Attualità

S.E. Mons. Renato Boccardo

 

Omelia di S.E. Mons. Renato Boccardo, Arcivescovo di Spoleto-Norcia, in Santuario il 18 maggio nell’incontro con tutti i Religiosi dell’Umbria

 

«Tu seguimi» (Gv 21, 22). La conclusione è perentoria, non ammette repliche né richiede raffinate interpretazioni. Il Vangelo di Giovanni inizia con i due discepoli che, accogliendo la parola del Battista, "seguirono Gesù" (1, 37) e termina con lo stesso verbo, che Gesù consegna al discepolo al quale ha appena affidato il compito di guidare la comunità (21, 15-17). Non è più un solenne discorso di addio rivolto al gruppo, ma un colloquio personale, intimo, tra Maestro e discepolo. Potremmo paragonarlo ad un «colloquio spirituale» che Gesù intrattiene con Pietro prima di lanciarlo sulle vie del mondo per annunciare il Vangelo. E noi impariamo che il verbo seguire è la veste interiore, il segno distintivo, la carta d’identità del discepolo. Essere discepoli, infatti, - e lo sappiamo bene - non significa soltanto ascoltare e accogliere una dottrina ma comporta l’impegno a seguire fedelmente le orme del Maestro.

Nel cammino dell’esistenza, man mano che crescono i figli acquistano sempre maggiore autonomia fino a staccarsi dalla famiglia di origine per assumere responsabilmente le redini della propria vita. Nell’esperienza di fede avviene il contrario: più si cresce, più diventiamo figli e più sentiamo la necessità di lasciarci guidare dallo Spirito e accogliamo con docilità le parole della Chiesa. Non diventiamo mai autonomi, ma rimaniamo per sempre discepoli; siamo sempre cercatori, per sempre pellegrini. Ciò che conta è rimanere con Gesù, coltivare cioè un legame essenziale, vitale, costitutivo, un legame che supera quelli dell’amicizia, della parentela e anche della nuzialità, un legame tale che, se non esiste, la Vita non viene comunicata (e si è allora una specie di tralcio secco, di ramo morto); se invece esiste, la vita che scorre in noi è la vita stessa di Dio (cf Gv 15, 6-8).

C’è qualcosa di affascinante nella persona di Pietro. In lui troviamo riflessi i difetti tipici che tutti ci portiamo addosso, anche se mescolati con slanci straordinari, generosi, sinceri, immediati, da cuore puro. L’apostolo ha appena finito di parlare di amore e sequela con Gesù risorto fino a sentirsi dire per tre volte «Pasci le mie pecorelle» e quando intravede Giovanni che li segue, e dice: «Signore, che cosa sarà di lui?». È la tentazione sempre presente nella comunità degli uomini (e anche dei cristiani) di fare confronti, di valutare la propria vita (umana e di fede) in base a ciò che fanno gli altri.

Non dimentichiamo infatti che la Bibbia si apre con l’invidia di Caino che spia il fratello Abele e si convince che è prediletto da Dio rispetto a lui. Da allora, sarà una ferita che tutti ci portiamo dentro, Pietro compreso; una ferita di gelosia che si cura solo con una più radicale sequela di Gesù. Solo quando ci concentriamo sul farci santi smettiamo anche di preoccuparci eccessivamente della vita degli altri. Quanto migliorerebbero le nostre comunità, le nostre esperienze ecclesiali, gli ambienti nei quali solitamente viviamo, se smettessimo di ragionare come Pietro e leggessimo invece i difetti degli altri o il bene che capita loro come una grande provocazione a farci santi noi. E imparassimo a riconoscere che il Signore ha un progetto su ognuno e che molto spesso, a prima vista, tale progetto è misterioso. Dobbiamo smettere di spiare gli altri con occhi impuri, che proprio perché non hanno retta intenzione vedono sempre e comunque solo il male, anche lì dove non c’è. Perché gelosia e invidia dividono la Chiesa e ci impediscono di accorgerci di tutto ciò che il Signore compie nella nostra vita. Così essa diventa amara, come ci ricorda spesso Papa Francesco.

