pastorale familiare |
Marina Berardi |
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ccendendo il televisore ci si imbatte spesso in interminabili e martellanti annunci pubblicitari. Lo sappiamo tutti e ciascuno si attrezza come può. In attesa che il programma prescelto riprenda, spesso, proviamo a difenderci con una tecnica non meno dannosa, il cosiddetto zapping, e, meraviglia delle meraviglie, anche nelle altre reti… "pubblicità!", magari la stessa che stavamo tentando di evitare.Non essendo esperta nel campo, non sono in grado di fare una lettura accurata dell’immagine, ma desidero condividere alcune riflessioni semplici ed immediate, attinenti la nostra rubrica: la famiglia.
Da qualche tempo a questa parte, una serie di spot hanno attirato la mia attenzione, anche se sarebbe più onesto dire che hanno suscitato in me una vera e propria amarezza e una sorta di indignazione, parola particolarmente in voga in questo periodo.
Mi vado chiedendo, infatti, perché per vendere un’automobile ci sia bisogno di usare il corpo femminile, di denigrare l’amore umano, di svalutare la vita…, insomma, di "dis-prezzare" e, è il caso di dire, di investire e ferire la famiglia.
Donne e motori, un connubio e uno stereotipo antichi quanto il mondo, che mirano a fare mercato, a fare incassi, perché questo è quello che interessa, a qualsiasi prezzo, anche svendendo e negando il valore più autentico della persona umana e quello della prima cellula della società.
Da un po’ di tempo a questa parte, mi sembra che la pubblicità si sia spinta oltre, enfatizzando una relazione uomo-donna finta ed effimera, proponendo un rapporto disimpegnato, avulso da ogni responsabilità, fino a banalizzare i gesti più intimi che una coppia è chiamata a vivere all’interno della relazione coniugale e nell’ambito familiare.
Una nota marca automobilistica, per il lancio, ha scelto di usare, riferendoli alla macchina, i termini propri del corpo umano e i gesti della seduzione come, stringimi, toccami, amami… Un messaggio per molti accattivante, che fa leva sull’esaltazione del corpo, sulla massimizzazione del piacere, su un dilagante analfabetismo affettivo, su una povertà di valori che impedisce di cogliere la reale differenza tra una cosa e una persona, che impedisce di pensare in modo critico, di scegliere.
Purtroppo, non è l’unica pubblicità.
Immagino che molti ricorderanno quella di un altro noto marchio automobilistico, dove un uomo ed una donna si fermano, spensierati e quasi casualmente, davanti ad una vetrina che vende prodotti per bambini. Mentre la telecamera si attarda su biberon, scarpette e berrettini, lei dice a lui: "Sai cosa mi piacerebbe?", con la chiara allusione al desiderio di un figlio. Immediatamente, il volto di lui cambia aspetto, diventa preoccupato, impaurito per un figlio che già sente piangere e che vede plasticamente ritratto nel manichino che è in vetrina. È un attimo; è lei a toglierlo dall’imbarazzo nello svelargli l’oggetto del suo desiderio: "Le scarpe che indossa la commessa!". L’occhio magico del regista fa il resto con uno zoom su un paio di decolté rosse. "TUTTO IL RESTO PUÒ ASPETTARE", prosegue una voce fuori campo e una scritta in sovrimpressione, mentre lui, rilassato e felice per lo scongiurato pericolo, è alla guida della macchina reclamizzata.
È proprio vero che l’essenziale nella vita di una coppia sia possedere un’automobile e che a questo vada subordinata ogni cosa, ogni scelta, per essere felici?
Gesù la pensa diversamente e ci indica un’altra strada, sicuramente più stretta ma anche più vera perché profondamente rispettosa del grande valore dell’esistere e dell’amore (cf. Lc 12, 22-31). Partendo dalla constatazione che nessuno di noi può aggiungere un’ora sola alla sua vita, Gesù ci invita a riflettere: "Se dunque non avete potere neanche per la più piccola cosa, perché vi affannate del resto?".
Mi domando: se riferendosi ai bisogni primari dell’essere umano come il cibo ed il vestire, Gesù esorta: "Non state con l’animo in ansia: di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno", cosa direbbe a chi lega la propria felicità al superfluo?
La strada è una sola: cercare il regno di Dio e tutto il resto ci sarà dato in aggiunta. Dovremmo essere cercatori dell’amore autentico, quello che non può aspettare, quello che apre al dono, alla vita, alla comunione, alla santità.
Il S. Padre, Benedetto XVI, in un discorso del 15 ottobre, ha detto che "l’uomo contemporaneo… non di rado, viene allontanato dalla ricerca dell’essenziale nella vita, mentre gli viene proposta una felicità effimera, che accontenta per un momento, ma lascia, ben presto, tristezza e insoddisfazione", che lascia nella solitudine.
Come già scrivevo nell’articolo precedente, un amore fine a se stesso non è amore. Un tale "amore" è destinato a morire dentro una pseudo relazione che mette insieme due solitudini ma che non giunge mai alla comunione, è destinato ad alimentarsi di egoismo e di pretesa senza mai aprirsi allo stupore, alla gratuità, alla gratitudine.
Se quello proposto negli spot televisivi riteniamo che sia il modello di famiglia più attraente da proporre ai giovani e con il quale vorremmo che si identificassero, c’è da augurarsi che prima o poi, noi cosiddetti adulti, sappiamo rientrare in noi stessi per un serio esame di coscienza circa il senso della vita e ciò che in essa è veramente essenziale, per offrire alle nuove generazioni modelli più autentici e credibili.
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ultimo aggiornamento
09 novembre, 2011