STUDI

 

    Prof. Gaetano Benedetti  
Prof. Ing. Calogero Benedetti
  

 

L'amore annulla il dolore

Come abbiamo fatto più volte in passato seguitiamo ad ospitare volentieri in questa nostra Rivista contributi intesi a farci conoscere soprattutto ciò che è germe di sapienza divina ispirata nel contesto delle culture e tradizioni religiose dei vari popoli.
In questo articolo presentiamo una interessante corrispondenza tra due Professori universitari, il Prof. Gaetano Benedetti, già Docente di Psicoterapia e Psicoigiene nell’Università di Basilea (che scrive una sua riflessione sul SOGNO METAFISICO) ed il Professore Calogero Benedetti, già docente di Complementi di tecnica delle Costruzioni nella Università dell’Aquila. Nel rispetto del reciproco pensiero e delle idee di ciascuno, i due Professori, che sono anche fratelli, ripropongono queste riflessioni con una serena verifica alla luce della Religione cristiana. (N.d.R.)

 

RIFLESSIONI DI UN MEDICO
(Prof. Gaetano Benedetti)

1) Il problema del dolore

Quale medico, ed in particolare quale psichiatra e quale psicoterapeuta, sono continuamente confrontato con il problema del dolore; non solo con il problema medico e terapeutico, di come alleviare il dolore (particolarmente quello psichico), ma con il problema filosofico del significato del dolore nell’Universo.

Una domanda filosofica che spesso è sorta alla mia mente è per esempio la seguente:

<è il dolore un fenomeno transeunte dell’esistenza o è esso una dimensione fondante dell’Essere?>

Il problema non esiste per chi ritiene essere la morte la conclusione definitiva dell’esistenza; il nulla è senza dolore, e ricordo un poeta tedesco, il quale in una poesia scrive paradossalmente della “compassione del nulla”: das barmherzige Nichts” ci accoglierà tutti (Storm).

Questa visione metafisica non è tuttavia priva di tristezza.
Anche se il pittore rinascimentale Orcagna ritrae nel suo affresco “Il trionfo della morte” questa come la liberazione da tutti i mali della vita; anche se si ricorda il detto di Orazio “Mors ultima linea est”, resta il fatto, che l’attaccamento alla vita è il fenomeno universale della vita animale e quindi anche dell’uomo. Ricordo un mio conoscente centenario, oppresso dai dolori fisici, che mi chiedeva quale medico potesse prolungare almeno di alcuni giorni la vita! E ricordo ancora, quale psicoterapeuta, la tristezza di miei pazienti anziani scettici di fronte ad ogni fede nella sopravvivenza: il distacco da tutto anche dalla propria identità, appariva loro come insopportabile!

Da qui è facile concludere con Mainardi e prima di Lui con tanti altri, che la fede nella o la speranza di una sopravvivenza sia una difesa dalla coscienza della morte, assente in ogni animale fuor che nell’uomo.

Le religioni, ci dice Jung, sono dei grandi sistemi di psicoterapia collettiva; anche nelle religioni senza Dio, come nel Buddismo, si esprime la fede in un ritorno al Tutto, all’Assoluto. E ricordo l’intervista con un malato di cancro, il quale ci raccontava la sua commozione provata anni fa nell’incontro con una lapide funeraria ove era incisa la semplice frase: “Ritornato all’unità della materia”.

Ma nella materia organica c’è sempre dolore, ed in quella anorganica c’è dispersione, distruzione...

Vi è viceversa un superamento definitivo del dolore nella fede cristiana? Nella gioia della resurrezione?
Ritengo permesso il dubitarne. Se Cristo è coevo al Padre, e se Egli è quella Persona divina che ha amorevolmente compassione dei dolori umani, che è venuto sulla terra per condividerli, se Egli li ha previsti sin dall’inizio dei tempi, allora il dolore mi appare come una dimensione essenziale di quell’Assoluto in cui l’uomo si rappresenta la Trascendenza.

