Dalla lettera di san Paolo apostolo a Tito (2,11-14) Figlio mio, è apparsa
la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini
e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani
e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e
con pietà, nell’attesa della beata speranza e della
manifestazione della gloria del nostro grande Dio e
salvatore Gesù Cristo. |
Raggiunti dalla grazia del Signore, nato a Betlemme per noi
T
I versetti Tt
2,11-14 rappresentano la parte spiccatamente teologica del capitolo, che
motiva le sezioni esortative (cf. Tt 2,1-10), mostrando come la forza
dell’argomentazione paolina sia la potenza della rivelazione di Dio, nella
storia. Se ci fermiamo a meditare, lasciando allo Spirito di guidarci, nelle
insondabili ricchezze del Mistero di Cristo, che si riverbera nella sua
Parola, ci rendiamo conto che la nostra fede è la risposta libera dell’uomo
a Dio, che si manifesta nella nostra vita, secondo il mistero della sua
volontà. Scrive l’autore "è apparsa la grazia di Dio" (2,4) e poi,
ritornando sullo stesso concetto, rafforzato dalla ripresa del medesimo
verbo, appunta "quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro e il
suo amore per gli uomini" (3,4). L’uomo, sembra di poter leggere tra le
righe, non può giungere a Dio con le sue forze – "Dio nessuno l’ha mai
visto" (Gv 1,18) – e resta un mistero la sua natura ed il progetto della
sua volontà. È Lui che, liberamente, si rivela, perché vuole rivelarsi – "Piacque
a Dio, nella sua bontà e sapienza, rivelare se stesso ed il mistero della
sua volontà" scrive il Concilio in "Dei Verbum"– desidera
intrattenersi con gli uomini, "per invitarli ed ammetterli alla comunione
con sé". E mentre il salmista può dire "se tu non mi parli, io sono
come chi scende nella fossa" (Sal 28, 1), così ogni credente deve
confessare il primato di Dio nella sua vita di fede. È Dio che, poiché "ci
ha amati per primo" (1Gv 4,19), si è manifestato (cf. 1Gv 1,1). È questo
che celebriamo oggi, la rivelazione di Dio nella nostra storia. Il Creatore
che in antico aveva dato prova del suo amore e della sua fedeltà, dando
fondo al suo amore, realizza la sua volontà e, per manifestarsi in modo
definitivo, si fa uomo, inviando nel mondo il suo Figlio come salvatore.
L’Incarnazione è il punto di arrivo di una dinamica rivelativa che Dio ha da
sempre vissuto, entrando nella nostra storia e che continua a vivere sempre,
per raggiungerci e donarci la salvezza. Non accadrà così anche per i
discepoli, dopo la resurrezione? Impauriti e increduli, vedranno il Signore,
passato attraverso la morte, perché sarà Lui a farsi vedere, nel mistero
della sua bontà. L’Apostolo vuole che Tito e la sua comunità cresca nella
consapevolezza che noi siamo nelle tenebre se Dio non ci illumina dall’alto
come sole che sorge, noi siamo nel peccato, se la grazia divina non ci
raggiunge e trasforma dal di dentro, rimaniamo nella morte, se la vita del
Signore non ci comunica quell’amore, capace di strapparci dalle tenebre, per
farci rivivere grazie a Lui e vivere in Lui.
È importante capire per esperienza che è sempre Dio a raggiungerci, a fare
il primo passo, a prendere l’iniziativa, ad illuminare il nostro cuore e
aprire la mente, come accadde ai discepoli di Emmaus, all’intelligenza delle
Scritture. Come i pastori, dobbiamo riconoscere i segni che Dio lascia nella
nostra vita, lasciando che la gloria di Dio ci avvolga di luce, dandoci la
grazia di prendere il cammino verso la stalla di Betlemme. Dio si
manifesta, sappiamo riconoscere la sua presenza? Il Signore si rivela,
comprendiamo i segni del suo apparire? Tutto intorno a noi parla della bontà
di Dio, viviamo ogni giorno nello stupore e nella gratitudine?
