Se nella cultura della violenza si ha una netta prevalenza del sociale, che diviene totalitario e burocratico, la cultura del desiderio si fonda su di una presente istanza di recupero dell'individuale e del vitale. La cultura del desiderio è una cultura libertaria, che mira a liberare istinti repressi e a riappropriarsi dei desideri soffocati. L'uomo, il quale, secondo la ben nota definizione del Deleuze, è "un fascio di desideri senza desiderante" (dato che il soggetto è morto), ha come scopo della sua esistenza di esplicate al massimo le sue possibilità di vita. Per poterlo fare, deve rifiutare tutti i divieti artificiali, che la società ha inventato per imbrigliare i desideri e deviarli verso la produttività o verso la socializzazione. Distruggere tutti i tabù (meno, ovviamente, il tabù che non esistono tabù): ecco la finalità dell'etica permissivistica della cultura del desiderio.

L'uomo del desiderio è una persona che sa vivere: cerca un lavoro breve e non troppo faticoso; effettua molti vagabondaggi esplorativi; legge poesie e ascolta musica; non si impegna mai per sempre onde salvaguardare la propria libertà del desiderio; i suoi campi privilegiati sono i rapporti interpersonali. E' qui che avviene la rivoluzione della cultura del desiderio, la quale, a partire dal Sessantotto, ha modificato profondamente le due principali istituzioni dei rapporti interpersonali: famiglia e scuola.

Nella famiglia sono entrate in crisi sia le regole sessuali, sia i rapporti di autorità. La cultura del desiderio non può porre alcuna limitazione ai rapporti sessuali, se non quella fondata sul desiderio stesso. Rapporti sessuali prematrimoniali ed extramatrimoniali, omosessualità, transessualità, amore di gruppo, e altre simili combinazioni, che la fantasia del desiderio suggerisce, trovano la loro giustificazione nella libertà e nella fantasia del desiderante.

La cultura del desiderio non può ammettere dentro di sé la promessa. La promessa e il desiderio si escludono reciprocamente. La promessa è senza condizioni, mentre il desiderio non è altro che limite spaziale e temporale. Anche il matrimonio, dunque, va sottratto al tabù della promessa e reso libero e transitorio. Certo che esso deve durare (ci si sposa perché si vuole attribuire all'unione una durata); ma questa durata non può che coincidere con il desiderio e finire insieme con esso. Una cultura del desiderio, che è una cultura della contemporaneità, non può vivere senza divorzio, che viene da essa considerato come una conquista di libertà e di progresso. E' il desiderio che consente la promessa, non è più la promessa che orienta e legalizza il desiderio.

I rapporti autoritativi all'interno della famiglia vengono rifiutati. Il desiderio riduce sempre più il nucleo familiare: avere in casa molti figli e gli anziani rende difficile la realizzazione dei desideri, in quanto richiede il sacrificio, che è il contrario del desiderio. Ogni componente della famiglia deve essere libero di esplicare al massimo i propri desideri, dato che la famiglia non è più una comunità di tradizione, ma una convivenza di desideranti. Il permissivismo sembra la metodologia più adeguata per rispettare il desiderio e per consentirgli di realizzarsi.

Anche nella scuola tutto deve essere facile e spontaneo. Finita la scuola del lavoro culturale, disciplinato e organico, in quanto basato sul sacrificio, è sorta la scuola del desiderio e della spontaneità.

Il permissivismo pedagogico consente, anche in essa, di rispettare la priorità del desiderio, al quale va subordinato lo studio. La scuola è un gioco di desideri, che può anche tradursi in cultura -- ma è la cultura fondata sul desiderio, non il desiderio sulla cultura.

La cultura del desiderio è una cultura della provvisorietà e del narcisismo. L'individuo, in essa, non diventa mai persona, in quanto vive edonisticamente (e non di rado estetisticamente) nel presente del desiderio. L'uomo del desiderio è l'uomo Kierkegaardiano dello "stadio estetico", incapace di passare allo "stadio etico" e allo "stadio religioso", in quanto è incapace di continuità, di impegno graduale e di sacrificio.

Ora il desiderio esclude la misericordia, che è dono di sé all'altro proprio sulla base della rinuncia al desiderio. Non è un caso che la cultura del desiderio abbia combattuto con enfasi pseudoreligiosa per la legalizzazione dell'aborto e per il suo uso generalizzato e libertario. Una cultura del desiderio non può ammettere se non l'aborto libertario, che è l'aborto del desiderio.

L'eliminazione di una vita umana viene giustificata con la necessità del desiderio di poter continuare a realizzarsi senza ostacoli o impedimenti.

L'eros, che non è charitas, in quanto è privo di misericordia, produce thanatos. Sul piano dell'eros non vi può essere misericordia, ma solo desiderio da soddisfare, possibilmente (secondo una espressione entrata ormai nell'uso comune) con una "gratificazione reciproca", che è la coincidenza casuale di due desideri. E' solo sul piano della charitas, la quale oltrepassa l'eros nell'agape, che è possibile la misericordia: "misericordia est effectus caritatis" (scrive S. Tommaso, alla fine dell'articolo 3 della questione 36 della Secunda secundae).

Se la misericordia è l'effetto della carità, la crudeltà è l'effetto del desiderio innalzato a supremo principio di valore.

Crudelitas est effectus cupiditatis: è l'imperativo della morale sadiana, di cui la cultura del desiderio è figlia. Possiamo esprimerlo con esattezza servendoci di alcune frasi tratte dal dialogo di Sade La philosophie dans le boudoir, dove viene dimostrata razionalmente la liceità e la doverosità dell'infanticidio: "non tenere l'infanticidio; è un delitto immaginario; siamo pur sempre le padrone di ciò che portiamo in seno e non facciamo più male a distruggere questa specie di materia che a purgarci dell'altra, con dei midicamenti, quando ne abbiamo il bisogno"; "Anche se fosse già nato, saremmo sempre padrone di distruggerlo. Non c'è sulla terra diritto più certo di quello delle madri sui loro figli"; "Comprendendo la misura dei nostri diritti, abbiamo finalmente riconosciuto che eravamo perfettamente liberi di riprenderci quanto avevamo dato controvoglia o per caso e che era impossibile esigere che qualsiasi individui divenisse padre o madre se non ne aveva voglia. Abbiamo capito che una creatura in più o in meno sulla terra non comporta poi una grande differenza e che noi diventiamo in una parola padroni di quel pezzo di carne, per animato che sia, non diversamente da come lo siamo delle unghie che tagliamo dalle nostre dita, delle escrescenze di carne che estirpiamo dal nostro corpo, o dei prodotti della digestione che eliminiamo dalle nostre viscere, dal momento che ci appartengono nello stesso modo e che noi siamo assolutamente padroni di tutto ciò che emana da noi" (in De Sade, Opere, Mondadori, Milano 1976, pp. 100-1).