esperienze  
 

Paolo Risso

"Il confessore di Roma":

P. Felice Cappello

Di lui, mi parlava spesso don Angelo Fasolino, il mio padre spirituale, che era stato suo allievo alla Gregoriana tra il 1945 e il ’47. Di lui, lessi il profilo quando morì nel 1962, su una buona rivista, quindi la bella biografia scritta dal suo confratello P. Domenico Mondrone. Mi è sempre apparso come un padre e un maestro e vorrei averlo avuto anch’io come guida, ma sono lieto delle guide che ho avuto.

 

I suoi giorni

Felice Cappello nasce l’8 ottobre 1879 a Caviola, una frazione di poche case nel comune di Falcade (Belluno), nel cuore delle Dolomiti, a metà strada tra Bolzano e Udine, penultimo di dieci figli di Antonio Cappello e Bortola Bortoli. La sua famiglia è imparentata con i Luciani di Canale d’Agordo, nella stessa provincia, da cui nel 1912 sarebbe nato Albino Luciani, il futuro Patriarca di Venezia e Papa Giovanni Paolo I. Se guardi le loro foto, vedi quei due cugini si rassomigliano.

Finita la scuola elementare e le prime 3 classi del ginnasio, Felice nel 1895 comincia gli studi nel seminario vescovile di Feltre, per il corso detto allora di filosofia, e nel 1897, passa al seminario maggiore di Belluno. È intelligente, molto impegnato negli studi e il suo profitto è brillante. Soprattutto nel suo stile umile e schivo, appare un grande appassionato di Gesù, al Quale vuole rassomigliare in tutto.

Il 20 aprile 1902, don Felice è ordinato sacerdote diocesano e mandato viceparroco a Castion e a Sedico. Ma lui continua nello studio, senza trascurare il ministero sacerdotale. Si alza presto al mattino, elimina il riposo, prolunga le veglie alla sera. Così nel 1904, si laurea in teologia alla Facoltà di Bologna, nel 1905, in filosofia alla Accademia di S. Tommaso a Roma, nel 1906 in utroque jure all’Apollinare di Roma.

Negli stessi anni, con l’impegno di irradiare la luce di Gesù nelle anime, a cominciare dai sacerdoti, don Felice collabora con articoli al settimanale di Belluno "La domenica". Non gli manca la vis polemica per far risaltare la Verità così che una volta, in un scritto definisce Garibaldi, "il bandito di Caprera" (rischiando un processo in tribunale). Scrive due opuscoli, in cui, si fa portavoce di un impegno dei cattolici in prima persona nella vita politica in difesa della Verità, del bene comune, a servizio delle classi più umili. I suoi scritti hanno un’ampia diffusione e suscitano vivaci dibattiti.

In seguito alle sue lauree, nel frattempo, a partire dall’anno accademico 1905/1906, a don Felice viene assegnata la cattedra di Diritto Canonico nel seminario di Belluno. Presto, da quelle lezioni ne verranno le Istitutiones iuris publici ecclesiastici, un’opera pubblicata nel 1910 presso Marietti. Da quell’anno le sue pubblicazioni seguono quasi a catena di anno in anno. È subito conosciuto come un maestro del Diritto canonico, che lui intende come indispensabile servizio per la salvezza delle anime. A tal fine, la Chiesa pure governa (non solo dà pie indicazioni senza costrutto, come qualcuno vorrebbe!) e pertanto essa abbisogna di Leggi giuste e di Legislatori giusti.

Nel 1910, don Felice giunge a Roma dove viene accolto al Seminario lombardo, quindi al Pontificio Collegio leonino. Continua a scrivere, intraprendendo diversi lavori, utili a se stesso e ai fratelli, soprattutto ai confratelli nel sacerdozio: ripetitore, epitomatore nei casi di morale e di diritto a S. Giovanni in Laterano. Siamo al centro del grande Pontificato di S. Pio X (1903-1913), il Papa che volendo "ricapitolare tutto in Gesù Cristo" (instaurare omnia in Christo), ha preso la decisione di codificare e rivedere l’intero Diritto Canonico: sì, la Legge per Gesù e per le anime.

