STUDI
Paolo Martinelli

Amore misericordioso e paternità di Dio

 

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(Seguito)

III «Tam Pater nemo, tam pius nemo»

Vogliamo ora fare un ultimo passo e domandarci quali tratti della paternità di Dio emergano dalla misericordia comunicataci dal mistero pasquale. Cristo, come abbiamo visto, in tutto ciò che è e che fa imita il Padre: «il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre suo» (Gv 5, 18-21). Gesù può affermare con certezza che lui e il Padre sono «una sola cosa» (Gv 10,30) e perciò che chi vede lui «vede il Padre» (Gv 12,45; 14,9). Di conseguenza in ciò che Cristo ha compiuto nella storia della nostra redenzione non può esserci qualcosa che non riguardi in un certo senso la vita divina. Questo vuol dire innanzitutto riconoscere l’implicazione della paternità di Dio nello stesso sacrificio del Figlio. Con ciò pensiamo che occorra prendere decisamente le distanze da tutte quelle interpretazioni del mistero pasquale che non vedano l’intero mistero trinitario impegnato in questo «teodramma». Ciò che noi contempliamo nel Figlio, che dà la vita in obbedienza fino alla morte di croce, è esattamente il dono del Padre: la paternità divina è totalmente implicata nella missione del Figlio (Gv l4, 10).

1. Qui si pone evidentemente, un problema teologico circa il valore di ciò che vediamo nella economia della salvezza, in particolare la sofferenza e la morte, rispetto al piano della immanenza divina29. Molto efficacemente F.X. Durrwell si domanda a questo proposito: «Ma è possibile proiettare il mistero della croce fin nella eterna interiorità divina e parlare di una passione al tempo stesso del Padre e del Figlio? Come non può morire, così Dio non può soffrire allo stesso modo degli uomini, la sua trascendenza lo colloca fuori dalla portata della sofferenza e della morte»30. Evitando perciò con cautela tutte le affermazioni che iscrivono direttamente in Dio ciò che Gesù sperimenta nella sua carne come dolore e morte31, tuttavia, occorre riconoscere quanto la paternità di Dio sia implicata nel sacrificio che Cristo compie per noi sulla croce32. Crediamo che occorra, allora, radicarsi pienamente nel dato emergente nel Nuovo Testamento e dunque prendere seriamente il coinvolgimento di Dio nel mondo in Cristo fino alla morte di croce in cui si compie la kenosi. Dall’altra parte, tuttavia, occorre portarci a contemplare il mistero originario in essa rivelato, attraverso, in qualche modo, una teologia negativa che impedisca di far coincidere il processo del mondo con il processo in Dio33, ma che tuttavia contempli in Dio il presupposto del suo reale coinvolgimento nel pathos dell’uomo34. In tal senso allora il mistero pasquale ed il coinvolgimento in essa della Trinità ci spinge a considerare il mistero santo di Dio come un mistero di dedizione infinita e assolutamente libero in se stesso da rendere possibile la creazione di libertà finite e l’impegno di Dio fino alla croce, senza che questo debba rappresentare una necessità per Dio35.

