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(seguito)
“... FINO A CHE EGLI VENGA”
Paolo conclude il suo racconto della cena del Signore con queste parole: “Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice voi annunziate la morte del Signore finché Egli venga” (1Cor 11,26).
Paolo utilizza ancora l’osakis eàn (ogni volta che) che ha appena usato a proposito del calice: “Fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me” (11, 25). Questa ripetizione indica che, per Paolo, fare l’eucaristia come memoriale del Signore e proclamare la sua morte fino a che Egli venga, sono due espressioni che si spiegano a vicenda.
Proclamare traduce il greco katagghèllein, termine tecnico per indicare l’annuncio di salvezza (kerygma) Questa proclamazione non è dunque un insegnamento, una parenesi, ma l’annuncio solenne di un fatto e di una persona, attraverso la Parola e il gesto sacramentale; proclamazione che rende attuale, oggi, l’avvenimento della salvezza compiuto nella croce di Cristo1.Questa proclamazione liturgica che attualizza la salvezza si pone sulla stessa linea della proclamazione del padre di famiglia ebraico nella cena pasquale: “Si fa così per tutto quello che il Signore fece per me quando uscii dall’ Egitto” (Es 13,8).
In quanto azione di grazie davanti a Dio e proclamazione della morte del Signore, l’eucaristia ha un carattere escatologico, come è sottolineato dal testo finale di Paolo: “...fino a che Egli venga” (1Cor 11,26).
I tre sinottici riportano, con qualche variante, un’insolita espressione di Gesù durante l’ultima cena che sembra una specie di voto: “In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel Regno di Dio” (Mc 14,25; cf Mt 26,29; Lc 22,18).
Il fatto insolito di non bere al calice del banchetto pasquale (“prendetelo e distribuitelo tra voi”)2 è spiegato dal voto che Cristo pronuncia: Egli non vuol più bere vino finchè il Regno di Dio sia venuto3.
Luca riporta una frase analoga a proposito della cena:
“Ho desiderato di un gran desiderio mangiare questa pasqua con voi prima di soffrire! Poichè vi dico che non la mangerò più finchè non sia compiuta nel Regno di Dio” (Lc 22, 15-16)4.Ma che cosa significa questo “voto di rinuncia”? Nel tardo giudaismo, e anche ai tempi di Gesù, il voto di rinuncia aveva un triplice significato5:
- Prima di tutto si fa voto di astinenza per far pressione su qualcuno e per significare che una decisione è irrevocabi1e (Cf. At 23,12; 14,21).
- In secondo luogo si fa voto di astinenza per ragioni spirituali; il voto di nazireato, considerato come una consacrazione totale a Dio, aveva questo significato (Nm 6; cf. Lc 7,33; Mc 1,6; Lc 2,36s: profetessa Anna; Mt 19,12: celibato per il Regno)
- Infine il voto di astinenza veniva fatto per accompagnare una preghiera, per darle una maggior insistenza; così il voto s’identifica spesso con la preghiera6.
Nel voto di astinenza pronunciato da Gesù possiamo riconoscere i tre significati che si compenetrano a vicenda.
- Anzitutto Gesù vuol far capire ai suoi discepoli l’ irrevocabilità della sua decisione di aprire la via al Regno di Dio con la sua passione e morte: eliminando dalla sua vita il banchetto festivo e il vino si prepara con decisa volontà a bere l’amaro calice che il Padre gli porge.
- In secondo luogo Gesù con questo voto pone un segno del completo distacco della sua vita da questo mondo e della sua totale consacrazione al Padre per la sua gloria. Nella “preghiera sacerdotale” dell’ultima cena egli dice: “Per loro io consacro me stesso, perchè siano anch’essi consacrati nella verità” (Gv 17,19).
- Infine, ed è l’aspetto più caratteristico del voto d’astinenza, Gesù dà ai suoi discepoli il simbolo di una preghiera incessante e pressante per il Regno. Impegnandosi a non bere più il frutto della vite e a non mangiare più la Pasqua “fino a che non sia compiuta nel Regno di Dio”, Gesù esprime una supplica ardente per la manifestazione del Regno stesso. Il limite posto al suo impegno di astinenza è il compimento della Pasqua nel Regno: e la Pasqua sarà compiuta quando si manifesterà nella sua pienezza il Regno di Dio e si compirà la liberazione definitiva con il ritorno di Cristo.
