I COMANDAMENTI (9)
Non dire falsa testimonianza

 

Sac. Angelo Spilla

 

 

Anche l’ottavo comandamento parte da un principio fondamentale: difendere la dignità e il diritto di ogni individuo contro l’eventuale travisamento della verità nei suoi confronti.

Nell’antico Israele quando sorgeva qualche controversia erano i giudici che discutevano del caso e pronunciavano il loro giudizio. In ogni città o villaggio vi era un tribunale, la cui composizione variava in base al numero degli abitanti. Non esisteva, però, la figura dell’accusatore, quella che noi oggi chiamiamo "pubblico ministero". La sede giudiziaria avveniva presso la porta pubblica di ogni città o villaggio; era qui che si svolgeva la funzione di municipio. Un dibattimento municipale alla porta del villaggio, luogo ove tutti transitavano per motivi lavorativi, è descritto nel cap. 4 del Libro di Rut.

L’accusa veniva presentata da chi era stato testimone di un fatto illegale. È dunque chiaro che il giudizio di equità poteva nascere solo a condizione che i testimoni fossero assolutamente credibili. Erano, dunque, tanti i rischi a cui si andava incontro.

Essere testimone rivestiva grande importanza poiché implicava la liberazione o la condanna dell’accusato. Non era possibile nessuna condanna senza la deposizione dei testimoni. Toccava all’accusato il carico della prova, incompendogli il compito di dimostrare eventualmente la falsità dell’accusa fatta. Chi fosse stato incapace di provare la propria innocenza, qualsiasi falsa testimonianza contro di lui, accettata dal giudice, portava fatalmente con se la condanna.

Solo in epoca tarda vennero costituiti i tribunali di Gerusalemme, il Sinedrio, per i casi più importanti e gli altri in seconda istanza. Se i testimoni erano falsi il giudizio non era a favore della verità. Così casi di falsa testimonianza contro il prossimo ne troviamo nella Bibbia. Basta ricordare il caso di quei due anziani del popolo designati giudici che accusarono ingiustamente la giovane e bella Susanna, che aveva rifiutato di acconsentire di soddisfare i loro desideri, incolpandola di essersi adagiata con un giovane. Dio è venuto in soccorso della giovane innocente con l’intervento di Daniele che smascherò la menzogna dei malvagi (cfr Dt 13).

Il Primo Libro dei Re riporta pure il comportamento di Gezabele che ad ogni costo volle ottenere per suo marito, il re Acab, la vigna di un certo Nabot. Fece reclutare soldati pagando una mercede perché testimoniassero il falso contro Nabot, il quale condotto fuori della città fu lapidato e morì. Fu così che Acab poté appropriarsi della vigna di Nabot che non voleva cedergli (cfr 1 Re 21). Ricordiamo che anche Gesù fu convocato davanti al supremo tribunale e lì si presentarono dei falsi testimoni, appositamente corrotti, per accusarlo (cfr Mt 26, 59-61).

La testimonianza a voce in una civiltà di cultura orale acquisiva grande rilievo.

Ecco perché il comandamento proibisce la falsa testimonianza. E ciò viene ribadito anche nel libro dell’Esodo: "Non sporgerai false dicerie; non darai mano al colpevole, offrendoti come testimone di giustizia. Non seguirai la maggioranza per agire male e non deporrai in processo per deviare verso i più e così falsare la giustizia"(Es 23, 1-2).

Il senso letterale del comandamento è questo, dunque: Non risponderai davanti al tribunale contro nessuno dei tuoi compagni, come testimone bugiardo. Non è insomma la menzogna come tale che veniva condannata in questo comandamento, ma solo la sua forma più chiara e perniciosa, la falsa testimonianza utilizzata per danneggiare la reputazione del proprio concittadino.

Dal suo significato originale, vediamo un po’ l’attualità di questo comandamento, comprendendone il suo significato attuale e la sua estensione.

Il comandamento sottolinea la correttezza delle relazioni sociali e delle azioni penali, ma tutela pure la dignità di una persona.

Gesù rimanda alla menzogna quando parla di satana e dice: "Il diavolo è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità. Quando dice il falso parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna"(Gv 8,44).

Questo comandamento si estende pure ai troppi falsificatori di verità, disposti a mettere in circolazione, contro avversari politici, concorrenti finanziari, o persone che soltanto la pensano diversamente da loro, ogni sorta di denigrazioni e calunnie. Sappiamo come critiche immotivate e pregiudiziali, come pure maldicenze e denigrazioni, le calunnie e le mormorazioni, hanno un potere distruttivo. Lo stesso discorso vale per la bugia; questa è più peccaminosa quanto più nuoce al prossimo e offende Dio. Riguardo poi alle cosiddette bugie "buone", o a fin di bene, bisogna stare attenti a non farne un’abitudine per non perdere fiducia e credibilità. La bugia è sempre un difetto ed è bene eliminarla il più possibile. Ricordiamoci pure, anche, secondo quanto insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, che "nessuno è tenuto a palesare la verità a chi non ha il diritto di conoscerla"(2489).

Anche un semplice e comune fatto del pettegolezzo, anche se dice il vero, può nuocere all’altra persona. Dobbiamo stare attenti anche a verificare le nostre parole e i nostri giudizi.

Ricordiamoci che sarebbe ingenuo credere che le parole sono marginali o irrilevanti. Il loro effetto va ben oltre un semplice suono che presto si dissolve.

Questo è il comandamento che in positivo ci esorta ad essere sinceri e leali, un invito a disciplinare il nostro linguaggio. Ricordiamoci di Gesù: "Sia il vostro parlare: Si, si, no, no, il di più viene dal Maligno"(Mt 5,37). Occorre essere testimoni di giustizia e di verità.

Siamo chiamati a coltivare atteggiamenti che ci fanno crescere nella verità; il nostro parlare sia trasparente; mai al di fuori della verità.

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ultimo aggiornamento 16 giugno, 2017