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Paolo Risso |
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ampagna di Francovà Lhota, in Moravia orientale. Famiglia di umili contadini. Cattolici che amano Gesù, la Madonna, il Papa. Il 26 marzo 1905, vi nasce un bambino. Al battesimo, lo chiamano Stephan, un nome molto amato nella sua terra. Ecco: Stephan Trochta, che nel futuro avrà molto da soffrire e saprà indicare Gesù, come unico Amato. Dopo di lui, nascono due fratelli, che gli saranno assai affezionati, per quanto farà per loro.Sulle orme di don Bosco
A 8 anni perde il papà. Lui pensa già a farsi prete. Ma come sarà possibile? Gesù che lo chiama, lo aiuta e gli apre la via. Al termine delle elementari, sebbene tra molte difficoltà entra in seminario della sua diocesi e inizia gli studi. Sempre disposto al sacrificio e alla rinuncia, cresce con un carattere forte e deciso: Gesù, Gesù crocifisso al centro di tutto. Pronto a tutto per Lui.
La sua mamma, che lavora da sola per provvedere ai figli, si ammala di tubercolosi e deve stare a letto. Stephan esce dal seminario e prende in mano la cura della famiglia: coltiva il piccolo podere, accompagna nella crescita la sorella e il fratello ancora piccoli. Tempi difficilissimi per la sua patria e per l’Europa durante la 1ª guerra mondiale. Ancora più duri per i piccoli Trochta.
Due anni così, senza toccare i libri: "Mi rincresceva – dirà un giorno – perché ormai ero incamminato verso il sacerdozio e desideravo diventare sacerdote di Gesù. Ma la cosa, praticamente, per il momento era impossibile. Dio però avrebbe provveduto come Lui solo può".
In questo periodo, Stephan legge – per caso – un articolo sulla vita e le opere di don Bosco, in particolare un breve annuncio pubblicato su una rivista salesiana, in cui si parla di un istituto a Perosa Argentina (Torino). Scrive a quell’Istituto e ne riceve, in breve, una gentile risposta, in cui era invitato a pregare la Vergine Ausiliatrice dei cristiani.
Il giovane prega la Madonna. La mamma comincia a migliorare di salute e un giorno gli dice: "Mi dispiace che tu abbia interrotto gli studi in seminario per accudire a me e alla nostra famiglia. Ma ora, se vuoi andare da quei Salesiani, va’ pure. Io riuscirò a farcela con l’aiuto dei tuoi fratelli, che ormai sono abbastanza cresciuti".
Scrive un’altra volta ai Salesiani, i quali gli dicono di venire. Verso l’autunno del 1923, Stephan parte per l’Italia. Un lungo viaggio in treno verso l’Italia: è solo e lo accompagna soltanto Gesù. Ha 18 anni: una vita davanti da spendere per Lui, Gesù solo, sulle orme di don Bosco.
A Vienna ha un incidente: viene derubato dei pochi soldi che la mamma gli ha dato, e tuttavia, privo di tutto, riesce ad arrivare fino a Mestre, dove si ferma in stazione, senza più soldi per continuare, ma deciso a non tornare a casa.
Se ne sta lì con le valigie, quando si avvicina un ufficiale italiano: era stato in guerra, era stato prigioniero e capisce la lingua di Stephan: "Che cosa fai lì fermo?". "Devo andare a Torino". "E allora perché non metti le valigie nel bagagliaio?". Stephan si vergogna a dirgli che è rimasto senza un soldo in tasca. L’ufficiale, molto buono, capisce al volo e gli dice: "Vieni con me, faremo colazione insieme".
L’ufficiale gli paga il caffè, un panino ben farcito. Stephan gli racconta chi è e che cosa fa e perché si trova lì, e pure la disavventura capitatagli a Vienna: "Voglio arrivare a Torino… per farmi sacerdote e salesiano". Quello ascolta commosso e gli paga il treno da Mestre a Torino. "Così – dirà un giorno – sono arrivato dai Salesiani".
Sacerdote in prima linea
A Torino, all’ombra dell’Ausiliatrice, là dove Bosco ha lanciato la sua opera, Stephan ventenne compie gli studi filosofici. Passa a Roma, all’Ateneo Salesiano per la Teologia. Il Rettor maggiore, in quel tempo, è don Filippo Rinaldi (oggi "beato"), una "creatura" di don Bosco; altri suoi confratelli, un po’ più anziani di lui, sono cresciuti alla scuola diretta del "Padre e Maestro della gioventù". Prova una grande gioia, nel 1929, quando don Bosco è beatificato: sarà il suo modello di vita e di sacerdozio. A pieni voti, si laurea in filosofia e teologia.