Avvolti dalla grazia, al pari dei pastori
"È apparsa"
scrive Paolo ed il soggetto agente è costituito ora dalla grazia (2,11) o
dalla bontà e dall’amore (3,4), termini tra loro interscambiabili, quasi a
dire che il Signore, nel suo manifestarsi è mistero di gratuità, effusione
di amore per necessità di essere – Dio non potrebbe essere diversamente da
come è e da come mostra di essere – ci raggiunge con la sua benevolenza, nel
suo Figlio Gesù, ci mostra il volto che Mosè non poté contemplare, pur
volendolo, la sua bontà ed il suo amore di elezione. I concetti si
arricchiscono a vicenda, è quasi una corsa ad esprimere, con parole umane,
l’inesprimibile mistero della vita di Dio che si comunica in Cristo. Si dice
una parola e poi l’altra, che verrà dopo la richiama, la colora di nuovo,
vuol mostrare una profondità maggiore, una luce più chiara. Il desiderio
dell’autore ispirato è lo stesso del credente, che vuole dare visibilità
sempre maggiore alla potenza di Dio, cha abita il suo cuore, illumina la
mente ed accende nell’animo suo il fuoco della presenza divina. Mai deve
venire meno questo desiderio di correre nell’esprimere l’amore, di dargli
vivacità di accenti, di accumulare parole diverse, pur di dargli voce – a
patto che siano parole autenticamente dette e sapientemente cercate! –
perché l’amore non può a lungo celarsi, né per sempre nascondersi. Paolo
lascia che l’amore in lui esploda, che Gesù Cristo, incontrato sulla via di
Damasco e, in seguito, sempre nuovamente cercato e trovato, perché Lui ci
cerca e ci trova, scandisca il suo annuncio e motivi l’impegno pastorale. Se
anche il nostro ministero, da presbiteri e genitori, fosse scandito
dall’ansia di donare l’amore che ci portiamo nel cuore, dal desiderio di
tradurre l’esperienza di fede, di trasmettere il Dio che ci ha parlato e ci
è venuto a cercare! Noi dobbiamo sapere per esperienza – senza esperienza
diretta, quello che diciamo non incide nella nostra vita e le parole che
pronunciamo sono vuote, seminano vento e raccolgono tempesta – Dio è buono e
fa il bene. Con il salmistra, solo allora potremo cantare "Paziente e
misericordioso è il Signore, lento all’ira e ricco di grazia. Buono è il
Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature" (Sal
144,8-9). Perché non riusciamo ogni giorno a trovare del tempo per
contemplare la presenza di Gesù che nella nostra vita è grazia e bontà? Lui
appare agli occhi del nostro cuore, brilla evidente nella mente che lo
cerca, all’anima che lo attende, come le sentinelle l’aurora. Cristo non si
fa aspettare e, se invocato, viene, se supplicato corre, se sa che un suo
discepolo anela alla fonte della vera vita, si mostra, nello splendore della
sua gloria e lo circonda della luce nuova del suo amore.
L’uomo che
sperimenta l’apparire di Dio si ferma, estatico e cresce nella
consapevolezza che Dio è grazia su grazia, che Lui è buono e fa il bene e
più noi sperimentiamo ogni giorno i limiti e le difficoltà nostre e dei
fratelli, maggiormente brilla in noi il mistero della sua luce. Dio non ha
paura del nostro buio, anzi, lì dove il buio signoreggia e sembra prevalere,
Lui appare come grazia che perdona e bontà che cura. Anche i pastori, nella
notte santa del Natale del Signore sperimenteranno la gratuità dell’amore di
Dio, che li raggiunge, attraverso l’angelo, vivranno lo stupore di essere
stati prescelti, per camminare nella luce, attraversando la notte, di
trovare nel Bambino Gesù, "avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia" la
risposta ad ogni dubbio che il cuore dell’uomo sente. Dio appare, ci
circonda con la sua grazia, ci riempie della sua forza, ma i nostri occhi
devono riconoscere il suo apparire, devono aprirsi a riconoscere la sua
presenza, a lasciarsi interpellare dalla sua azione. Non ci capiti di
cadere, come Cleopa ed il suo compagno, sulla via da Gerusalemme ad Emmaus,
di avere gli occhi incapaci di riconoscere la luce del Signore, il suo
apparire potentemente nella nostra vita e, qualora questo dovesse capitare,
chiediamo che i nostri occhi, come quelli di Tobi, unti con il farmaco della
misericordia, con il collirio dell’amore, che solo Cristo può donare, si
aprano a contemplare la bellezza della presenza luminosa di Cristo
salvatore. L’amore di Dio e, di rimando, l’amore suo in noi che è Spirito
effuso dal costato di Cristo, è mistero di gratuità e di benevolenza. Se il
nostro affetto non ha queste caratteristiche, se cerchiamo il tornaconto e
guardiamo all’interesse, se l’appropriazione si insinua nelle intenzioni più
rette, nei pensieri più santi, nelle idee più alte, senza che noi iniziamo a
guerreggiare contro il nostro egoismo, perché il rinnegamento lo estirpi,
attraverso un serio cammino di conversione, dal nostro cuore, allora non
possiamo dire che lo Spirito abita in noi, i nostri rapporti sono plasmati
dalla sua grazia, i nostri sguardi e parole sono il riflesso della bontà di
Dio. Questo perché – è lo stesso testo biblico ad indicarlo con chiarezza –
siamo chiamati a scelte concrete e testimoniare nella vita la potenza di Dio
che viene a visitarci dall’alto. La grazia, la bontà di Dio, il suo amore è
potenza di trasformazione e di conversione. Come i santi Magi ritornano nel
loro paese, per un’altra strada, così anche noi dobbiamo vedere che Dio
opera in noi e noi siamo chiamati a farlo operare, in una vita santa, che
diventa esplosione di carità di perdono ed accoglienza degli altri.
