Un paradossale rapporto di continuità e di superamento rispetto alla cultura della potenza si trova nella cultura della violenza.

Parliamo, ovviamente, non di una cultura violenta (la violenza è presente, più o meno, in tutte le "città degli uomini"), ma di una cultura della violenza, ossia di una cultura che giustifica e considera positiva la violenza come unico modo per produrre una società senza violenza. Essa parte dalla constatazione che la società esistente si fonda su di una violenza legalizzata e che solo la "violenza giusta" (o dei poveri) potrà eliminare la "violenza ingiusta" (o dei ricchi).

La violenza cessa di essere una occasione o un fenomeno negativo, per divenire la legge stessa del reale, l'unico mezzo per raggiungere un progresso nel bene. Possiamo assumere come emblematica una frase famosa, tratta dal XXIV capitolo del I libro del Capitale di Carlo Marx: "La violenza è la levatrice di ogni società antica, gravida di una nuova società". Il marxismo esalta la "funzione rivoluzionaria della violenza" (F. Engels, Antidühring) e constata che "il potere proviene dalla canna dei fucili" e che "la guerra può essere abolita solo mediante la guerra" (libretto rosso di Mao Tze Tung).

Non v'è dubbio che il marxismo non intende giustificare la violenza come condizione insuperabile della società umana; esso è, al contrario convinto che dalla violenza, che distrugge la reale violenza del presunto ordine legale, uscirà una società senza violenza. La violenza del contropotere eliminerà la violenza del potere, per creare infine una società umana senza stato e senza violenza. La violenza, per il marxismo, è strumentale, non definitiva; essa dura quanto la rivoluzione, per distruggere la violenza borghese, e quanto la dittatura del proletariato, per impedire la controrivoluzione.

La violenza, dunque, che esclude la misericordia come tradimento, è valida solo quando è usata a fin di bene - ossia per costruire una società socialista. Nel suo libro L'estremismo come malattia infantile del comunismo ciò che Lenin rimprovera agli estremisti non è l'uso della violenza, ma l'uso irrazionale della violenza. Ciò che deve fare il militante è la razionalizzazione della violenza e la sua associazione con le forme pacifiche della democrazia: "La dittatura del proletariato è una lotta tenace, cruenta e incruenta, violenta e pacifica, militare ed economica, pedagogica ed amministrativa, contro le forze e le tradizioni della vecchia società".

Sarebbe inesatto far coincidere la cultura della violenza con il marxismo; ma sarebbe anche superficiale non riconoscere che il marxismo è la più rigorosa giustificazione della violenza rivoluzionaria in nome dell'utopia messianica della società buona (Bloch: il "regno di Dio senza Dio"). Ora in questa unione di utopia e violenza, il secondo XX (che Lenin aveva profetizzato secondo di guerre e di rivoluzioni) ha visto allontanarsi sempre più l'utopia (il "Dio in avanti") ed estendersi irrefrenabilmente la violenza in tutte le sue forme, sia nei rapporti tra le nazioni, sia tra le classi, sia tra le persone. La violenza è, ormai, un fatto ecumenico e la stessa pace, diffidente e precaria, si regge solo sul timore della violenza onnidistruttiva degli armamenti nucleati. E la società nate dalla violenza rivoluzionaria, lungi dal costituirsi in convivenze libere di uomini solidali, si sono consolidate nell'universo concentrazionario del collettivismo burocratico, che in nome della totale socialità entra in tutte le sfere di vita e ne scaccia la libertà e la solidarietà.

Ricordare le tristi statistiche dell'aumento della violenza nel nostro paese è superfluo, tanto l'evidenza del fenomeno ci è davanti agli occhi. Gli atti distruttivi delle persone e dei beni non sono soltanto in crescita costante, ma assumono forme di cinismo inaudite.

La vecchia ideologia, che pretendeva di spiegare la violenza in termini di miseria, ingiustizia ed emarginazione, non è più in grado di dare ragione di episodi di violenza così crudele come il tenere in cella frigorifera un sequestrato morto per estorcere altro danaro alla famiglia facendolo credere vivo; o come il rogo, da parte di alcuni giovani, di una ragazza di quattordici anni, che non voleva prostituirsi.

L'antimisericordia non potrebbe mostrarsi più legata alla cultura della violenza, nella quale, come leggiamo al paragrafo 12 della "Dives in misericordia", "sulla giustizia hanno preso il sopravvento altre forme negative, quali il rancore, l'odio e perfino la crudeltà".

Una violenza così diffusa e frequente non potrebbe certo essere superata da nessuna ideologia o da nessuna utopia, ma solo dal riconoscimento della dimensione soprannaturale dell'uomo, che mi è fratello in quanto siamo figli di uno stesso padre e di una stessa madre.

Si può rifiutare la cultura della violenza solo distinguendo la forza dalla violenza e rifiutando la violenza in ogni caso, secondo l'imperativo della dottrina sociale della Chiesa, così efficacemente espresso al paragrafo 31 dell'Enciclica "Populorum progressio" di Paolo VI: "la violenza provoca nuova violenza; non si può combattere un male a prezzo di un male più grande". E nel "Discorso di Puebla" Giovanni Paolo II ha mostrato l'equivoco della scelta, compiuta anche da certi religiosi, spinti dalla cosiddetta "teologia della liberazione", di un impegno di violenza rivoluzionaria in favore degli oppressi. Alla cultura della violenza il cristiano oppone la legge della verità e della giustizia: la levatrice della storia non è la violenza, ma la croce, che è frutto di carità e misericordia.