È nell’attesa di questo compimento che si colloca l’Eucaristia della Chiesa. Per la comunione al corpo e al sangue di Cristo noi fin d’ora esperimentiamo i frutti della liberazione ottenuta dall’ Esodo di Cristo da questo mondo al Padre. Entriamo già ora nel Regno partecipando all’alleanza definitiva, ma attendiamo nella speranza la sua piena manifestazione nella pasqua escatologica, quando il Signore tornerà.
Max Thurian afferma che “Pasqua nella sua pienezza sarà semplicemente un’ Eucaristia che Cristo presiederà visibilmente e alla quale tutti i fedeli di tutti i tempi parteciperanno visibilmente”7. Senza addentrarci in queste concretizzazioni, avvolte nel mistero di ciò che Dio ha preparato per coloro che ama, è lecito affermare che questa Pasqua definitiva in cui tutti “mangeranno e berranno alla sua tavola nel suo Regno” sarà una perfetta comunione, una comunione senza veli fra il Signore e gli uomini su una terra nuova e sotto un nuovo cielo. E allora sarà la fine, quando Cristo consegnerà il Regno al Padre.
La prospettiva di questa Festa eterna con Cristo, nel suo Regno, deve rimanere sempre viva nella Eucaristia della Chiesa, pena il suo impoverimento e la sua sclerosi. In quest’atmosfera di speranza gioiosa, l’Eucaristia è una pressante preghiera, un’ardente supplica perché il Signore ritorni.
La certezza incrollabile della Chiesa deriva dal fatto che la sua voce si unisce a quella del suo Signore, già ora presente, anche se deve venire. Questo duplice senso dell’Eucaristia, che inizia il Regno ma non lo esaurisce, in cui Cristo viene ma non definitivamente, viene espresso dall’acclamazione aramaica della liturgia eucaristica primitiva: MARANATHA!, che può leggersi sia “Marana tha = Signore vieni!”, sia “Maran atha = il Signore viene!”.
L’Apocalisse si chiude proprio con questo grido che raccoglie tutta la fede della Chiesa nel suo Signore: “Colui che attesta queste cose dice: ‘Sì, verrò presto!’. Amen! Vieni, Signore Gesù!” (Ap 22, 20)8
BIBLIOGRAFIA:
M. THURIAN, L’Eucaristia, Roma 1967.
J. JEREMIAS, Le parole dell’ultima cena, Brescia 1973.
A. S. TOAFF, Haggadah di Pasqua, Roma 1960.
V. CASTIGLIONI, Mishnaiot I-II, Roma 1962.
O. MICHEL, art. mimnèskomai, GLNT VII, col. 299, Brescia 1963.
BEHM, art. anàmnesis, GLNT I, col. 939, Brescia
C. SPICQ, L’epître aux Hébreux, Paris 1953.
J. de WATTEVILLE, Le sacrifice dans les Textes eucharistiques des premiers siècles, Neuchâtel 1966.
L. BOUYER, Eucaristia, teologia e spiritualità della preghiera eucaristica, Torino 1969.
1 Cf M. THURIAN, o. c., p. 230.
2 Di solito si porgeva il calice senza dir parola e questo passava in silenzio tra i commensali.
3 Gesù non ha accettato il vino misto a mirra che gli è stato offerto sulla croce (cf Mc 15, 23 e par.)
4 Cf. J. JEREMIAS, o. c., p. 258ss: l’autore, addirittura, mostrando da più passi lucani che epithymein con l’infinito esprime un desiderio inappagato (Lc 15,16; 16,21; 17,22; 22,15) traduce così questo passo: “Ben volentieri avrei mangiato con voi quest’ agnello pasquale prima della mia morte”, ponendo così la dichiarazione di rinuncia fatta da Gesù all’inizio stesso della cena.
5 Cf. J. JEREMIAS, o. c., p. 264ss.
6 “Tu, o Dio, hai ascoltato i miei voti” (Sal 61,6; cf. Sal 65,2s). Sul significato generale del voto che rafforza la preghiera cf. 1Sam 14,24-30; 2Sam 12,16; Dan 9,3; Est 14, 16; Mc 9,29 ecc.
7 M. THURIAN, o.c., p. 238.
8 Nell’ acclamazione che la riforma liturgica ha posto dopo la consacrazione eucaristica si esprime la stessa fede: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione nell’attesa della tua venuta!”. Altre versioni linguistiche traducono alla lettera il maranatha: cf. lo spagnolo “Ven Señor Jesùs!”.
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ultimo aggiornamento
24 luglio, 2005