Scrive sempre
l’Apostolo, "la grazia di Dio apporta salvezza", la bontà e l’amore
suo "ci salvò … per la sua misericordia". Se lasciassimo a Dio di
muoversi liberamente in noi e tra noi! Se la potenza della sua grazia, che è
amore e bontà infinite, ponessero in noi la sua dimora, la nostra vita
sarebbe come un granaio, dove tutti possono attingere per nutrirsi, come un
alveare, nelle cui celle la dolcezza del miele non è calato, ma conserva
tutto per dilettare, per rallegrare. Cristo porta salvezza. Che amore
possiamo dire di avere per la persona che ci vive accanto, se non riusciamo,
con il nostro affetto, con la cura e la presenza, a donargli la salvezza che
spera, la liberazione che desidera? L’amore dona salvezza, perché riscatta
il reo dalla sua schiavitù, strappa dalla polvere, in cui si raggira chi è
caduto e non sa risollevarsi, perché soffre per il dolore dell’altro ed è
disposto a dare la propria vita, perché l’amato viva. Non è forse quello che
fa Gesù, giungendo al dono della sua vita, nel sacrificio della croce?
L’amore deve operare la salvezza, la bontà deve mostrare che tutto è fatto
come segno di misericordia. La nostra vita e la nostra famiglia e comunità,
i rapporti che ci rallegrano, le amicizie che ci arricchiscono, anche le
situazioni che ci spingono a metterci in gioco e a far fruttificare i
talenti che ci sono stati dati, sono un segno della misericordia. Se
riuscissimo a passare dal vivere, credendo che tutto ci è dovuto, al
considerare che ogni realtà è un dono della misericordia divina, attraverso
le persone che ci sono accanto. In tal caso, non saremo più soggetti alla
pretesa, il cui giogo il nostro egoismo ci impone, ma vivremo nel dono e
nello stupore, perché tutto è amore gratuito che il Signore mi manifesta.
Se, invece, lascio che il tarlo del nemico mi porti a pensare che io faccio
e gli altri non mi considerano, che io amo e l’altro non sa ricambiare
l’affetto, né mostrarmi attenzione, cadrò nella trappola del tornaconto ed
il mio amore non sarà il segno di ciò che Dio può operare nella vita docile
del credente, rendendolo partecipe dell’amore crocifisso del suo Figlio.
Paolo dice che "egli ci ha salvati, non per le opere giuste da noi
compiute, ma per la sua misericordia" (3,5). Solo l’amore ci salva, di
Dio per noi e nostro nei riguardi dei fratelli. Non sono i progetti o le
idee a salvarci, non i programmi pastorali o le dinamiche che attuiamo, dopo
un attento studio delle situazioni. Senza amore, tutto è vano, senza
misericordia, la cui fonte è resa sempre il Cuore del Risorto, non potremo,
se non vivere soggetti alle passioni del nostro egoismo, mai spaziare nel
cielo dell’amore che ci dona la libertà di non attendere il contraccambio.
