Leggiamo il libro
di Giobbe 3

 

  Il Libro di Giobbe:

  il libro della crisi

      Sac. Angelo Spilla

Seguito....

Giobbe, di te ho bisogno

I tre amici erano andati da Giobbe per compiere inizialmente alcuni gesti che esprimono solidarietà nel dolore:si strappano le vesti, si ricoprono di polvere, gli si siedono vicini, stanno in silenzio vicino a Giobbe, vegliando con lui, condividendo e portando con lui il peso di una tragedia così grande che ha prosciugato anche il dolore. Per sette giorni e sette notti seduti per terra, in silenzio, per condividere il peso del dolore sconfinato, in segno di grande amicizia. Esprimono la solidarietà nel dolore. Ma le loro strade si dividono quando ognuno comincia a parlare. Ci troviamo già all’inizio del terzo capitolo di questo libro di Giobbe.

Le cose cambiano non appena questi amici aprono bocca, al punto che Giobbe li definisce "torturatori". Erano partiti con la buona intenzione di consolarlo ma, di fatto, finiscono col tormentarlo e opprimerlo. Non potendo rinfacciargli alcuna colpa se non indebitamente, gli rinfacciano il cambiamento di posizione sociale, come se questo sovvertimento fosse conseguenza di una colpa.

I tre amici di Giobbe, Elifaz, Bildad e Zofar, insomma, vorrebbero fare confessare all’innocente una colpa che non esiste, così che essi possano alla fine sentirsi giustificati nelle loro azioni dall’ammissione stessa dell’innocente.

L’azione di questi amici sarebbe quella di convincere Giobbe a riconoscere la propria colpevolezza, aiutarlo nella individuazione di una colpa nascosta e portarlo, quindi, alla confessione. Lo vogliono condurre, anche, al pentimento e alla conversione, consapevoli che alla fine Dio ricompenserà con una felicità ancora più grande di quella concessa prima. Tutto questo parte sempre da un principio sostenuto dalla loro logica: tutto quello che è accaduto a Giobbe è da considerare una punizione e un castigo. Giobbe è colpevole.

Ma ecco, allora, che oltre al vuoto registrato da Giobbe per la perdita dei beni, dei figli e dall’allontanamento della moglie, ora un altro vuoto, per certi versi più sottile ma altrettanto doloroso. La vicinanza dei tre amici che inizialmente sembrava una presenza partecipe e benefica, ora si trasforma in freddezza, in fastidio ed anche in ripulsa e in giudizio. Ed è il momento quando Giobbe sentendoli parlare dirà: "Ho sentito un’infinità di ragionamenti, siete tutti consolatori molesti"(16,2).

Giobbe, intanto, protesta. "Di te ho bisogno. Ho bisogno di uno che sappia protestare così forte che il grido giunga ai cieli là dove Dio si intrattiene con Satana a ordire piani e congiurare contro un uomo. Protesta: il Signore non ha paura, può certo difendersi. Ma come potrebbe difendersi se nessuno osa protestare nel modo che si addice alla dignità di una persona? Parla, leva la tua voce, parla forte; Dio certo può parlare più forte - ha sempre il tuono - ma pure il tuono è una risposta, una spiegazione sicura e attendibile, genuina, una risposta che proviene da Dio stesso e che, sebbene schiantasse un uomo, è magnifica più di tanti pettegolezzi sull’equità della provvidenza inventati dalla saggezza umana e diffusi da comari e rammolliti.

Mio indimenticabile benefattore, Giobbe dei tormenti, permetti di unirmi al tuo seguito; posso ascoltarti? Non mi respingere. Io non sto con doppi scopi al tuo mucchio di ceneri, le mie lacrime non sono false, anche se non riesco a piangere solo per te. Come chi è lieto cerca la letizia e vi partecipa, benché a renderlo più di tutto lieto sia la notizia che gli dimora dentro, così l’afflitto cerca l’afflizione. Io non ho posseduto il mondo, non ho avuto sette figli e tre figlie, ma può ben aver perduto tutto anche chi possedeva solo poco, può ben dire di aver perso figli e figlie anche chi ha perduto l’amata; e ben può dire di essere stato colpito da ulcere maligne anche chi ha perduto l’onore e la fierezza e con essi, la ragione e la forza di vivere". Non sono le parole di una ateo, ma di un filosofo cristiano; sono le parole di Soren Kierkegaard (1810-1855) in La Ripetizione (1843).