 

Guardiamo a Giovanni, figura semplice e spontanea. Lo vediamo seguire in silenzio il Maestro risorto senza domandarsi se è giusto o sbagliato o quale sia il suo ruolo specifico in quel contesto. Una figura umile e mite che si sente libera di avere un contatto diretto con Gesù, come quando poggia il capo sul suo petto nell’ultima cena (cf Gv 13, 25), capace persino di rinunciare ai suoi privilegi, come quando corre più veloce al sepolcro ma decide di non entrare per primo (cf Gv 20, 1-8).

 

«Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi», cioè: tu abbi come unica preoccupazione quella di seguirmi e non di pensare a Giovanni. Le parole di Gesù a Pietro ci ricordano che il Figlio di Dio viene per tutti, senza operare distinzioni. Non spetta a noi decidere chi ne sia degno e chi no, come non spetta a noi giudicare il prossimo mettendogli l’etichetta che più ci fa comodo. Se essere Chiesa significa vivere un’esperienza di compagnia e di comunione, non dobbiamo dimenticare che la comunione non annulla la nostra unicità e la nostra individualità. Essere Chiesa non significa smettere di essere se stessi, ma imparare ad essere se stessi insieme con gli altri. Cristo non ha uniformato gli apostoli, anzi li ha resi tutti diversi, ma ha chiesto loro di amarsi reciprocamente. Ciò che ci tiene insieme nella Chiesa non è il fatto che pensiamo tutti allo stesso modo ma il fatto che proviamo ad amarci in verità. Perché l’amore vale più delle idee diverse.

 

Dunque, mentre a Pietro Gesù chiede di camminare, al discepolo amato indica di rimanere. Due modi di vivere una medesima relazione d’amore. Quello di Pietro: l’amore che segue, che cammina dietro al Signore, per le vie che lui gli indicherà. Quello di Giovanni: l’amore che sa dimorare sul suo petto e di questo è memoria al cuore della comunità, chiamata a rimanere in attesa del suo Signore.

 

La conclusione della lettura del Vangelo secondo Giovanni, che ci accompagna ormai da settimane, invece di farci volgere gli occhi sul Cristo glorioso che ritorna presso il Padre e si asside quale Signore della storia alla sua destra (cf Mc 16, 19), riporta lo sguardo del nostro cuore alle «molte altre cose compiute da Gesù» (Gv 21, 25). Quelle «cose» si stanno ancora realizzando in mezzo a noi e, soprattutto, dentro di noi. È come se la storia fosse interamente e sempre una biblioteca che raccoglie quei «libri» mai scritti con l’inchiostro perché scritti con il sangue della vita spesa e donata.

 

La parola di Papa Francesco illumina la nostra riflessione e orienta la nostra missione: «Questa esperienza di Pietro costituisce un messaggio importante anche per noi ... Il Signore oggi ripete a me, a voi e a tutti: Seguimi! Non perdere tempo in domande o in chiacchiere inutili; non soffermarti sulle cose secondarie ma guarda all’essenziale e seguimi. Seguimi nonostante le difficoltà. Seguimi nella testimonianza di una vita corrispondente al dono di grazia del Battesimo, dell’Ordinazione, della Consacrazione religiosa e del Matrimonio. Seguimi nel parlare di me a coloro con i quali vivi, giorno dopo giorno, nella fatica del lavoro, del dialogo e dell’amicizia. Seguimi nell’annuncio del Vangelo a tutti, perché a nessuno manchi la Parola di vita, che libera da ogni paura e dona la fiducia nella fedeltà di Dio. Tu seguimi!» (cf Santa Messa e imposizione del Pallio ai nuovi Metropoliti, 29 giugno 2014).

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ultimo aggiornamento 11 giugno, 2024