2. Tenuto conto di questa considerazione, si può allora affermare che se il Figlio, che fa solo ciò che vede fare dal Padre suo, può consegnare se stesso, in un movimento di autosvuotamento totale fino alla morte di croce, allora ci sembra che il Padre si presenti come colui che da sempre è l’Eterno Generatore, ossia colui che dà tutto di sé, senza nessun calcolo o residuo, al Figlio: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (Gv 16,15). Ciò che Gesù compie nel tempo è reso possibile dal suo eterno essere generato dal Padre, come estremo dono di sé all’altro, affermato come assolutamente positivo. Il Padre, eternamente generante, è la fonte e l’origine di tutta la divinità. L’eterno darsi del Padre al Figlio appare come una comunicazione totale di sé all’Altro, che, tuttavia, non implica per il Padre un perdersi, in quanto tale movimento è ciò che lo costituisce come Padre dall’eternità36.
Questo movimento di donazione è stato descritto in modo assai suggestivo. G. Greshake, ad esempio, nel suo recente studio sul mistero trinitario afferma che «Il Padre è nella ritmica dell’amore il dono originario (Ur-Gabe)» che «non può essere isolato» -neppure nel pensiero- dalle altre due Persone» in quanto è «il sempre-via-da-sé verso gli altri [Figlio e Spirito]» a tal punto da essere il «non-in-sé ma nell’altro»37.
Von Balthasar, appoggiandosi alle considerazioni di S. Bulgakov38, è arrivato ad identiticare audacemente questo evento eterno come una assoluta «kenosi originaria» del Padre che svuota se stesso dando tutto al Figlio39. Anche Durrwell, a dire il vero, descrive la generazione in modo similare quando sostiene che «essendo un infinito amore, l’onnipotenza è la capacità di Dio di essere dono di sé illimitato, di svuotarsi infinitamente nella generazione del Figlio. Dio è pienezza in questo vuoto di sé, la sua potenza è nella paternità, nella quale egli è Dio»40.
Tale concetto ardito, per essere ben compreso, non deve essere confuso con la kenosi economica del Figlio e perciò non può indicare in alcun modo una mutazione in Dio, ma piuttosto il suo essere da sempre assoluto dono di sé41. Poiché non è pensabile che il Padre sia mai stato senza il Figlio (arianesimo, occorre affermare che Dio è tale solo nella generazione eterna ossia in questo esprimersi totalmente del Padre amante nel Figlio amato e nella spirazione dello Spirito del loro comune amore42. Il Padre non può essere, appunto, pensato «prima» di questa autodonazione. Von Balthasar afferma in modo commovente che «Nell’amore del Padre si trova una rinuncia assoluta ad essere Dio solo per se stesso, un lasciar andare dell’essere divino»43. Egli in tal modo possiede la divinità in quanto donata; il Padre dà tutto di sé e proprio in questo è l’eterno Padre.
Il Figlio trae eternamente la sua identità proprio dalla accettazione di questo eterno donarsi del Padre; cosicché il Figlio si presenta come l’eterno accogliersi dal Padre, la sua perfetta espressione, sua immagine, in una estrema gratitudine che eternamente fa eco al dono di sé originario del Padre, rimettendosi, quindi, completamente nelle sue mani44. Questa santissima e perfetta reciprocità tra le persone divine si esprime eternamente nella spirazione dello Spirito Santo, che il Padre, donando tutto al Figlio, concede al Figlio di spirare con lui, quale Spirito dell’amore di entrambi. Tutto ciò non può che, umanamente parlando, essere al di là delle categorie di libertà e necessità; il movimento di autodonazione trinitaria coincide con la sua stessa natura: Dio è amore45.
L’eterna generazione così descritta conduce a cogliere il paradosso di una perfetta simultaneità di una infinita distanza, quella tra il Padre eternamente generante e il Figlio eternamente generato, e della loro intimissima unità, nello Spirito d’Amore46. In questa eterna dedizione, in cui le divine persone sono l’una per l’altra e nell’altra, troviamo il fondamento di ogni altra distanza e dedizione spazio-temporale. In tal modo, in questa affermazione della Paternità di Dio troviamo anche la condizione di possibilità per ogni altro dono di Dio, dalla creazione di libertà finite, fino all’impegno del nuovo patto sigillato nella croce del Figlio17.
Così ci è possibile ritornare a Cristo, e scoprire di più le ragioni del suo essere per noi la misericordia del Padre. Il Figlio infatti può vivere la sua missione nel tempo e dare se stesso a noi fino alla morte in quanto radicato nella eterna processione della generazione paterna, in cui egli in una eterna eucarestia si riceve dal Padre. La «differenza nell’unità» tra il Padre e il Figlio nella eterna generazione è dunque fondamento adeguato per l’assunzione da parte del Figlio nella carne di ogni altra distanza, compresa quella del peccato, ossia quella provocata dal non riconoscimento del Padre49. La libertà umana appare allora come una partecipazione creata di questo riceversi del Figlio dal Padre nello Spirito. Per questo Cristo può, proprio grazie alla sua eterna generazione e per il suo nesso originario con la creazione di libertà finite, entrare nel mondo, e mediante il suo dono encaristico purificarci da ogni peccato, e costituire così una alleanza eterna.