Finalmente, nel 1932, don Stephan Trochta è ordinato sacerdote: ha 28 anni e sente che è giunta davvero l’ora di spendersi tutto per Gesù e per i giovani. Animato da questo spirito, subito rientra in patria e diventa uno dei fondatori dell’opera di don Bosco per la formazione cristiana-cattolica della gioventù in Boemia e Moravia. Dapprima, è professore di filosofia a Frystak, quindi si trasferisce a Ostrava, centro industriale della Moravia settentrionale, con molte miniere ed altiforni, dove lavorano numerosi giovani operai.
Don Stephan a Ostrava fonda un’opera sociale per la gioventù operaia: quei ragazzi si sentono protetti nei loro diritti, sostenuti nel loro lavoro e sostenuti dall’amicizia con il divino Lavoratore: Gesù! Poco dopo, a Praga, fonda e organizza la "Casa dei giovani". Esperto di problemi giovanili e di questioni sociali, don Trochta, presto diventa una personalità di primo piano nella vita cattolica del suo Paese: è oratore ricercato, che sa trattare i problemi della vita e della società con competenza, sempre alla luce di Gesù Cristo. Come se non avesse già abbastanza lavoro, è chiamato a diventare assistente generale degli Esploratori cattolici, gli "scouts". Nel 1939, prende parte ai lavori del Comitato nazionale per organizzare la gioventù in Boemia e in Moravia.
In mezzo a tanti impegni don Stephan porta la preghiera e il rapporto intenso con Gesù, il Rosario all’Ausiliatrice, assicurandosi la Grazia del Signore, ricordando ciò che raccomandava don Bosco, quando citava Gesù: "Senza di me, non potete far nulla" (Gv 15, 6).
Ma nell’autunno 1939, soffia vento, uragano di guerra: la 2ª guerra mondiale. La Cecoslovacchia è invasa dai nazisti di Hitler. Il nome di don Trochta finisce nella lista di cento persone più influenti di Praga che gli occupanti hanno deciso di far sparire per prevenire possibili opposizioni. Così nel 1940, subisce lunghi e umilianti interrogatori dalla polizia nazista e nel 1942 viene deportato prigioniero nel campo di concentramento di Terzin, e subito dopo a Dachau.
Lì si trova in mezzo a tremila preti prigionieri, che ogni mattina "contemplano" un alto e nero camino che fuma in continuazione: davanti sono accatastati decine e decine di cadaveri in attesa del forno crematorio, insomma lì c’è altissima facilità di uscire "solo dal camino". In mezzo al lavoro disumano e alle torture degli aguzzini, nel campo di concentramento, la fede in Gesù e la devozione alla Madonna, la compagnia dei fratelli sacerdoti, la santa Comunione che può ricevere ogni mattina da un solo sacerdote cui è consentito celebrare il Santo Sacrificio della Messa, lo sostengono in mezzo alla "fossa dei leoni" di Dachau.
Nei primi giorni dopo il suo arrivo al lager, un detenuto, intento al trasporto di materiale, lo chiama: "Dammi una mano a tirare la carretta". Si mette subito anche lui alle stanghe e comprende che "l’altro" è don Beran, rettore del Seminario teologico di Praga. Diverrà Vescovo e Cardinale: anche in seguito avrebbero "tirato la carretta insieme".
Nei registri del lager di Dachau, il nome di Trochta viene segnato con la sigla "R U" (Ruckehr unerwunscht), che significa "ritorno indesiderato", qualifica che nel gergo poliziesco significa condanna a morte. Viene così addetto ai lavori più pesanti, aggregato a gruppi destinato a essere eliminati.
Ma tra le sofferenze inaudite e le torture il detenuto Trochta rivelò la forza e la nobiltà di un sacerdote cattolico di altissima fede e dignità, arricchito ogni giorno dallo Spirito Santo del dono della fortezza più eroica. Alla vigilia di Natale del 1943, viene trasferito al lager di Mauthausen. Prima di partire vuole organizzare una piccola "festa" ai suoi compagni di prigionia, per sollevarli nello spirito. Scoperto, viene battuto in volto, con una frusta di fili di ferro, ma non desiste dall’augurare buon Natale ai suoi compagni di prigionia.
A Mauthausen, pur essendo di complessione grande e robusta, la sua salute si sgretola. Un aguzzino, vedendolo ormai sfinito, gli spara a brucciapelo "per liberarlo da una lunga agonia". Ma don Stephan non muore. Ripresi i sensi, già si trova su un carro di cadaveri avviati al forno crematorio. Ma pure gravemente ferito, riesce a lasciarsi scivolare sul ciglio della strada. Un medico del campo, lo trova e, sapendo che è un sacerdote cattolico, lo cura e gli salva la vita.
Nel 1945, alla fine della guerra, ritorna nella sua patria. A Praga, dagli amici (oh quanti!) si trova accolto con lo stupore riservato ai risorti. Ai suoi compagni di prigionia, a quelli che ora ritrova in vita, dopo l’immane sciagura, fa un dono unico, incomparabile: Gesù Cristo e con Lui, una cascata di letizia e di coraggio.
