciò che predisse Isaia:

Se il Signore degli eserciti

non ci avesse lasciato una discendenza,

saremmo divenuti come Sòdoma

e resi simili a Gomorra (Rm 9,27-29).

Nella massa del popolo di Israele, infedele al patto, inferiore in ogni caso al livello di impegno morale richiesto da Dio, c’è sempre stata una piccola minoranza, detta appunto dai profeti resto di Israele, che si mantiene all’altezza delle richieste divine e che sarà come il germe dal quale rifiorirà l’intero Israele rinnovato. Il resto non è soltanto considerato da una valutazione negativa rispetto a tutto Israele, ponendo in discussione la relazione con Dio, ma anche da una positiva, come segno di speranza per la maggior parte d’Israele41.

(segue)


31 Anche Anania riceve una vocazione e, secondo il classico schema di questi racconti, abbiamo una chiamata, una obiezione e poi l’esecuzione del comando. Contemporaneamente alla visione di Anania, Luca inserisce un’ulteriore visione sperimentata da Saulo.

32 Cfr. M. RUSSOTTO, op. cit., 71-73.

33 Il verbo greco bastazein ( portare) è quello usato in riferimento agli animali da soma che portano il giogo. Il giogo può essere pesante, ma l’animale da soma sembra portarlo quasi con allegrezza, per la consapevolezza dell’impegno ricevuto e per la gioia di essere stato scelto per qualcosa di grande, per essere utile a un progetto grandioso.

34 Cfr. M. RUSSOTTO, op. cit., 73-74.

35 Paolo esprime queste verità usando molti antropomorfismi e mantenendosi nell’ambito della mentalità semitica.
Antropoformismi nel senso che in noi la libertà di iniziativa è compresa quando, davanti alla possibilità di un’azione, sappiamo di poter fare il contrario. Paolo per dire che Dio è sommamente indipendente nella sua azione salvifica e per farlo capire, si esprime in termini di scelta e di alternativa: ha misericordia di chi ha misericordia, non l’ha di chi non l’ha; usa bontà con chi vuole, indurisce chi vuole. Ciò non porta ad una discriminazione di fatto: è solo un modo di dire che Dio usa misericordia, salva, solo in base a se stesso e alla sua bontà. Non si afferma che ci sia una parte dell’umanità e nemmeno un solo uomo, verso cui Dio, di fatto, non usi misericordia.
La mentalità semitica rifugge dall’astrazione, ignora praticamente i nostri concetti di cause seconde, le nostre distinzioni tra volontà antecedente e conseguente, tra volontà attiva e volontà permissiva. Tutto ciò che esiste è attribuito globalmente a Dio e in maniera diretta ( "Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto questo." Is 45,7).

36 L’affermazione dell’origine e del disegno divino per i potenti è tipica dell’A.T., come ad esempio per il re Ciro: "Così dice il Signore del suo eletto, di Ciro: Io l’ho preso per la destra" (cfr. Is 45,1). Dunque anche l’esempio di un uomo non appartenente al popolo eletto, anzi che è suo nemico, dimostra che all’origine di tutto si trova la libera scelta di Dio e che l’orizzonte finale di qualsiasi azione umana rientra nel piano imperscrutabile di Dio. Contro una visione della doppia predestinazione al bene e al male, è bene notare che Paolo non conclude con la distruzione del faraone ma con la sua funzione nella manifestazione della potenza di Dio e nella diffusione del suo nome.

37 L’immagine del vasaio e del vaso è diffusa soprattutto nei miti di creazione nel Vicino Oriente Antico e ben attestata anche nell’A.T. (cfr. ANEP 569; Gn 2,7; Gb 10,9; Is 45,9; 64,7; Ger 18,3-6; Lm 4,2; 1QS 11,22; 1QH 1,21; 3,23-24; 4,29; 10,3; 12,26.32; 18,12).

38 Chi li ha messi in questa situazione? Il testo usa il perfetto passivo e lascia quindi la questione aperta: si potrebbe intendere come forma verbale media e allora si avrebbe la spiegazione che essi si sono, essi stesi, approntati per la perdizione, ma da altri contesti in cui si parla di ira di Dio (cfr. Rm 1,18; 2,5; 4,15; 13,4) si suppone sempre un male morale che la provochi e che quindi le è antecedente.

39 Il genitivo ricchezza della gloria può essere ritenuto come epesegetico, nel senso che la ricchezza di Dio si identifica con la sua gloria, o come "partitivo", nel senso che la gloria di Dio, come la sua misericordia, fa parte della sua ricchezza. In base al contesto è preferibile la seconda accezione.

40 Nonostante la formula per introdurre una citazione diretta dall’A.T., Paolo riporta una citazione molto diversa dall’originale profetico che in Os 2,25 così recita: "…E avrò misericordia di "Non-amata" e dirò a "Non-popolo mio", "Popolo mio" tu sei…". Dal confronto con la citazione paolina del v.25 emerge anzitutto l’inversione dell’ordine originario: se in Os 2,25 si parla prima di Non-amata e quindi di Non-popolo mio, in Rm 9,25 Paolo preferisce citare prima Non-popolo e quindi Non-amata, conferendo particolare attenzione alla relazione tra il verbo chiamare e il sostantivo popolo. Inoltre Paolo sostituisce il verbo dirò con chiamerò, sviluppando la tematica della chiamata e dell’elezione di Dio. Il non popolo è chiamato a diventare popolo suo e figli di Dio. L’inversione dell’ordine nei confronti dell’originale profetico permette di sottolineare che i gentili, poiché sono amati da Dio, diventano suoi figli e non l’inverso.
Tuttavia, oltre a queste variazioni, pur significative, rispetto ad Os 2,25.1, ciò che sorprende è l’applicazione che, indirettamente, Paolo compie degli oracoli profetici: se per Osea la vicenda narrata in Os 1-2 si riferisce alla prostituzione come paradigma dell’idolatria di Israele e alla consequenziale riaccoglienza nell’alleanza, per Paolo riguarda l’inclusione dei gentili nel popolo dell’alleanza.

41 Per questo argomento ci siamo serviti di alcuni commentari: AA.VV., Le lettere di San Paolo, Paoline, Roma 1978, 318-328; A. PITTA, Lettera ai Romani, Paoline, Milano 2001, 343-404; G. BARBAGLIO, Le lettere di Paolo, Borla, Roma 1980, II, 390-448.

 

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ultimo aggiornamento 18 gennaio, 2008