Giobbe, attraverso i discorsi di protesta e di contestazione, si rivolge contro Dio e contesta i discorsi dei suoi amici, considerati difensori di Dio, che volevano dare parole di incoraggiamento e di conforto. Ma anche di conversione. Una parola che da Giobbe viene definita come una tortura spirituale.

Giobbe nella sua esperienza di grande dolore e prova, inchiodato sulla nuda terra e con le piaghe sanguinanti, chiede una risposta su quanto sta sperimentando. Lotta con tutte le forze con Dio. Ed è in questa lotta che fa la sua più bella ed esaltante avventura. Comprenderà alla fine che Dio non potrà mai essere afferrato, non potrà mai essere preso. Non lo si potrà racchiudere dentro i nostri schemi, perché lui seduce e poi scompare, lo abbracci e poi ancora lo ricerchi.

In tutta questa esperienza Giobbe ci fa comprendere che nell’assurdità della sofferenza c’è un altro piano di Dio e Giobbe lo accetta, si arrende. Anche in questa lotta sperimenta la presenza indicibile di Dio. "Riconosce davanti alla sfilata dei segreti cosmici della requisitoria di Dio –afferma Gianfranco Ravasi – di non essere in grado di sondare che qualche particella microcosmica, mentre Dio sa percorrerli con la sua onniscienza ed onnipotenza".

Dunque Giobbe lotta contro o per Dio? Malgiudicato dai suoi amici si solleva contro di loro con la sola forza della sua innocenza e lotta per ritrovare Dio che si nasconde e nel quale continua a credere.

 

Il cammino spirituale di Giobbe

I tre amici erano andati da Giobbe sia per consolarlo in seguito alle disgrazie che gli erano capitate sia per difendere la tesi tradizionale secondo la quale se Giobbe soffre significa che ha peccato. Elifaz parla con la moderazione che l’età gli ispira; Zofar segue gli impulsi della sua giovane età, mentre Bildad è un sentenzioso che si tiene su una linea media. Alla reazione di Giobbe segue un altro personaggio: Elhu, che dà torto sia a Giobbe che agli amici, tentando di giustificare la condotta di Dio. Anche qui Giobbe malgiudicato dai suoi amici si solleva contro di loro con la sola forza della sua innocenza e lotta per ritrovare Dio che si nasconde e nel quale continua a creder buono. È come se dicesse loro: "Io ho paura del vostro Dio perché se lui punisce me innocente, ebbene io non voglio sentire parlare di un Dio come questo". Giobbe, quindi, affronta lo scandalo del principio smentito. Sa bene di essere un peccatore anche lui come tutti gli altri uomini. Ma è la connessione tra la sua colpa e la situazione dolorosa che lo affligge in modo così travolgente che per Giobbe non è affatto chiara.

Giobbe continua in questa sua lotta a parlare con Dio, non ha problemi di fede; dà voce al dolore umano, a tutte le tragedie che affliggono l’umanità. Vuole una risposta da Dio. Lancia verso l’alto il suo "perché", attacca Dio per il suo silenzio e la sua assenza.

