vita sacerdotale Roberto Repole
Crisi del prete,
appello per la Chiesa
Uno sguardo
alla situazione
attuale
(
seguito)Un mutamento teologico che incrocia la storia
Su questa stessa scia si rende necessario considerare, più direttamente, il grande mutamento teologico che ha coinvolto il ministero ordinato con l’ultimo Concilio. Il cambiamento avvenuto nell’assise conciliare è così sinteticamente espresso da Castellucci:
Arriva (...) in Concilio il sacerdozio che, avendo come esemplare il presbiterato, si presenta finalizzato essenzialmente all’eucaristia, ed esce dal Concilio il ministero ordinato che, avendo come esemplare l’episcopato, si presenta distinto in tre gradi e finalizzato all’annuncio, alla celebrazione e alla guida pastorale17.
Attraverso questa formulazione sintetica viene evidenziata la doppia fondamentale svolta operata dal Vaticano II: quella di non considerare come effetto del sacramento dell’ordine la sola dimensione sacerdotale, in quanto dal sacramento derivano anche il cosiddetto munus docendi e il munus regendi; quello di non considerare l’episcopato come realtà giurisdizionale, in quanto esso è la pienezza dell’unico sacramento dell’ordine, che esiste in tre gradi. Per realizzare un mutamento così radicale, specie per quel che concerne l’episcopato, il Concilio ha dovuto guardare alla grande tradizione della Chiesa. Infatti, questa nuova impostazione implicava che non fosse «più il filone giurisdizionale, ma quello sacramentale a determinare l’impostazione di fondo della dottrina sull’episcopato». Ma per ottenere tutto ciò era necessario andare ad attingere ispirazione dalla tradizione del primo millennio, più che da quanto si era pensato e scritto lungo il secondo, e dal grande pozzo della tradizione antica il Vaticano II ha attinto acqua fresca, riportando sulla scena la bella e fascinosa immagine di vescovo, che Ignazio di Antiochia, testimone di tempi molto vicini a quelli apostolici, ci ha tramandato18.
Ne consegue che il vescovo non è chiamato a svolgere un ruolo giuridico e di amministrazione, ma un ministero che gli deriva da un sacramento. E un sacramento, com’è ovvio, dice di una relazione a Cristo e di una relazione agli altri cristiani. Ciò viene espresso dal Vaticano II (la cui dottrina sul rapporto tra Chiesa universale e Chiese locali e, di conseguenza, sull’episcopato non è in ogni caso uniforme!), attraverso alcune espressioni estremamente significative. La costituzione sulla liturgia invita tutti a dare «la più grande importanza alla vita liturgica della diocesi intorno al vescovo, principalmente nella Chiesa cattedrale», nella convinzione che si dia «la principale manifestazione della Chiesa» nella partecipazione di tutto il popolo di Dio alla medesima eucaristia presieduta dal vescovo (SC 41). La costituzione sulla Chiesa ricorda, dal canto suo, come i vescovi con la loro predicazione del vangelo «portano a Cristo nuovi discepoli» (LG 25). A proposito del loro ministero pastorale essa asserisce, inoltre, che in aggiunta all’autorità e la sacra potestà, «i vescovi reggono le Chiese particolari a loro affidate (...) col consiglio, la persuasione, l’esempio» e parla del loro incarico pastorale in termini di «abituale e quotidiana cura del loro gregge», invitandoli a non rifuggire «dall’ascoltare i sudditi» (LG 27).
Si tratta di espressioni che evocano, come è nel modello ignaziano del ministero, un rapporto personale del vescovo con il presbiterio e con la Chiesa; un modello che è possibile realizzare, però, solo laddove il vescovo presieda una Chiesa che non sia enorme, i cui numeri consentano di tessere delle relazioni reali e continue con i cristiani di quella porzione di popolo di Dio19.
Probabilmente un ulteriore motivo di crisi dei preti deriva proprio dal fatto che, a questo ripensamento del ministero che vede nell’episcopato la pienezza del sacramento dell’ordine, non corrisponde, normalmente, una figura di Chiesa confacente, come era al tempo di Ignazio di Antiochia. I confini delle diocesi, infatti, non consentono normalmente, da parte del vescovo, il tipo di relazione sopra evocato. Ciò porta, molto spesso, a situazioni in cui sono i preti che, nei fatti, hanno quella reale cura delle persone di cui si parla a proposito dei vescovi; mentre i vescovi non possono fare altro che rendersi presenti nell’unico modo possibile laddove i numeri sono troppo elevati, ovvero quello burocratico-amministrativo. Come afferma Severino Dianich:
le indagini che di quando in quando si fanno testimoniano la scarsa incidenza del vescovo nella vita spirituale dei fedeli, i quali si professano determinati nel cammino della loro fede molto più dal ministero dei loro preti e da quello del papa, che da quello del loro vescovo. La convinzione più diffusa, nonostante tutto, resta quella del vescovo detentore semplicemente di un ruolo di direzione e di amministrazione della Chiesa locale20.