Amare non significa guardare a ciò che io faccio, se non per vedere
cos’altro posso ancora attuare, perché l’altro abbia la vita; amare non
significa credersi giusti, come i farisei, pronti a disprezzare o giudicare
gli altri, perché sono diversi da noi e vivono, secondo una consapevolezza
che, oltre ad essere diversa da noi, li porta a vivere di conseguenza; amare
non vuol dire tenere l’occhio fisso su ciò che si fa o non si fa, pronti a
misurare e pesare le azioni e le intenzioni. Amare significa coprire ogni
realtà di misericordia, guardare con gli occhi di Dio che non tiene conto il
male, l’errore ed il peccato, abbracciare di tenerezza ogni realtà,
infondere fiducia in ogni situazione, perché è Cristo la nostra speranza e
Lui non viene mai meno, sempre fedele all’amore che nutre per noi, sempre
uguale all’amore che Egli è da sempre e per sempre.
Permeati dalla grazia divina
Paolo,
nell’indicarci l’amore di Dio che libera e salva e "ci insegna a
rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con
sobrietà, con giustizia e con pietà" (2,12), offre un’immagine
significativa, nel giorno in cui celebriamo il Battesimo di Gesù. La
salvezza, frutto della grazia, della bontà e dell’amore, ci ha arricchiti "con
un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo, che Dio ha effuso su di
noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro" (3,5). Non
si parla direttamente del battesimo, ma è chiaro il riferimento al
sacramento – si pensi al termine lavacro, reso in italiano, nella traduzione
CEI 2008, con acqua – che ci rende figli di Dio, eredi con Cristo del
Regno e fratelli fra noi, per il dono dello Spirito. È l’acqua del fonte che
ha la forza del Consolatore per rigenerare e rinnovare. È questo il
miracolo, la trasformazione che Dio Padre opera in Cristo, attraverso la
forza del suo amore, per mezzo dello Spirito che ci è stato dato. Nella
Pasqua di Cristo, dal suo costato trafitto, è sgorgata su tutta la comunità
dei credenti, la Chiesa, l’acqua dello Spirito che fa zampillare in noi la
vita divina. Il battesimo è lavacro di rigenerazione e rinascita. In esso
rinasciamo figli e veniamo rigenerati, per iniziare un’esistenza scandita
dall’amore che Cristo ha nutrito per noi. Siamo chiamati a gettare le
opere delle tenebre e a rivestirci delle armi della luce, a camminare in
pieno giorno, sapendo che siamo portatori della luce di Dio, e che in noi lo
Spirito è forza continua di rigenerazione e di rinascita. Difatti, se un
giorno abbiamo ricevuto il sacramento del Battesimo, gli effetti, la
presenza dello Spirito di Cristo risorto e la sua azione, sono sempre con
noi. La vita cristiana rappresenta, quindi, una continua esperienza
spirituale di illuminazione interiore, di rigenerazione nella misericordia,
di rinnovamento del proprio egoismo, nel dono accolto e concesso agli altri.
Vivere il mistero del Natale significa decidersi per Cristo, lasciando che il suo amore in noi operi secondo la volontà del Padre. Raggiunti dalla luce del Signore, purificati nella potenza del suo amore, siamo chiamati a rispondere all’amore con l’amore e a deciderci per una vita nuova e vera. Non ha senso celebrare il Natale, senza gettare le opere delle tenebre, non serve deporre una statuetta del Bambino Gesù nel presepe, senza "rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà". Vivere da salvati, vivere nella luce del Cristo che nasce a Betlemme, vivere nello stupore di sapere che Dio ci ama di un amore che per noi, per quanto vogliamo impegnarci a comprenderlo, rimarrà sempre un mistero, vivere, sapendo di donare ai fratelli, il chiarore della gloria del Signore, attraverso la bontà dei nostri gesti e della grazia delle nostre parole: è questo il senso del Natale. Che il Signore ci conceda la luce della sua visita e la grazia di vivere nella luce della presenza di amore e di gioia, di pace e di concordia, di bontà e di vita, senza fine. (Punto Famiglia 2019)
Fra Vincenzo Ippolito
appartiene all’Ordine dei Frati Minori (1998) ed è presbitero (2008). Licenziato in sacra Scrittura (2008), vive nella Fraternità di Eremo presso il Santuario dell’Incoronata di Montoro (AV) ed insegna sacra Scrittura al Seminario Metropolitano di Salerno. Da vari anni collabora alla rivista Punto Famiglia con articoli di spiritualità biblica.
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ultimo aggiornamento
11 gennaio, 2022