studi Vangelo e santità laicale Sac. Angelo Spilla, fam
Vangelo e santità laicale
7
Il coraggio e la fede di un giudice,
ROSARIO LIVATINO
S
crive così San Giovanni Paolo II nella "Christifideles laici", sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo:"La carità che anima e serve la persona non può mai essere disgiunta dalla giustizia: l’una e l’altra, ciascuna a suo modo, esigono il pieno riconoscimento effettivo dei diritti della persona, alla quale è ordinata la società con tutte le sue strutture ed istituzioni" (n.42).Facendo proprio riferimento a questo passo dell’Esortazione apostolica, desidero presentare la figura di Rosario Angelo Livatino (1952-1990), che con il suo operato, ispirato agli ideali di giustizia, ha intrapreso la professione di magistrato. Un uomo, un magistrato, un cristiano che ha dedicato la sua breve vita all’affermazione della giustizia sociale lottando con le armi del diritto contro la mafia e in particolare quella agrigentina.
Era il 21 settembre 1990, una mattina come tante altre, quando Rosario Livatino esce dalla sua abitazione di Canicattì, dove viveva con i suoi anziani genitori; stava per recarsi da giudice a latere al tribunale di Agrigento. Percorre la Statale 640 che da Canicattì conduce ad Agrigento, stessa strada dove due anni fu ucciso il giudice Antonino Saetta e suo figlio Stefano.
Era però una giornata particolare: il tribunale deve decidere le misure di prevenzione da adottare nei confronti dei boss mafiosi di Palma di Montechiaro. Aveva rinunciato la scorta per paura di mettere a rischio altre vite. Avrebbe fatto sosta, prima di entrare nel palazzo di Giustizia agrigentino, per una visita alla chiesa di San Giuseppe, che si trova nei dintorni, per fermarsi a pregare, come era solito fare ogni giorno.
Era a bordo di una vecchia Ford Fiesta rosso amaranto quando una Fiat Uno lo sperona mentre del lato del passeggero cominciano a partire numerosi colpi di arma da fuoco, contemporaneamente affiancata da una moto da enduro con altri due giovani che sparano anche loro. Rosario tenta una disperata fuga nella scarpata sottostante, fino a quando cade a terra ucciso da altri colpi. I killer del commando la "Stidda" lo raggiungono e lo uccidono brutalmente senza pietà. Rosario, prima di morire, chiederà a Gaetano Puzzangaro: "Perché? Cosa ho fatto?". Pietro Ivano Nava intanto si trovava nella medesima statale ed assistette all’omicidio.
Rosario Livatino aveva 38 anni, un "giudice ragazzino", come ebbe a definirlo, insieme ad altri giovani magistrati, il Presidente della Repubblica Cossiga, scatenando diverse polemiche.
Ecco la sua breve vita. Rosario dopo la maturità classica, a 22 anni si laurea in giurisprudenza all’università di Palermo con il massimo di voti e poi ancora consegue una seconda laurea in scienze politiche.
Nel 1978, a 26 anni, può coronare il suo sogno; sulla sua agenda scrive con la penna rossa: "Ho prestato giuramento; da oggi sono in Magistratura". E poi, a matita, aggiunge: "Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige".
Si
qualifica tra i primi nel concorso in magistratura nel 1978. A Caltanissetta
svolge il periodo di uditorato prima in tribunale, poi in Procura ed infine
presso la Pretura. Il Consiglio giudiziario presso la Corte di Appello di
Caltanissetta dando il parere positivo nelle sue funzioni giudiziarie, di
lui sottolineava il "carattere serio e riflessivo, i modi garbati e modesti,
il tratto sobrio e contenuto… attaccato visceralmente al proprio lavoro e
dotato di spiccato senso del dovere". La sua preparazione appare notevole ed
aggiornata, di brillante intelligenza unita ad un notevole intuito
giuridico. Nel 1979 fu nominato sostituto procuratore del tribunale di
Agrigento ove iniziò ad indagare sulla mafia agrigentina, la "Stidda"
composta da bracci armati fuoriusciti da "Cosa nostra", dando inizio a
quella che verrà chiamata "Tangentopoli Siciliana". Dal 1989 Rosario fu
nominato giudice a latere; tra il 1984 e il 1988 risulta essere il
magistrato più produttivo della Procura di Agrigento. Nell’aula delle
udienze aveva voluto un crocifisso come richiamo di carità e rettitudine,
come pure lo teneva sul suo tavolo, insieme al Vangelo tutto annotato. Nella
sua agenda con fiducia totale si affida nelle mani di Dio, così annotando: "STD",
"Sub tutela Dei", una invocazione medievale, perché Dio aiutasse chi doveva
compiere un dovere pubblico.
Era impegnato nell’Azione Cattolica e partecipava alla messa domenicale. Ha sostenuto l’indipendenza del giudice dal potere politico come valore che non conosce eccezioni; questa libertà, insieme alla sua totale autonomia di giudizio, gli consentono di muoversi con serenità di giudizio. La sua fede ha dato forma al suo servizio. Aveva il senso dello Stato, ma anche il rispetto per ogni uomo, compresi quelli che faceva condannare, verso i quali manteneva un rispetto ed un’attenzione umana e cristiana. Tra i suoi appunti si legge: "Al termine della vita non vi sarà chiesto se siete stati credenti ma se siete stati credibili".
"Un martire della giustizia e, indirettamente, anche della fede" lo ha definito San Giovanni Paolo II il 9 maggio 1993 in occasione della sua visita pastorale in Sicilia. In quella occasione nella Valle dei Templi di Agrigento rivolgendosi ai mafiosi disse: "Convertitevi, un giorno verrà il giudizio di Dio". E lì il Papa ha incontrato gli anziani genitori di Rosario.
La Chiesa agrigentina ha avviato il processo di beatificazione; mons. Carmelo Ferraro, arcivescovo di Agrigento, aveva cominciato a far raccogliere le testimonianze già dal 1993 e poi il suo successore, mons. Francesco Montenegro, nel 2011, nel 21° anniversario dell’omicidio di Rosario, ha avviato il processo di beatificazione, conclusosi il 3 ottobre 2018. Preziose sono risultate soprattutto le testimonianze del supertestimone Pietro Ivano Nava e dal condannato all’ergastolo Puzzangaro che da vent’anni ha iniziato un percorso spirituale; è stato quest’ultimo che dal carcere di Opera ha scritto: "Oggi mi farei ammazzare piuttosto che rifare ciò che gli ho fatto! E lo prego ogni domenica a messa".
Ha sottolineato bene il cardinale Montenegro: "Livatino ci può insegnare che per diventare santi non dobbiamo estraniarci dai nostri impegni, ma piuttosto, dobbiamo sporcarci le mani nelle fatiche quotidiane… Livatino per noi è espressione di un cristianesimo a tutto tondo fatto di unione con Dio e di servizio all’uomo, di preghiera e di azione, di silenzio contemplativo e di coraggio eroico".
È questo il coraggio e la fede di un giudice che ci lascia Rosario.
![]() |
|
[Home page | Sommario Rivista]
realizzazione webmaster@collevalenza.it
ultimo aggiornamento
19 ottobre, 2020