Assai inquietanti e profonde risultano le parole di padre Davide Maria Turoldo a tal proposito:"Perché del Libro di Giobbe? Perché su questo Libro, antico di millenni, su cui tanto si è scritto, al quale tuttavia l’umanità riflessiva ritorna come a una fontana di ribellione e di lacrime, quasi fosse appena sgorgata dalla roccia del nostro altrettanto vecchio cuore che vorrebbe farsi insensibile e duro ma invece non finisce mai di piangere. Proprio così: tale è la ragione che mi ha spinto nelle braccia di quest’uomo, senza più carne, scheletrite, disegnanti nel vuoto della notte la danza della sua violenta e totale disperazione. Perché Giobbe prima di dire con le parole parla con il suo silenzio, con la sua voce non più umana, con le sue ossa rosicchiate dalla lebbra, con i suoi occhi che tentano di forare il tempo e il mistero fitto dell’esistenza, parla con le sue maledizioni e con il suo rancore… Io sono ritornato a Giobbe perché non posso vivere senza di lui, perché sento che il mio tempo - come ogni tempo - è quello di Giobbe, e che se ciò non si avverte, è solo per incoscienza o illusione. Io ritorno a lui perché da lui ricevo l’unica soluzione possibile della mia vita, il diritto a disperare. È di Giobbe la disperazione come categoria della ragione, come evento positivo e provvidenziale. E in un certo senso la sua parola è necessaria come quella di Cristo: la sua è la parola della terra, quella di Cristo del cielo. E per fortuna si richiamavano nello spazio dei secoli come ora si incrociano e si integrano nella totalità di una medesima rivelazione, all’infuori della quale non esiste che tenebra. Anzi, mentre non posso confondermi col Cristo, il quale per quanto uomo è anche Dio, sento invece l’identità di Giobbe, e la sua storia come l’inevitabile mia storia, che si ripete, che si perpetua nel giro; di questo sangue, giorno per giorno, consumato dalla pena e dentro questa carne destinata ai vermi, destinata ad essere cenere, per ricompormi poi nella nuova forma in attesa di vedere con questi miei occhi il Salvatore".

Crediamo che il Libro di Giobbe non sia il libro delle risposte ma delle domande, crude ed inevitabili, alle quali la risposta verrà data soltanto davanti a Dio. E non per rimandare tutto a un ipotetico futuro ma perché la risposta si potrà avere solo quando Dio rivelerà direttamente il suo volto. Ciò che Giobbe insegue non è il recupero di quelle condizioni economiche, familiari e sociali che nel passato lo avevano reso felice; ciò che egli cerca è il volto di Dio, l’incontro con Lui per parlargli faccia a faccia.

Il racconto di Giobbe si conclude quando lui viene introdotto da Dio in persona. È Dio, allora, che di mezzo al turbine, cioè nello scenario delle antiche teofanie, risponde a Giobbe. Si fa riconoscere attraverso la contemplazione del mondo; Dio illumina Giobbe a vedere il mistero nascosto di Dio nel cosmo e nella storia. Poi, Dio benedice Giobbe e gli dà il doppio del bestiame che aveva all’inizio; gli dona anche sette figli e tre figlie, descritte come le più belle del paese. Agli amici che credevano di avere svolto un buon servizio, Dio risponde facendo comprendere loro di avere recato offesa alla verità, venendo meno all’onestà, alla lealtà, alla giustizia. Hanno irritato il Signore per avere detto cose che non erano giuste nei confronti di Dio. Questi amici alla fine dovranno appellarsi proprio alla capacità di perdono di Giobbe che sarà chiamato a diventare l’intercessore, il mediatore di salvezza per quelli che l’hanno tormentato e torturato spiritualmente. Il libro sacro si chiude con un accenno a come Giobbe ha vissuto per altri 140 anni, vedendo i suoi discendenti fino alla quarta generazione prima di morire.

L’ultima tappa di questo cammino è, quindi, da considerarsi la più alta: è il momento contemplativo di Giobbe. Segna la fase del cammino di fede: la via della comunione. Dopo la via della purificazione (il lungo dialogo tra Giobbe e i suoi amici – capp. 4-27); dopo la via dell’illuminazione quando Dio illumina Giobbe che prende coscienza dell’agire libero di Dio nella storia e nella creazione (capp. 38-39), segue la dimensione sponsale tra il Creatore e la creatura, la via cioè della comunione (cap. 42): Giobbe potrà ben dire: "Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto".

Il libro dà anche una risposta alla sfida fatta da Satana. Il Signore si è fatto presente nella vita di Giobbe con la via della benedizione e con la via della prova. Con Giobbe dobbiamo imparare come dovrebbe soffrire il giusto, quanto attenti dovremmo stare nel confortare la sofferenza ed accettare che non possiamo mai comprendere pienamente l’opera di Dio nella nostra vita e nel mondo. Dobbiamo fare tesoro del bisogno di avere la fede. Anche noi, come Giobbe, dobbiamo fare il salto dal "sentito dire" all’ "esperienza"di Dio. Al "vedere" Dio.

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ultimo aggiornamento 14 gennaio, 2019