E se noi secondo la fede cristiana immaginiamo che l’alienazione dell’uomo da Dio alla fine dei tempi sarà superata, sussisterà in Dio la memoria dell’immenso travaglio insito nel tragico destino dell’uomo; la memoria di tutte le infinite lacrime versate, la memoria del dolore inenarrabile e senza misura degli innocenti, dei derelitti delle vittime di tutti i millenni; quella memoria dei bimbi infelici, che faceva rifiutare a Ivan Karamazov il “biglietto di entrata nel paradiso”.

Non lo rifiuterei, come Ivan, ma non mi sembra possibile, con la mia mente circoscritta, che il ricordo del dolore sia veramente assente da dolore.

E come immaginare la Mente Divina totalmente diversa dalla nostra, se riteniamo con la Bibbia di essere stati creati “a sua immagine e somiglianza?” L’uomo di oggi, che a mio parere attraversa una delle più gravi crisi della storia, ha una maggiore possibilità dolorifica che non l’uomo dei secoli precedenti il nostro. Ciò è visibile nel fatto, che oggidì anche gli uomini di fede non credono più in uno di quei fondamenti della fede cristiana, qual’era appunto la fede nel castigo <eterno>, nell’inferno.

Tutto il medioevo ruotava intorno a questa credenza, del dolore senza fine susseguente la morte nel peccato. Ben pochi allora si ponevano la domanda, che mi assillerebbe se partecipassi a questa fede: come è possibile la gioia universale, perfetta, di fronte all’eternità dell’inferno?

Non è certo possibile pensare al dolore senza la coscienza del suo polo opposto, ossia la Gloria. Ma questa è tale nel continuo annullamento del dolore, e in ciò consiste non solo, parzialmente, la vita stessa, ma massimamente, la ragione dello Spirito.

Il filosofo ebreo Jonas si è posto la domanda: come è possibile quale ebreo, credere nell’Onnipotenza di Dio dopo Auschwitz?

Nel suo messaggio egli propone l’Amore al posto dell’Onnipotenza.
L’Onnipotenza di Dio non è concepita come nei secoli passati di fronte alla Sua assenza da Auschwitz, poiché è proprio la potenza dell’Amore a venire fondata nel bisogno di esso da parte del sofferente, di tutti i sofferenti di questo mondo.

E perciò il dolore sembra essere radicato nella struttura stessa dell’amore; nel che mi sembra esistere una convergenza del pensiero filosofico giudaico con quello cristiano.

Se è vero, da un canto, che il dolore è un fenomeno universale, legato alla struttura stessa della vita la quale non può terminare senza il dolore della distruzione e non può cominciare a sussistere senza di esso, e cioè senza la difesa dal dolore, è pur anche vero che il dolore dell’uomo si distingue da quello cosmico (in particolare: animale) per una sua proprietà: quella della reazione morale ad esso.

La reazione morale (diversa da quella solo emotiva, pur presente anche nell’uomo, di fuga o di attacco, depressiva o aggressiva, difensiva o paralizzante) è unicamente nell’uomo compreso nell’alternativa di disperazione o speranza.

La disperazione è, come dice la parola stessa, l’assenza della speranza. Per tale assenza non intendo, naturalmente, la constatazione medica che una malattia dolorosa è inguaribile; né per speranza intendo la possibilità di neutralizzare più o meno temporalmente il dolore con dei farmaci. Tutto ciò è naturalmente assai importante e specificamente umano, non avendo l’animale alcuna facoltà di previsione.

Ma la previsione non è la dimensione morale. Questa è profondamente connessa con la capacità simboleggiante dell’uomo, con la sua capacità di creare simboli: ossia di dare un significato al dolore.

E’ la capacità altissima di certi mistici, di dare un significato trascendente al dolore, che permette loro di chiamarlo addirittura amico, Messaggero di Dio.