Il Nostro, da S. Pio X riceve un influsso potente, da tale ispirazione cristocentrica e pastorale: il Diritto non solo come orientamento astratto, ma come manifestazione della vita della Chiesa, la cui giustizia, il cui governo intende non solo legare, ma promuovere i fedeli alla genuina libertà dei figli di Dio. Il Santo Pontefice già sa di don Felice, perché La civiltà cattolica, la allora prestigiosa rivista dei Gesuiti, ha scritto di lui e il suo direttore P. Salvatore Brandi ne ha parlato con il Papa stesso.

 

Il suo magistero

Al di là del Tevere c’era, in via di Ripetta, il collegio dei redattori de La civiltà cattolica, e lì lo aveva preso a seguire con ammirazione e simpatia, il famoso Padre Rosa S.J., che in quei giorni correggeva le bozza dell’ultimo volume della Storia della Chiesa del Card. Hengeroether da lui tradotta. Due anni dopo, don Felice pubblica un altro volume dal titolo Le relazioni Stato-Chiesa nell’ora presente, libro in cui ipocrisie, offese, soprusi perpetrati dal governo italiano contro il Cattolicesimo e il suo Capo, il Papa, sono apertamente denunciate.

Un gran successo, ma don Felice Cappello, a contatto della Compagnia di Gesù, in particolare del P. Rosa, si interroga se diventare religioso, lui che da quasi 12 anni era sacerdote diocesano. In quel periodo, nonostante la sua eccezionale preparazione, ha alcune delusioni e ne prova una grande amarezza. Decide di fare un pellegrinaggio a Lourdes per chiedere alla Madonna che cosa volesse da lui. Già aveva parlato con P. Rosa, di vocazione religiosa, anche alla Compagnia di Gesù, ma don Felice non era riuscito a risolversi, perplesso per i suoi 34 anni di età e dalla lunghezza e dal rigore che gli presentava il lungo noviziato.

A Lourdes la Madonna gli concede la grazia della decisione: lascia da parte benedettini e camaldolesi e dopo una notte di preghiera alla Grotta delle apparizioni mariane, si orienta alla Compagnia di Gesù. In seguito, dirà che aveva scelto i Gesuiti perché il loro ordine era stato il più perseguitato dai nemici della Chiesa. Da Lourdes, con un telegramma al P. Turchi, chiede di essere ammesso.

È ancora novizio e già i superiori della Compagnia di Gesù lo mandano a insegnare teologia morale e diritto canonico al Pontificio Collegio Leoniano di Anagni, per farlo passare, nel 1920 alla Pontificia Università Gregoriana, dove svilupperà un lungo magistero di parola e di azione e di vita fino al suo ottantesimo compleanno nel 1959.

Occupando la prestigiosa cattedra universitaria, P. Felice Cappello diventa un giurista e un docente di fama internazionale, e autore di numerose e poderose opere, seguito da allievi ai gradi accademici, da futuri pastori d’anime, molti dei quali saranno chiamati a diventare Guide delle anime (come il mio "padre spirituale", don Angelo Fasolio) e Vescovi a capo di diocesi come Successori degli Apostoli. Porteranno con sé il fascino sacerdotale e la passione di governo e di santificazione del loro Maestro insigne alla Gregoriana.

Ma la notorietà di P. Cappello gli deriva soprattutto dal fatto dell’aver trascorso 40 anni come confessore e padre delle anime nella chiesa di S. Ignazio a Roma. Il suo confessionale era assediato da lunghe file di anime alla ricerca del perdono di Dio e dell’orientamento verso la santità, da questo singolare, dotto e santo Sacerdote, tutto di Dio, tutto Verità e Misericordia, la Misericordia mai disgiunta dalla Verità e dalla conversione, la misericordia di Gesù che dice sì: "Va’ in pace", ma anche: "Non peccare più". La Misericordia, la conversione che lui stesso sapeva ottenere da Dio per le anime, con la sua preghiera incessante, con il suo spirito di penitenza, con l’offerta a Dio di tutto se stesso, in conformità e totale configurazione a Gesù.