«Tam Pater nemo, tam pius nemo» 49 affermava Tertulliano commentando la parabola del Padre misericordioso nel vangelo di Luca. Nessuno è così padre come il Padre del Signore nostro Gesù Cristo, eternamente Generante, Colui che è da sempre nel dono di sé al Figlio, eternamente Generato, e nel comune Spirito Santo. Nessuno sa essere così padre per l’uomo come Chi sa rendere utile al cammino di ciascuno anche l’errore e il peccato, e che sa trarre anche dal male un nuovo percorso di bene. In tal senso pensiamo di aver messo in evidenza l’opportunità di riscoprire Dio come Padre di tutti a partire dall’amore misericordioso rivelatoci in Cristo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio»! (Gv 3,16). Di conseguenza il mistero pasquale, come mistero di morte e risurrezione, è la permanente icona di questa misericordia. Da questa divina paternità prende certamente nome ogni altra paternità sotto il cielo. Ciò significa, come ci mostra il Figlio, che l’uomo, per poter dare e comunicare veramente vita, non smetta mai di essere a sua volta generato nel presente e non perda mai questa posizione di figliolanza. La Chiesa, come Sposa del Verbo e corpo di Cristo, vivificata dallo Spirito «di figli adottivi», è per noi il luogo in cui rinascere continuamente, mediante l’inclusione sacramentale in Cristo, per poter gridare con sempre maggiore verità e convinzione a Dio: Abbà, Padre!
Da questa divina paternità rivelataci in Cristo nella potenza dello Spirito occorre lasciarsi continuamente generare per comprendere così il nostro compito, la nostra missione personale ed il senso di ogni rapporto che viviamo. Nel riconoscimento di questa paternità è data, infatti, la possibilità di una positività ultima di tutto il reale, di una accoglienza vera e rinnovata di se stessi e di una indomabile affermazione gratuita e amorosa dell’altro.

Nota biografica
Paolo Martinelli (1958 Milano), frate cappuccino, ha studiato Teologia presso lo Studentato Teologico San Francesco di Milano e presso la Pontificia Università Gregoriana, dove ha conseguito la licenza in Teologia Fondamentale ed il dottorato di ricerca. Ha pubblicato La morte di Cristo come rivelazione dell’amore trinitario nella teologia di H.U. von Balthasar, Jaca Book, Milano 1996. Attualmente vive a Roma ed insegna teologia alla Gregoriana e all’Antonianum.

Estratto da «Communio»
n. 164, Marzo-Aprile 1999

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29 Questo problema ha il suo referente nella più ampia problematica del rapporto tra la Trinità economica e immanente: cfr. L. Ladaria, El Dios vivo y verdadero. El misterio de la Trinidad, Salamanca 1998, pp. 23-39.

30 F.X. Durrwell, Il Padre nel suo mistero, p. 153. Lo stesso autore aggiunge che «ai nostri giorni, molti autori parlano della sofferenza di Dio. Il loro merito è quello di dire che il mistero divino è sacrificale, che la perfezione infinita di Dio non è quella di un diamante che brilla nella sua impassibilità minerale. Ma se la passione di Gesù proclama l’autenticità di un amore sempre immolato, tuttavia è sicuro che Dio è fuori dalla portata della sofferenza quale gli uomini la conoscono... se in Cristo nella sua sofferenza è il volto del Padre, si può parlare della sofferenza di Dio solo dicendo: in Dio esiste qualcosa di simile alla sofferenza di Cristo, ma questo qualcosa è il contrario della sofferenza umana», Ibid., pp. 154s.

31 Cfr. ad esempio i pur suggestivi lavori di J. Moltmann, Il Dio crocifisso. La Croce di Cristo fondamento e critica della teologia cristiana. Brescia 1973, K. Kitamori, Teologia del dolore di Dio, Brescia 1975; si pensi anche in generale alla impostazione della teologia del processo espressa da Whitehead, autore di Processo e realtà.

32 Suggestiva rimane l’impostazione di J. Galot, Il mistero della sofferenza di Dio, Roma 1990. Cfr. anche J. Maritain, Quelques rèflexions sur le savoir théologique, in Rev. Thom. 77 (1969) 5-27.

33 H.U. von Balthasar, Teodrammatica, IV, 302: «Ogni forma di teologia del processo, che identifica il processo del mondo (unitamente all’impegno di Dio in esso fino alla croce) con il “processo” senza tempo delle ipotesi in Dio, è a rigore vietata».

34 Ibidem. IV, 302.

35 Ibidem. II: Le persone del dramma. L’uomo in Dio, Milano 1982, p. 243.

36 Ibidem. II, 118: «Ciò che il Padre generando il Figlio dona a questi è la perfetta indivisibile divinità che egli possiede, ma la possiede solo in modo che egli, l’imprepensabilmente generante, la possiede come donata. Si può sì cautamente dire che il Padre generando “non ha dato la sua sostanza al Figlio in modo da non averla più lui” (DS 805)), ma è altrettanto vero il contrario: che egli cioè rimane l’eterno Padre perché ha dato tutto il suo, ivi compresa la divinità, al Figlio».

