una pagina di vangelo

a cura di Ermes M. Ronchi

Infelice chi guarda solo a se stesso

 

 

Dal vangelo di Luca 18, 9-14-21:

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola (...): «Due uomini salirono al tempio a pregare (...). Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: -O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo-. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: -O Dio, abbi pietà di me peccatore-. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Gesù, rivolgendosi a chi si sente a posto e disprezza gli altri, denuncia anche a noi i rischi della preghiera: non si può pregare e disprezzare, adorare Dio e umiliare i suoi figli. Ci si allontana dagli altri e da Dio; si torna a casa, come il fariseo, con un peccato in più.

Il fariseo inizia con le parole giuste: O Dio, ti ringrazio. Ma tutto ciò che segue è sbagliato: ti ringrazio di non essere come tutti gli altri, ladri, ingiusti, adulteri.

Non si confronta con Dio, ma con gli altri, e gli altri sono tutti disonesti e immorali.

In fondo è un infelice, sta male al mondo: l’immoralità dilaga, la disonestà trionfa... L’unico che si salva è lui stesso.

Onesto e infelice: chi guarda solo a se stesso non si illumina mai. Io digiuno, io pago le decime, io... Il fariseo è affascinato da due lettere magiche, stregate, che non cessa di ripetere: io, io, io.

È un Narciso allo specchio, Dio è come se non esistesse, non serve a niente, è solo una muta superficie su cui far rimbalzare la propria auto sufficienza.

La felicità dell’uomo non sta nel possedere qualcosa, ma nel cedere se stesso a chi è più grande di lui.

Rabindranath Tagore

Dove non trovi amore, metti amore e troverai amore.

San Giovanni della Croce

Che è un modo terribilmente sbagliato di pregare, che può renderci «atei».

Invece, nel Padre Nostro, modello di ogni preghiera, mai si dice «io» o «mio», ma sempre «tuo» o «nostro». Il tuo regno, il nostro pane. Il fariseo ha dimenticato la parola più importante del mondo: tu.

Vita e preghiera percorrono la stessa strada: la ricerca mai arresa di un tu, uomo o Dio, in cui riconoscersi, amati e amabili, capaci di incontro vero, quello che fa fiorire il nostro essere.

Il pubblicano non osava neppure alzare gli occhi, si batteva il petto e diceva: Abbi pietà di me peccatore. Due parole cambiano tutto nella sua preghiera e la fanno vera.

La prima parola è tu: Tu abbi pietà. Mentre il fariseo costruisce la sua religione attorno a quello che lui fa, il pubblicano la edifica attorno a quello che Dio fa.

La seconda parola è: peccatore, io peccatore. In essa è riassunto un intero discorso: «sono un ladro, è vero, ma così non sto bene; non sono onesto, lo so, ma così non sono contento; vorrei tanto essere diverso, non ci riesco; e allora tu perdona e aiuta».

Il pubblicano tornò a casa sua giustificato, non perché più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l’umiltà), ma perché si apre - come una porta che si socchiude al sole, come una vela che si inarca al vento - a un Dio più grande del suo peccato, vento che fa ripartire. Si apre alla misericordia, a questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua unica onnipotenza.

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ultimo aggiornamento 17 novembre, 2010