Ma, con una tale alta e profonda teologia ‘alle spalle’, è normale che il prete nutra nei confronti del vescovo grandi attese che, per i motivi sopra detti, rischiano spesso di risultare disattese, creando una certa frustrazione. E, dato il contesto in cui questa proposta teologica si incarna, nulla sembra essere più normale, inoltre, che il prete si trovi, nei fatti, a svolgere un ministero che ha il sapore più della diretta e immediata responsabilità delle persone a lui affidate e meno della collaborazione e dell’aiuto all’ordine episcopale, come invece richiama Lumen gentium 28; e che, infine, possa percepire il legame con il vescovo tendenzialmente in termini amministrativi e freddi invece di sentirsi, come afferma Christus Dominus 28, membro di «un solo presbiterio e una sola famiglia, di cui il vescovo è il padre». Ciò è evidentemente tanto più accentuato quanto più grande è la Chiesa locale di appartenenza.
Sembra, dunque, che un motivo della crisi del clero possa risiedere anche nella difficile armonizzazione tra le prospettive teologiche e le strutture in cui esse, di fatto, si incarnano: qualcosa, insomma, che richiama le contraddizioni, sopra descritte, connesse alla fine della cristianità, che si accentuano ancora di più quando si consideri che questa visione teologica è soggetta, come è normale che sia, a una interpretazione che risente della cultura in cui viviamo. Una cultura che, rifuggendo dalle grandi ideologie, finisce per avere continuamente bisogno di mitizzare qualche personaggio. È ciò che accade nella politica; ed è quanto avviene in altri mondi, come quello dello spettacolo o dello sport. Ma è qualcosa che può insinuarsi anche nella interpretazione del ministero ordinato. La teologia richiama la centralità del vescovo, in quanto si ha in lui la pienezza di un sacramento che conforma a Cristo; ma la cultura si insinua con la sua tentazione di leggere questa realtà nella logica dei personalismi e della ‘mitizzazione dei personaggi’ che caratterizza questa nostra epoca, favorendo l’idea che ci sia totale equazione tra vescovi e Chiesa.
La tendenza, pur in misura diversa, colpisce direttamente gli stessi preti. Capita sempre più spesso che alcuni preti escano dall’anonimato o vengano fatti uscire da esso, ritagliandosi ruoli che hanno un certo appeal mediatico o venendo interpretati nel loro ministero e nelle loro iniziative secondo canoni mediatici. Tutto ciò può però provocare, nella stragrande maggioranza del clero, fatta per lo più di preti che si sforzano di vivere con serietà e impegno il ministero nelle ‘normali’ situazioni di vita ecclesiale, una certa fatica a percepire di far parte di un soggetto collettivo, quale è chiamato a essere il presbiterio21; e quale è chiamata a essere, ad altro livello, la stessa Chiesa. E questo non può che ingenerare, in molti, un certo senso di isolamento e deleteria solitudine.
In prospettiva
In che senso gli aspetti critici del ministero del prete che abbiamo analizzato possono rappresentare un appello per la Chiesa e per gli stessi preti?
Probabilmente in diversi modi. Alcuni di essi sono più o meno esplicitamente emersi da quanto detto sinora. Si pensi alla necessità che i preti vengano coinvolti in una reale condivisione della ‘visione’ e ‘missione’ della loro Chiesa (per esempio, avendo cura che non siano snaturati gli organismi di partecipazione e che i preti possano realmente esprimere quanto pensano ed elaborano a partire dalla loro esperienza pastorale); o all’importanza di escogitare il modo in cui il prete possa percepire di essere realmente parte di un tutto, del presbiterio, e non elemento isolato di un insieme di individualità a se stanti. Si consideri anche l’urgenza di ripensare, in un modo paziente ma realmente condiviso da tutti (vescovo, preti e laici), la figura ecclesiale nell’orizzonte della fine della cristianità; e l’importanza che i preti si percepiscano responsabili, per quel che è loro possibile, dei conseguenti cambiamenti ecclesiali oggi richiesti dal nuovo modello culturale. Mi paiono, tuttavia, particolarmente urgenti due elementi che chiedono una risposta.