"Azione, Sacrificio, Carità"
Praga è un cumulo di rovine. I sopravvissuti vivono nella miseria più nera, in baracche, in cantine. Manca tutto. Ed ecco, che un’altra terribile disgrazia si abbatte sulla sua povera patria: l’Armata Rossa, di Stalin, occupa il territorio nazionale, con l’intento – è evidente – di stabilire subito la dittatura comunista, come in Unione Sovietica.
Il 29 settembre 1947, il Santo Padre Pio XII nomina don Stephan Trochta, Vescovo di Litomerica, la diocesi più devastata della Boemia. Il seminario è distrutto, il 70 per cento delle parrocchie sono senza sacerdoti. Mons. Trochta, senza lamentarsi, si mette al lavoro, nello stile del motto scelto alla sua consacrazione episcopale: "Actio, sacrificium, caritas". Azione, sacrificio e amore. Ha 42 anni, ed è un capo nato: in un anno riapre il Seminario, ricostruisce l’Azione Cattolica, inizia la visita pastorale in tutta la diocesi per rendersi conto de visu delle rovine e provvedere al meglio.
Lavora con in "terra di missione". Subito si guadagna il cuore dei suoi pochi sacerdoti e del suo popolo. Uno dei suoi preti, tra i più vicini, dirà: "Sapeva parlare a ciascuno in modo da farsi capire. Sentiva il punto di vista anche dei più semplici…. Sempre lieto. Aveva una vita interiore, un rapporto con Gesù Cristo, molto intenso".
Nel 1949, inizia la lotta dello stato comunista, sempre prevaricatore, contro la Chiesa Cattolica. Mons. Trochta rinsalda l’Azione Cattolica e prepara i suoi preti allo scontro con i senza-Dio. Ed eccolo di nuovo arrestato dai "liberatori di falce e martello". Gli viene proibito di esercitare le sue funzioni spiscopali e per tre anni tenuto agli arresti domiciliari nella sua sede. Ma nel gennaio 1953, è trasferito nel carcere di Ruzin, dove dopo 19 mesi, viene condannato a 25 anni di prigionia. I "delitti" di cui è incolpato sono i soliti, ad opera dei comunisti: spionaggio per il Vaticano e la fondazione di un circolo cattolico, sempre illegale per i "rossi".
In realtà, egli, personalità di primo piano, nella nazione, doveva sparire, perché sacerdote e Vescovo di Gesù Cristo: "in odium Christi". Leopoldov, Ruzin, Pankrac, Kartouzy sono le tappe dove sconta i suoi "delitti", una vera "via Crucis", a immagine di Gesù. Nel 1960, viene graziato e obbligato a trovarsi un lavoro manuale. Trova lavoro come manovale muratore, come addetto alla manutenzione di ascensori e di impianti igienici. Ma lui sa che è sempre il Vescovo di Litomerice. Ridotto in questo "stato" di schiavitù, tuttavia non si arrende e fa quello che può per i suoi preti e per la sua diocesi.
Nato a portare la croce
I comunisti al potere, così "democratici", gli negano ogni permesso di recarsi a Roma in visita al Papa. Quando per le sofferenze subite, a causa di nazisti e comunisti ("diversi suonatori con la stessa musica!") è colpito da infarto, può essere ricoverato solo in una casa di carità della Boemia. Il 2 agosto 1968, dopo 18 anni di assenza, può riprendere il governo della sua diocesi: rientra nella sua Litomerice la sera del 20 agosto: in quella stessa notte, avviene l’invasione sovietica della sua patria!
Il 1° settembre 1968, sale sul pulpito della sua cattedrale: "Molti voi – dice – li vedo per la prima volta, benché io sia il vostro Vescovo da 21 anni. Ho passato anni terribili. Ho visto il fondo della malvagità umana. Ma Gesù Cristo è il nostro Redentore, oggi e sempre. Perseguitati torniamo con coraggio a essere apostoli di Gesù Cristo". Nel 1969, Papa Paolo VI lo nomina Cardinale, ma tiene nascosta "in pectore" la sua nomina.
Solo il 5 marzo 1973, può pubblicare la sua elevazione alla porpora che Mons. Trochta riceve il 12 aprile, mentre accoglie l’elogio del Papa alla sua vita di martire di Gesù Cristo. Lui risponde al Papa dicendo: "Tocca a noi diventare nella gioia, come ha detto S. Teresina del Bambino Gesù, un giocattolo docile nelle mani del Signore, pronti a ogni sua chiamata". Vive ancora un anno, il Card. Stephan Trochta, riempiendo quella manciata di giorni di amore senza limiti a Gesù e alla sua Chiesa. A 69 anni, consumato dalla sua lunga offerta, nato davvero per portare la Croce, se ne va al premio riservatogli da Gesù, amato da lui sino al culmine.
Davvero la porpora sulle sue spalle, come quella di Mindzenty, di Stepinac e di Beran, era stata una porpora di sangue: solo Dio sa quanto feconda per le anime.
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ultimo aggiornamento
11 maggio, 2012