I suoi "penitenti" (c’erano umili persone del popolo, intellettuali, politici, sacerdoti e Vescovi tra questi e sempre in crescita), spesso andavano ad aspettarlo alla porta della Gregoriana… Un poliziotto, suo amico, si assunse il compito di "disciplinare il traffico". Questo diventò quasi "buffo", e lo seppe Roma e il mondo, ma solo Dio sa quante conversioni, quante mirabili storie di amore P. Cappello ha intessuto in confessionale, e non solo, anche per la strada, su un autobus, in qualsiasi luogo incontrasse un’anima, tra Gesù e le anime, quante vocazioni abbia dato alla Chiesa.

Capitò così che San Padre Pio da Pietrelcina, assediato al confessionale tutta la giornata per più di 50 anni, ai romani che andavano da lui, rispondeva: "Uagliò, e che vieni a fare da Roma, fin qua? Perché non vai da P. Cappello a confessarti, che sta nella tua città?". C’è una miriade di storie d’amore, anzi di "fioretti", che P. Cappello ha operato ed è impossibile narrarne almeno qualcuno. Si legga la bella biografia scritta da P. Mondrone e se ne sentirà l’incanto e si dovrà pregare: "Signore, donaci dei sacerdoti, dei confessori così, e null’altro!".

Tutto questo perché? Era soprattutto un uomo di Dio. Chi l’ha conosciuto ricorda: «Ogni mattina verso le 5,30 si vedeva in cappella (presso la Gregoriana), a pregare a lungo, prima della S. Messa, e dopo protraeva il suo ringraziamento per una buona mezz’ora. Era solito dire che "la preghiera è insostituibile", che "di tutto poteva fare a meno tranne che della preghiera".

Sì, illustre giurista, professore e scrittore di opere autorevolissime, collaboratore della S. Sede e dei Pontefici, da Benedetto XV a Giovanni XXIII P. Cappello era prestigioso e pure mite e affabile, paterno e sorridente con tutti. Sì, un vero uomo tutto di Dio, devotissimo del Cuore di Gesù. In una conferenza così diceva in semplicità: "Amare il Signore a parole è facile, ma il vero amore sta nella sofferenza accettata con amore; anche noi, se vogliamo riparare nel modo meglio i peccati contro Dio, dobbiamo offrire le nostre tribolazioni fisiche e morali, offrire le nostre croci accettate con pazienza e amore".

Il suo programma: "Devo essere vittima di riparazione. Gesù soffre tante ingiurie, riceve tante offese, patisce tanti oltraggi. Posso io rimanere indifferente e insensibile? No! Gesù vuole che io ripari, che io lo conforti e lo consoli, lo farò volentieri. Devo essere vittima di espiazione. Gesù vuole la conversione dei peccaori. Ed essi non ascoltano. Voglio perorare io le loro cause presso il Cuore dolcissimo di Gesù, ottenere la loro conversione. Devo essere vittima d’amore. Amare Gesù: ecco lo scopo della mia vita. Ogni parola, ogni passo, ogni pensiero, ogni sentimento, ogni respiro dev’essere un atto di purissimo amore. Vivere e morire di amore per Gesù, ecco il mio ideale".

Attivo sino all’ultimo, il suo cuore cominciò a cedere la sera del 24 marzo 1962. I suoi occhi si fecero raggianti, fissi verso l’alto come se vedessero e già gioissero come di Qualcuno straordinariamente bello che gli veniva incontro. La "visione" durò a lungo. Poi, all’una dopo mezzanotte del 25 marzo 1962, solennità dell’Annunciazione di Maria e dell’Incarnazione del Verbo, l’incontro con Dio.

"Il confessore di Roma", presto lo vedremo elevato alla gloria degli altari.

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ultimo aggiornamento 03 settembre, 2014