37 G. Greshake, Der dreieine Gott. Eine trinitarische Theologie, Freiburg - Basel - Wien 1997, p. 207.

38 Questo il passaggio sintetico nel suo L’agnello di Dio, p. 154: «Il Padre trova se stesso, come propria natura, non in sé e per sé, ma uscendo da sé, generando il Figlio, come Padre. La paternità è infatti la forma di amore in cui l’amante vuole essere se stesso non in sé, ma fuori di sé, per dare il proprio io a quell’altro io che pure egli identifica con sé e per manifestare il proprio io nella generazione spirituale, nel Figlio che è la viva immagine del Padre. Nella vita di Lui e non in sé, vive il Padre generando, cioè uscendo da sé, aprendosi... Questa forza generatrice è estasi nell’uscita da sé come un autoannichilamento... Generare è per il Padre autoimmolazione dono di sé al suo Altro». Per una attenta analisi della descrizione kenotica di Dio in Bulgakov cfr. P. Coda. L’Altro di Dio, Rivelazione e kenosi in Sergej Bulgakov, Roma 1998, 102-104; 138-142.

39 Questi i due passaggi decisivi: «l’autoespressione del Padre nella generazione del Figlio come la prima “kenosi” intradivina che abbraccia da ogni lato le altre, dal momento che il Padre ivi si disappropria radicalmente della sua divinità e la transappropria al Figlio: egli non la divide con il Figlio, ma la partecipa al Figlio dandogli tutto il suo: “tutto ciò che è tuo è mio” (Gv 17,10)», Teodrammatica, IV, 301. «Mentre il Padre si esprime e dona così senza trattenersi nulla, egli no si perde, né perisce dentro il dono, come allo stesso modo egli non si tiene qualcosa di sé per se stesso giacché egli è l’essenza intera di Dio in questa sua autodonazione, così che in essa si annuncia insieme, tutta l’infinita potenza e impotenza di Dio, che non può essere Dio altrimenti che nella “kenosi” intradivina (Ma quale onnipotenza dev’essere mai generato un Dio di uguale essenza, dunque increato, perfino quando questo atto pretende una donazione di se stesso fino alla più estrema assenza di sé!)», Teodrammatica, IV, 303. Cfr. P. Martinelli, La morte di Cristo come rivelazione dell’amore trinitario, 315-366. Per una presentazione ulteriore di questo concetto assai ardito e per la discussione circa l’accusa di Rahner a Balthasar di neocalcedonismo vedi in dettaglio M. Serretti, Il mistero della eterna generazione del figlio. Attraverso l’opera di Hans Urs von Balthasar, Roma 1998, 84-91; 187-213. Cfr. anche la critica di W. Kasper, Teologia e Chiesa, Brescia 1989, 231n.

40 F.X. Durrwell, Il Padre nel suo mistero, 167. Cfr. anche id., Cristo, l’uomo e la morte, Milano 1993, 86.

40 Importante ci sembra a questo proposito l’osservazione di Greshake che afferma come lo specifico del Padre è quello di essere nella ritmica dell’amore l’abissale e inafferabile mistero dell’essere dono, che dà fondamento e contenuto all’intera communio e quindi come centro delle persone divine; ciò esclude che il Padre sia il principio ontologico di un processo genetico in quanto il centro paterno non è pensabile senza la relazione verso le altre due ipostasi e viceversa. Cfr. Greshake, Der dreieine Gott, 207s.

42 Così si esprime anche Durrwell, Il Padre nel suo mistero, 134: «Nella generazione del Figlio si costituisce la stessa persona del Padre; di conseguenza, il Padre non è anteriore al Figlio, pur essendone l’origine. I due sono co-eterni e l’adeguamento tra di essi è totale, giacché il mistero del Padre si realizza, si esaurisce interamente nella generazione del Figlio».

43 Balthasar, Teodrammatica. IV, 301.

44 Cfr. Balthasar, Teodrammatica. IV, 303.

45 Cfr. Balthasar, Teologica. II, 118.

46 Ancora Greshake spiega bene come nell’essere «Non in Sé ma nell’Altro» che vuol dire simultaneamente «sia affermazioner di sé come affermazione dell’altro», si dà questa originaria positività della differenza e della alterità in Dio: Greshake, Der Dreieine Gott, 207.

47 Balthasar afferma che la libertà infinita di Dio nella eterna generazione permette che in Dio vi siano infiniti spazi di libertà: cfr. Teodrammatica. II, 243. Analogamente è affermato da Durrwell, Il Padre nel suo mistero, 134s: «L’amore del Padre è aperto a una generazione infinita; nel Figlio generato c’è posto per una moltitudine di creature. In Dio esiste una illimitata possibilità di Creazione e, così sembra, una propensione a creare».

48 Cfr. Balthasar, Teodrammatica. IV, 301.

49 De Paenitentia. 8 (PL 1, 1243).


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ultimo aggionamento 13 giugno, 2009