Il primo consiste nel fatto che la crisi attuale sembra un’occasione per riconsiderare come il ministero ordinato, e quello presbiterale in specie, non esista in vitro, al di fuori di determinate coordinate storiche e di una Chiesa immersa, essa stessa, nella storia. La crisi rappresenta quindi un invito a discernere in maniera attenta la modalità con la quale la realtà teologica del ministero possa trovare la sua realizzazione e concretizzazione più propria, affinché si attualizzi ciò che essa rappresenta per la Chiesa. Si tratta di un invito a cui non può sottrarsi la Chiesa nel suo insieme; e a cui non debbono e non possono sottrarsi i preti, per quel che concerne la loro parte. L’obiettivo può essere colto, anzitutto, non negando i problemi o interpretandoli in modo ‘spiritualistico’; e che potrà richiedere sforzi di coraggio e intelligenza, uniti a pazienza e prudenza, per ripensare in questo nostro oggi una modalità di ministero che non arrivi a sacrificare proprio ciò che di più profondo e vitale esso rappresenta per la Chiesa. In questo può essere salutare sapere che ogni ri-comprensione del ministero domanda di ritornare al Nuovo Testamento; dove peraltro si registra una sovrapposizione della figura presbiterale e di quella episcopale che, proprio attraverso questa interferenza dei temi, tiene costantemente aperta la riflessione anche circa il rapporto tra episcopato e presbiterato22.
Ma c’è, infine, un secondo appello che si può raccogliere dalla crisi così come la si è letta e decodificata sopra. Se è vero che un motivo di crisi potrebbe consistere nella tentazione, proveniente dall’esterno e dall’interno della Chiesa, di interpretare l’alta teologia del ministero offertaci dal Vaticano II secondo la tendenza a mitizzare le persone, tipica della cultura contemporanea, ne deriva il dovere per la Chiesa tutta, e per i vescovi e i preti in specie, della resistenza. Il ministero non può che esistere nella storia e all’interno della cultura; ma non si può prestare a che venga ‘battezzata’ in toto una storia e una cultura, senza rappresentare per esse, con la sua stessa esistenza, un ‘segno di contraddizione’. Il ministero esiste, tra il resto, per orientare a Cristo, quale unico Signore; e per edificare, proprio per questo, un soggetto collettivo quale è la Chiesa. Nulla di più lontano da esso, dunque, che la creazione di personaggi mitici. Forse non è un particolare così irrilevante, che può far pensare anche oggi, il fatto che «i vescovi dell’epoca subapostolica, diceva Konidaris, si presentavano con il solo nome, senza particolare menzione del loro ruolo e titolo. Dei presbiteri neppure questo sappiamo, o i pochi nomi che abbiamo sono praticamente nuda nomina»23.
17 E. Castellucci, Il ministero ordinato, cit., p. 210.
18 S. Dianich, Teologia dell’episcopato e prassi ecclesiali, in M. Qualizza (a cura di), Il ministero ordinato. Nodi teologici e prassi ecclesiali, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2004, pp. 283-315, p. 290.
19 Cfr. S. Dianich, Teologia dell’episcopato e prassi ecclesiali, cit., pp. 289-294.
20 S. Dianich, Teologia dell’episcopato e prassi ecclesiali, cit., p. 284.
21 Citrini ha introdotto una sua recente e molto istruttiva pubblicazione sul tema del ministero, facendo notare come LG 28 esprima, in modo icastico, il riemergere del tema del presbiterio con il Vaticano II e nell’epoca successiva. Cfr. T. Citrini, Presbiterio e presbiteri. I. La vivacità degli inizi (I-III) secolo), Ancora, Milano 2010, p. 7. Un tema che risulta centrale, per altro, proprio nel già citato Ignazio di Antiochia, che tanto influsso ha avuto sul ripensamento del ministero all’ultimo Concilio. Dice Citrini a conclusione della sua indagine sul noto padre apostolico: «Rimane l’evidenza nitida di questo collegio di presidenza, il cui senso e i cui compiti possiamo ritenere affini a quelli che appaiono negli esempi più vicini: gli anziani di Israele, i presbiteri delle chiese apostoliche, a parte ante, i presbiteri della tradizione successiva, a parte post», p. 83.
22 Cfr. T. Citrini, Presbiterio e presbiteri. I., cit., pp. 105-106.
23 T. Citrini, Presbiterio e presbiteri. I., cit., pp. 103-104.
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ultimo aggiornamento
10 febbraio, 2011