Ora, se è vero da un certo canto, che tale forma di ricezione ed assunzione può arrivare al punto, soggettivo, di non volere fare nulla contro il dolore (come in S. Francesco nei suoi ultimi giorni di vita) è anche vero, dal punto di vista oggettivo, ossia duale, che la ricezione del dolore altrui sia, nel senso strettamente medico come in quello più ampiamente sociale, morale attraverso la compassione, l’amore per il sofferente, una profonda solidarietà con lui, che va al di la della stessa amicizia.

Schopenahuer considerava la compassione come la via principe della redenzione e dal dolore della vita; e la figura del Martire, primo fra tutti il Crocifisso, è il pernio dell’esistenza umana.
La compassione, la quale è dunque la dualizzazione della passione, è ben lungi dall’essere quello stato d’animo “masochista” che è un fenomeno psicopatologico; essa è piuttosto la speranza radicale, che sente nella dualizzazione l’annullamento spirituale del dolore. Solo tale annullamento è la base dell’accettazione del dolore, l’unica possibilità di dare attraverso l’amore un significato al dolore.

Il dolore, che in ultima fase è contro la vita, pur facendo parte essenziale di essa e contro la gioia divina, pur nell’insegna della Croce, trova il suo significato più profondo nel nostro voler porre la propria esistenza al servizio dell’annullamento del dolore.

Il mio pensiero si staglia così nella dialettica, che mentre da un canto io ritengo essere il dolore, per la sua presenza in Cristo e perciò in Dio, una dimensione della Trascendenza, affermo d’altro canto che l’unico significato che noi possiamo dare ad esso è il principio del suo annullamento nel che noi Cristiani sentiamo nell’amore di Cristo.

E tale annullamento è apparso in Lui nella figura della Dualizzazione: Vincens martiriis dolorem. La potenza immensa del dolore, che agita l’intera umanità, non poteva essere altrimenti superata che attraverso l’assunzione di esso da parte di Dio stesso. E poiché tale assunzione non ha altro significato che quello del Superamento, perciò la Crocifissione non può essere pensata senza la Resurrezione; questa è necessaria nel pensiero prima ancora della sua verifica storica.

II) La Psicoterapia

Ai miei occhi il problema del dolore deve, per esser vero, conoscere due direzioni: il rapporto con Dio e il rapporto con gli altri.

Oso dire che la seconda dimensione è ancora più essenziale che non una dimensione veramente teologica. Ricordo qui un collega psichiatra, più anziano di me, “coscientemente ateo”, ma che non si dà pace per il dolore dei bimbi del mondo; egli è un pedopsichiatra e a 81 anni di età gira il mondo, visita orfanotrofi e asili infantili, organizza sempre qualcosa per loro, soffre per loro e con loro, e appare a me più vicino a Dio di quanto io non lo sia.

L’aspetto interpersonale del dolore è fondante in una psichiatria rettamente intesa, ed è basilare in qualsiasi forma di psicoterapia. Senza una vera percezione del dolore altrui non esiste alcuna psicoterapia, anche se ufficialmente tale.

Qual’è l’essenza della psicoterapia? Qual’è quel nesso misterioso, che lega insieme psicoterapie tanto diverse fra loro, “tecniche” che si escludono l’un l’altra, e che vanno dalla psicoanalisi alla terapia ad orientamento analitico, dalla corrente di Freud a quella di Jung, di Adler e di tanti altri; dall’immaginazione attiva all’ipnosi, tanto per citarne solo alcune?

Mi permetto rispondere a questa domanda, che richiederebbe una trattazione, con una paginetta, con la ricerca semplice.
Direi che l’identificazione parziale col sofferente è l’aspetto fondante di ogni terapia del dolore psichico.

Per identificazione parziale intendo un “movimento psichico”, che può essere avvertito dal suo autore come interesse, attenzione, empatia, osservazione partecipe, compassione, regressione terapeutica parziale, vicinanza alla sofferenza e che è insita nella nostra capacità umana di porsi al posto dell’altro, sentirlo dal di dentro, accedere ai nodi della sua esperienza.

