leggevo una pagina di Madre Speranza. C’è mistica,
c’è desiderio, c’è contemplazione: "Dove sta il mio
Dio, il Dio del mio cuore, in modo che io possa sentire
e godere della sua presenza?".
È il gemito della sposa del Cantico: "Dov’è il mio
amato? Mi alzerò e farò il giro della città, per le
strade e per le piazze, voglio cercare l’amato del mio
cuore...".
Bisogno inguaribile, domanda inesausta di Lui. Ma anche
ritovamento, possesso, mistero. Profeticamente, Baruc
aveva annunciato: "Fu visto sulla terra e conversò
familiarmente con gli uomini".
Un Dio vicino, da condividere. L’antichità l’aveva
capito, e però l’ardente fantasia degli antichi non
aveva saputo immaginare altro connubio tra la divinità e
l’uomo che quello conveniente alle sue stesse passioni.
Al fondo della filosofia, dei riti, delle religioni,
stava un abisso di indifferenza e di impotenza: «Nessun
Dio si è mai unito agli uomini».
Venne Cristo e fece dell’impossibile una realtà.
Sgomentatrice, imprevedibile, sconvolgente realtà di un
Dio che realizza una consanguineità con l’uomo, di un
Dio che assimila l’uomo a se stesso, che dà all’uomo,
sin da questa terra, il senso anticipato della
resurrezione, della gloria. San Paolo dirà: "Vivo io, ma
non sono io che vivo, è Cristo che vive in me".
L’impossibile diventa presenza. Dio è qui, pane e sangue
della mensa, pronto al desiderio dell’uomo, ad essere
con l’uomo, "dentro" ogni uomo. Come non impazzire?
Capisco la vertigine dei santi, delle anime amanti di
Dio, lo stupore di Madre Speranza, che ripete: "L’amato
è qui". Che interpella tutti noi: "Perchè non vi
smarrite in santo deliquio d’amore pur ricevendo ogni
giorno il Corpo del nostro Dio? perchè i nostri occhi
sono chiusi e oppressi da una strana forza che ci
impedisce di riconoscerlo?".