Una parte della propria persona sta allora per quella altrui; come ci mostrano in particolare i sogni terapeutici, relativamente frequenti nelle terapie delle psicosi, ma possibili in ogni terapia, ove si rimane sorpresi nel ritrovarsi nei vestiti del paziente, al di dentro del suo linguaggio, nel mondo della sua soggettività.

Questa stupenda facoltà umana, che è presente potenzialmente in noi tutti, e diviene nello psicoterapeuta una passione esistenziale, dà luogo a fenomeni la cui descrizione trascende questo mio breve scritto, come la “simmetria dell’Inconscio”, il “transfert” e il “controtransfert”, la “regressione” e la “progressione”.

Noi ripetiamo in noi stessi il dolore dell’altro, lo “internalizziamo”; e precisamente lo ripetiamo entro una cornice psichica diversa, aperta cioè a modi creativi di esperire che sono chiusi al paziente; per cui ciò che in lui è rimosso o dissociato, muto e incosciente, diventa in noi coscienza, parola, dolore.

Noi percepiamo in noi stessi quello che il paziente non è in grado di percepire altro che nella strettoia e nell’alienazione dei sintomi. Noi allarghiamo così l’orizzonte entro cui si stagliano i sintomi del dolore, ossia le sue distorte percezioni, per comunicargli come noi lo viviamo.

E così la coscienza intellettuale del dolore occorre nel superamento interpersonale di esso.

 

NOTE DI UN LOGICO
(Prof. Ing. Calogero Benedetti)

L’idea fondante dello scritto del Prof. Gaetano Benedetti è, (partendo dalla constatazione della presenza pervasiva del dolore a tutti i livelli esistenziali del Creato) quella dell’amore quale azione di annullamento del dolore.

Suffrago questa asserzione, rilevantissima, con l’osservare di rincalzo, per esempio:

Si innesta qui una seconda idea fondante (G. Benedetti), “che non è possibile pensare al dolore senza la coscienza del suo polo opposto, ossia la Gloria. La potenza immensa del dolore (cfr. (I) 27° capoverso) che agita l’intera umanità, non poteva essere altrimenti superata che attraverso l’assunzione di esso da parte di Dio stesso: e dunque tale assunzione non ha altro significato che quello del Superamento; perciò la Crocifissione non può essere pensata senza la Resurrezione; questa è necessaria nel pensiero prima ancora della sua verifica storica”.

Leggo ancora Isaia:
«Disprezzato ed evitato dalla gente, uomo dei dolori ed uso alla sofferenza, ...la volontà del Signore si compirà grazie a Lui. Dopo il suo intimo tormento vedrà la Luce e si sazierà della sua conoscenza.
Il giusto mio Servo giustificherà molti, perché Egli si è addossato le loro iniquità; ha offerto se stesso alla morte e fu noverato fra i malfattori; Egli si è fatto carico del peccato di molti ed intercede per i peccatori. Perciò Gli darò in possesso le moltitudini»
(Is. 53,3 e segg.)

La mente vede così, nell’implicazione esperita quotidianamente del “dolore-amore” il fondamento della Logica della Resurrezione, l’unica fra tutte le logiche possibili che dà “senso” alla vita, anzi all’esistenza dell’intero Universo Creato.

La neghi e tutto diventa “insensato”, senza scopo né significato (a che giova tutto se alla fine deve essere cancellato?), così come è la conclusione di Qoeleth (il Grande Vecchio), che “nulla ha senso sotto il sole, ma tutto è solo polvere di polvere, vento che ha fame”.
L’affermi e tutto diviene invece “significante”.
Una Luce è sorta in Israele per coloro che camminavano nelle tenebre, e li precede fino alle isole al di là del mare.

È questa la logica della Resurrezione.

Articolo precedente

Articolo successivo

[Home page | Sommario Rivista]


realizzazione webmaster@collevalenza.it
ultimo aggionamento 14 settembre, 2003